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sabato 15 novembre 2014

Si può uscire dall'Euro?

Si può uscire dall’Euro? A questa domanda si possono dare due risposte: una politica e una giuridica. La risposta politica riguarda l’opportunità dell’uscita dell’Italia dall’euro; la risposta giuridica  la sola che qui interessa  concerne la legittimità di una scelta di questo tipo e – ammesso che ciò sia possibile – il modo in cui possa avvenire
Mi limito a considerare l’ipotesi avanzata da alcune forze politiche europee, e cioè che debbano essere i cittadini italiani a scegliere. In questa prospettiva, la questione andrebbe posta nei seguenti termini: l’Italia è parte dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) e, dunque, membro della zona Euro. L’UEM è stata istituita con il Trattato di Maastricht del 1992 ed è stata realizzata attraverso tre fasi, che hanno progressivamente portato alla nascita dell’Euro. Al Trattato di Maastricht – con il quale è nata l’Unione europea – l’Italia ha dato esecuzione con legge.

La prima domanda è: si può celebrare un referendum abrogativo sulla legge di esecuzione di quel Trattato? La risposta è no. L’art. 75 della Costituzione italiana afferma che “non è ammesso referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. E la Corte costituzionale, con la sentenza n. 16 del 1978, ha chiarito che questo limite riguarda anche le leggi di esecuzione, a nulla rilevando “che l’ordine di esecuzione rappresenti l’oggetto di un apposito atto legislativo […] o sia contemporaneo e contestuale all’autorizzazione, venendo inserito nella medesima legge che consente la ratifica”: “in entrambe le ipotesi, infatti, l’interpretazione logico-sistematica dell’art. 75 secondo comma Cost. impone che vengano respinte le richieste di referendum abrogativo”.

La seconda domanda è: si può celebrare un referendum consultivo sull’Euro? La risposta è: sì, ma nel modo che segue. L’art. 1 dichiara che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Questo vuol dire che, sul piano costituzionale, le forme di espressione della democrazia sono “tipiche”, e cioè sono quelle giuridicamente previste.
Gli istituti di democrazia – che sono prodromici o comunque funzionali all’assunzione di una decisione politica – sono sempre disciplinati dal diritto. Questo non toglie che si possa esprimere il proprio punto di vista su qualcosa, Euro compreso. Ma, qualora ciò non fosse espressamente disciplinato, tale possibilità rientrerebbe nella libera manifestazione del proprio pensiero, come tale garantita dall’art. 21 della Costituzione. In questo caso, non si farebbe ricorso ad uno strumento di democrazia: si tratterebbe di una sorta di sondaggio. Né più e né meno di quello che è accaduto di recente in Veneto: la legge n. 16/2014, di indizione di un referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto, è stata impugnata dal Governo dinanzi alla Corte costituzionale, ma è stata preceduta comunque da un sondaggio online, al quale hanno partecipato più di 2 milioni di cittadini veneti. Nessuno ha avuto nulla da obiettare sul sondaggio, mentre la legge regionale è stata impugnata.

Le forme di esercizio diretto della sovranità popolare sono di vario tipo e trovano espressione attraverso l’iniziativa legislativa popolare, il referendum abrogativo, il referendum confermativo collegato al procedimento di revisione costituzionale, il referendum consultivo sulla istituzione di nuovi comuni, ecc. Come si vede, la Costituzione ha specificato in quali casi sia possibile ricorrere agli strumenti di democrazia. E – stante appunto il tenore letterale dell’art. 1 Cost. – non si potrebbe argomentare che “ciò che non è espressamente vietato è consentito”. Quindi, perché il referendum consultivo sull’Euro possa legittimamente tenersi non vi sarebbero che due strade: 1) modificare la Carta costituzionale; 2) adottare una legge costituzionale che lo preveda.

1) La strada della modifica costituzionale è quella che si vorrebbe imboccare con la riforma costituzionale in itinere: all’art. 71 Cost. si vorrebbe, infatti, introdurre un emendamento che recita: “al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione”. Quali siano gli effetti di un referendum di questo tipo non è dato sapere, in quanto, sul punto, la disposizione rinvia ad una successiva legge costituzionale. La disposizione che si sta introducendo distingue, poi, tra referendum propositivi e referendum di indirizzo. E, dal punto di vista dell’efficacia che i due tipi di referendum avrebbero, la distinzione non è affatto chiara. L’unica cosa che si può dire al riguardo è che il referendum di indirizzo coinciderebbe con quello consultivo.

2) Questo ci introduce al discorso sulla seconda strada: il referendum consultivo indetto con legge costituzionale. In questo caso, la legge costituzionale si proporrebbe non di modificare la Costituzione, ma solo di derogare ad essa. D’altra parte, questo è già accaduto nel 1989, quando con legge costituzionale si è indetto un referendum di indirizzo, volto a conoscere l’orientamento del popolo italiano sul futuro del processo di integrazione. Il quesito – al quale ha risposto positivamente oltre l’80% del corpo elettorale – era il seguente: “Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?”.
La legge costituzionale n. 2/1989 non disciplinava tuttavia gli effetti di tale referendum: nei fatti, si è avuta una mera consultazione del corpo elettorale, con effetti ulteriori inesistenti.

Ma poniamoci un’altra domanda: qualora la legge costituzionale di indizione del referendum  stabilisse che gli organi statali debbano dare seguito all’esito referendario, cosa potrebbe fare concretamente lo Stato? Potrebbe decidere di uscire unilateralmente dall’Euro, dichiarando in sede europea di essere vincolato a ciò da un mandato popolare? La risposta è: no. No perché il diritto europeo non considera l’eventualità che uno Stato membro della zona Euro possa uscirne. Vero è che l’Unione europea distingue tra Stati membri della zona euro (18) e Stati membri con deroga (10); ma questa distinzione è tracciata, appunto, dal diritto europeo, non dal diritto nazionale. E mentre si può sempre entrare nell’Euro (a patto che si rispettino i criteri di convergenza fissati a Maastricht), non si può giuridicamente uscirne una volta entrati. D’altra parte, l’art. 139 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (TFUE), nella parte in cui dichiara che “Gli Stati membri riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano le condizioni necessarie per l’adozione dell’euro sono in appresso denominati «Stati membri con deroga»”, chiarisce che l’uscita dall’Euro non possa essere decisa neppure dall’Unione, in quanto questa previsione si riferirebbe solo agli Stati membri dell’Unione che non siano ancora entrati nell’Euro.

Per quanto ciò sia ipotetico, e a prescindere dagli effetti che si avrebbero, lo Stato membro che volesse uscire dall’Euro avrebbe tre possibilità: 1) violare i Trattati; 2) chiedere una revisione dei Trattati (e ottenere lo status di Stato con deroga); 2) recedere dall’Unione.

1) Il Governo italiano ha sottoscritto i Trattati europei: il TUE, il TFUE, il Fiscal Compact e il Trattato MES. Il Parlamento ha dato esecuzione a tali Trattati con legge. Le relative leggi di esecuzione non potrebbero essere abrogate con referendum, ma potrebbero – del tutto ipoteticamente – essere abrogate con legge del Parlamento (salvo capire se occorra una legge costituzionale). Se questo accadesse, ciò non farebbe venire meno la responsabilità dello Stato italiano dinanzi all’Unione per aver violato gli obblighi. E l’Unione europea potrebbe senz’altro reagire a tale violazione.

2) La revisione dei Trattati sarebbe sempre possibile. Solo che, nonostante l’art. 48 sia ora modificato, la procedura di revisione ordinaria (che è ipotesi diversa da quella semplificata) continua a postulare come necessaria l’unanimità dei consensi da parte di tutti gli Stati membri, posto che “le modifiche entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri” (art. 48, § 4, TUE). Questo renderebbe non impossibile, ma difficilmente praticabile l’uscita dell’Italia dall’UEM.

3) Per poter uscire dall’Euro occorre recedere dall’Unione europea. E questo – per quanto il discorso continui ad essere del tutto ipotetico – sarebbe giuridicamente sempre possibile, posto che tale evenienza è disciplinata dall’art. 50 TUE, ove, tra l’altro, si prevede che, in ogni tempo, lo Stato che sia uscito dall’UE possa chiedere di esservi riammesso, secondo la procedura indicata all’art. 49 TUE. È in quella sede che l’Italia potrebbe allora “contrattare” le condizioni della sua riammissione all’Unione e porre in discussione la sua partecipazione alla zona Euro.


Enzo Di Salvatore

giovedì 1 maggio 2014

La Commissione europea rilancia le fonti fossili e frena le rinnovabili: un successo per le lobbies di gas e petrolio e una “Caporetto” per l’economia italiana

Lo scorso 9 aprile la Commissione Europea ha approvato le nuove “linee guida” sugli aiuti di Stato per il settore dell’energia e per l’ambiente (“Guidelines on State aid for environmental protection and energy 2014-2020”). L’atto varato dalla Commissione, frutto di un vero e proprio colpo di mano del Commissario spagnolo alla concorrenza Joaquín Almunia, si propone di esentare i settori produttivi maggiormente energivori ed inquinanti, spesso poco efficienti dal punto di vista energetico, dal contribuire al sostegno finanziario ai sistemi di incentivazione o di aiuto di Stato alle fonti rinnovabili, che andranno gradualmente a scomparire a partire dal 2016.
A beneficiare della misura, fortemente contrastata dal Comitato delle Regioni, saranno soprattutto i settori chimico, siderurgico, metallurgico, elettronico, petrolifero e del gas. Chi pagherà in loro vece? La risposta è contenuta nel titolo e nell’occhiello di un articolo pubblicato su La Stampa il 9 aprile scorso: “Commissione Ue esenta l’industria dal contributo a rinnovabili – Aiuti di Stato tedeschi estesi a tutti. Pagheranno i consumatori”. Chi perde e chi vince? A soccombere sono gli obiettivi di politica ambientale dell’Unione; a prevalere sono gli interessi delle potenti lobbies, che condizionano, fino a dettarle, le decisioni delle istituzioni europee. Su tutte, il cosiddetto “Gruppo Magritte”, in cui spiccano l’Enel e l’Eni.
Vediamo perché.
A partire dal 2016, e dopo aver testato le nuove procedure su una parte delle produzioni elettriche da fonte “green”, il prezzo dell’elettricità dovrà essere progressivamente garantito da meccanismi legati all’andamento del mercato. Con un’eccezione, però: in virtù dell’atto approvato dalla Commissione, le grandi utilities proprietarie di centrali termoelettriche, giovandosi della legalizzazione di quel meccanismo nient’affatto concorrenziale che va sotto il nome di capacity payment, vedranno riconoscersi sovvenzioni pubbliche in cambio di “sicurezza” per il sistema elettrico.
Una vera manna per le multinazionali (specie per quelle in perdita), i cui investimenti in impianti di produzione elettrica da fonti fossili tardano a “rientrare”, sia a causa del calo della domanda di energia determinato dalla crisi, sia perché costretti a far fronte alla concorrenza delle fonti rinnovabili (fotovoltaico in testa), che, con riferimento alla produzione di energia elettrica, hanno priorità di dispacciamento proprio nelle ore in cui si registrano i picchi di consumo.
La Commissione ha usato due pesi e due misure: amorevole e premurosa con i gruppi industriali dell’energia fossile e con la siderurgia made in Germany, per i quali l’atto ha effetto immediato e, di fatto, retroattivo; “matrigna” non solo con le fonti pulite e rinnovabili, ma anche e soprattutto con le imprese, che negli ultimi anni hanno scommesso sull’efficienza energetica per acquisire competitività sul mercato.
Sotto il profilo più squisitamente politico-giuridico, l’approvazione dell’atto da parte della Commissione presenta una seconda grave criticità: utilizzando il “cavallo di Troia” delle “linee guida”, che non necessitano di approvazione né del Parlamento né del Consiglio, e facendo leva sulle proprie prerogative di Autorità antitrust, i tecnocrati della Commissione hanno assunto decisioni, che incideranno pesantemente sulla politica ambientale, climatica ed energetica dell’Unione.
Il Parlamento continua, di fatto, ad essere espropriato della sua funzione legislativa, senza che il suo Presidente Schulz, oggi candidato del PSE alla Presidenza della Commissione, proferisca parola.
È tutto frutto del caso? Non proprio, visto che l’intera vicenda si sviluppa sull’asse Almunia-Schulz-Merkel.
A cantar vittoria è soprattutto la Germania, il cui Governo ha lungamente trattato con la Commissione affinché fosse fatto salvo il sistema degli aiuti di Stato alle industrie energivore, che la Merkel ha alimentato negli ultimi tre anni in strisciante violazione delle normative antidumping dell’UE e che ora viene di fatto legalizzato ex-post.
Per l’Italia è una disfatta politica, economica ed energetica in piena regola: sapientemente occultata dai protagonisti del nuovo corso renziano e relegata ai margini del dibattito in vista delle prossime elezioni europee.

ENZO DI SALVATORE
ENRICO GAGLIANO

giovedì 10 aprile 2014

Cosa importa all'Europa delle nostre riforme costituzionali

Nelle scorse settimane il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha incontrato alcuni leaders europei e ha illustrato loro il pacchetto di riforme costituzionali che il Governo vorrebbe far approvare dal Parlamento. Angela Merkel e François Hollande – ha dichiarato Renzi – si sono detti “colpiti” da tale proposito, perché “è il segno che l’Italia è pronta a fare la sua parte nel percorso di cambiamento in corso”: “come possiamo essere credibili a chiedere un’altra Europa se da trent’anni la discussione sul bicameralismo è sempre quella?”.
La domanda che occorrerebbe porre al Presidente Renzi è la seguente: “Cosa dovrebbe importare alla Merkel e a Hollande delle nostre riforme costituzionali?”. Non si capisce, infatti, perché dovremmo essere più credibili sul piano europeo se, dico per dire, il Governo italiano, anziché trovare una qualsivoglia soluzione alla corruzione dilagante e all’evasione fiscale, dichiari solennemente il proprio impegno a modificare il sistema parlamentare italiano e le relazioni che lo Stato intrattiene con le autonomie territoriali. Ciò, almeno, non è di immediata evidenza. È sufficiente, tuttavia, leggere il disegno di legge di revisione costituzionale approvato il 31 marzo in Consiglio dei Ministri per capirne il perché.
L’art. 114 della Costituzione, com’è noto, afferma che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” e che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Con questa dichiarazione – introdotta nel 2001 – si era inteso dire che l’autonomia degli Enti locali dovesse dipendere non più dalla legge dello Stato, ma dalla Costituzione; ciò avrebbe accordato agli Enti locali la possibilità di definire da se medesimi lo statuto, i poteri e le funzioni. Tale autonomia, tuttavia, conosceva taluni temperamenti, ricavabili dalla stessa Carta costituzionale, in quanto l’art. 117, comma 2, lett. p) attribuiva allo Stato la competenza a disciplinare con legge gli “organi di governo” e le “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”.
Il testo licenziato ora dal Governo tenta di far rientrare dalla finestra quello che si era voluto buttare fuori dalla porta: il disegno di legge costituzionale vorrebbe, infatti, affidare al Parlamento la competenza ad intervenire con legge in materia di ordinamento locale tout court. La qual cosa finirebbe per ridurre di molto l’autonomia costituzionale degli Enti locali, fino al punto da vanificarne la stessa essenza.
Guardiamo a quel che accade sul fronte delle relazioni dello Stato con le Regioni. Circa il nuovo riparto delle competenze legislative, il disegno di legge del Governo attribuisce nuove materie in capo allo Stato: oltre a riconfermare nelle mani dello stesso l’ambiente e l’ecosistema, l’art. 117 della Costituzione affida al Parlamento anche la competenza esclusiva sui beni culturali e paesaggistici, sulle norme generali sulle attività culturali, sul turismo, sull’ordinamento sportivo, sulla produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, sulle norme generali sul governo del territorio, sulle infrastrutture strategiche. Se si provasse a fare un “mix” tra tutte queste “materie”, si comprenderebbe chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito dal Governo: dare il via libera alla realizzazione delle c.d. “grandi opere”, comprese quelle controverse e contestate soprattutto dalle collettività locali. Si pensi al MUOS in Sicilia o ad Ombrina mare in Abruzzo.
A cosa serve, dunque, ricondurre in capo allo Stato la competenza legislativa su tali “materie”? Ad evitare che le Regioni possano legiferare sulle stesse e a far saltare le garanzie che la Corte costituzionale aveva individuato in favore delle autonomie territoriali. Mi limito a considerare la materia energetica. Sebbene la riforma costituzionale del 2001 abbia attribuito l’energia alla competenza concorrente dello Stato (chiamato a stabilire i principi fondamentali) e della Regione (chiamata a disciplinare il dettaglio), la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa sì disciplinare per intero la materia energetica in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento dell’intesa. Con il disegno di legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece, meno. L’intesa della Regione, infatti, si configura come una sorta di compensazione per la “perdita” di competenza dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Detto altrimenti: la competenza sull’energia è – secondo la Costituzione vigente – dello Stato e della Regione ad un tempo. Esigenze di carattere unitario – collegate a ragioni di politica economica nazionale – impongono, tuttavia, che solo lo Stato provveda in materia. Questa decisione – perché possa ritenersi legittima – impone che le Regioni (e anche gli Enti locali) siano coinvolti nei processi decisionali. Se passerà il pacchetto delle riforme tale coinvolgimento non sarà più costituzionalmente necessario.
Ma non è tutto. Il testo licenziato dal Governo stabilisce, inoltre, che “su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale”. In questo modo, come si vede, nessuna delle materie di competenza regionale resterà immune dall’intervento statale. Lo Stato potrà intervenire sempre, in ogni tempo, solo perché magari il Governo avrà valutato che l’esercizio della competenza legislativa della Regione possa compromettere la realizzazione di taluni (non meglio precisati) “programmi”.
Ecco, mi pare abbastanza chiaro perché la Merkel e Hollande dichiarino di essere favorevolmente “colpiti” dalle riforme di Renzi. Perché tali riforme vanno esattamente nella direzione da loro auspicata ovvero tendono a rimuovere tutti quei lacci e lacciuoli, che si frappongono ad una rapida e unilaterale decisione dello Stato (indotta, magari, da una “richiesta” dell’Europa). Lacci e lacciuoli che in altri tempi, e con una parola sola, si sarebbero chiamati “democrazia”. Ma, se così fosse, allora qualche dubbio di compatibilità del disegno di legge con il principio fondamentale di garanzia (sostanziale) dell’autonomia recata in favore degli enti territoriali ex art. 5 Cost. andrebbe seriamente posto.


ENZO DI SALVATORE