giovedì 13 marzo 2014

Ambiente: in Europa il PD si inchina al PPE e a Cameron

L’eurodeputato Andrea Zanoni (PD) ha annunciato trionfalisticamente che l’Unione europea si è finalmente dotata di una più moderna ed efficace direttiva sulla valutazione di impatto ambientale e ha dichiarato che in questo modo è stata posta “una pietra miliare nella storia della politica ambientale dell’UE”: se ciò è accaduto lo si deve in gran parte a lui.
A dire il vero, la proposta di direttiva è stata elaborata dalla Commissione e successivamente inviata al Consiglio e al Parlamento, entrambi coinvolti nella procedura legislativa ordinaria. E per capire quanta poca sostanza vi sia nel comunicato diramato dall’eurodeputato è sufficiente leggere attentamente le carte.
Sono trascorsi quasi 30 anni dalla prima direttiva sulla VIA e, nonostante le modifiche apportate nel corso del tempo, i fautori del “fare a tutti i costi” hanno inteso varare una “regolamentazione intelligente”. Nella proposta di direttiva si legge che il ricorso alla valutazione di impatto ambientale comporta sempre costi economici notevoli, con ripercussioni negative sul mercato interno. Per questo è necessario semplificare.
Nessuno nega che la direttiva rechi previsioni condivisibili. Ma l’idea che si continua ad avere dell’ambiente è ancora ferma al 1985: le ragioni economiche devono prevalere comunque sulle ragioni dei beni comuni. Hanno, cioè, sempre la precedenza.
In questa direzione mi pare possano essere lette anche le affermazioni rinunciatarie di Zanoni: “Desidero rendere omaggio alla determinazione della Commissione che ha proposto questo testo sicuramente necessario, ma purtroppo – e lo dico a malincuore – forse troppo ambizioso rispetto alla sensibilità di gran parte di quest’Assemblea. In qualità di relatore da subito ho dichiarato il mio pieno e convinto appoggio a questa proposta condividendone i contenuti. Di conseguenza, le mie proposte si sono limitate a rafforzare il testo come, ad esempio, introdurre una chiara norma contro il conflitto di interessi, o a proporre l’adozione di misure correttive nel caso in cui il monitoraggio e le conseguenti misure di compensazione fossero inefficaci”.
In buona sostanza Zanoni ammette che si è trattato di qualche aggiustamento qua e là.
Se è vero che con la nuova direttiva si rafforza, da un lato, il bagaglio delle informazioni da rendere ai cittadini e si introducono ai fini della valutazione elementi nuovi, è anche vero che, dall’altro, si cerca di limitare la VIA a progetti che possano avere effetti significativi sull’ambiente.
Non si può dire, poi, che la nuova direttiva sia particolarmente generosa con i cittadini, visto che concede loro pochi giorni per esprimere il proprio punto di vista; mentre l’autorità competente è tenuta ad adottare la sua decisione entro tre mesi.
Fortunatamente la sindrome del “procedere rapidamente” (e che sul piano nazionale fa il paio con “il governo del fare”) almeno in un caso è stata debellata, visto che un emendamento proposto dal Parlamento non compare più nella versione licenziata ieri: quella che diceva che “per evitare inutili sforzi e costi superflui” i progetti da sottoporre eventualmente a valutazione di impatto ambientale avrebbero dovuto “contenere una bozza di documento, non superiore alle 30 pagine”. Come se la complessità scientifica possa essere misurata e costretta entro qualche foglio A4.
Accanto a molte conferme, la direttiva reca anche qualche novità (di troppo). Per un verso, si continua a stabilire che “gli Stati membri, in casi eccezionali, possono esentare un progetto specifico dalle disposizioni stabilite nella presente direttiva, in cui l’applicazione di tali disposizioni potrebbero alterare le finalità del progetto, a condizione che gli obiettivi della presente direttiva siano soddisfatti”; per altro verso, si prevede che “nei casi in cui un progetto è adottato da uno specifico atto legislativo nazionale, gli Stati membri possono esentare tale progetto dalle disposizioni relative alla consultazione pubblica prevista dalla presente direttiva, a condizione che gli obiettivi della presente direttiva siano rispettate”.
La direttiva stabilisce, inoltre, che le sue norme non trovino applicazione (e che dunque non si proceda a valutazione di impatto ambientale) ai progetti concernenti la difesa (anche quella relativa alle attività degli alleati, come si specifica nel preambolo della direttiva) e le emergenze civili. E mi pare che in Italia gli esempi non manchino (MUOS, terra dei fuochi, ecc.).
Ma arriviamo ad una delle questioni più spinose: il fracking (la frantumazione delle rocce porose di origine argillosa – scisti – mediante l’utilizzo di liquidi saturi di sostanze chimiche).
Nell’ottobre del 2013 Zanoni ha affermato: “È indispensabile che siano sottoposti a valutazione ambientale anche i progetti di estrazione del gas di scisto che utilizzano la tecnologia del fracking, cioè la fratturazione idraulica, una tecnologia molto impattante perché può causare impatti molto negativi sulla falda acquifera a causa dell’inquinamento che potrebbe essere prodotto[...]. Ci sono casi eclatanti nel Nord America dove questi impianti hanno causato l’avvelenamento delle falde acquifere. In Europa dobbiamo dotarci di tutte le normative necessarie che prevengano ogni problema ambientale per l’estrazione di questi gas”.
Come è andata a finire? Che la previsione della sottoposizione di tali progetti alla valutazione di impatto ambientale è stata immediatamente cancellata. E questo perché l’Europa si è dovuta piegare ai diktat provenienti da Oltremanica. Nel corso del 44° World Economic Forum di Davos in Svizzera, il premier britannico David Cameron ha, infatti, esortato l’Europa ad abbandonare l’idea d’introdurre regole particolarmente gravose per le società operanti nello shale gas, onde evitare la fuga degli investitori. Tali affermazioni sono state rilasciate proprio mentre la francese Total annunciava l’acquisizione del 40% di due permessi di esplorazione per lo shale gas nelle Midlands inglesi.
Per riscuotere successo tra i cittadini inglesi, e neutralizzare così le proteste degli ambientalisti, il conservatore Cameron ha promesso di lasciare agli enti locali il 100% (raddoppiando l’attuale 50%) del gettito derivante dalle tasse pagate dalle società che praticano il fracking: circa 1,7 milioni di sterline per impianto, cui vanno aggiunte 100 mila sterline per ogni esplorazione e la partecipazione – pari all’1% – ai ricavi derivanti dalla produzione. In questo modo, i problemi derivanti da tale pratica estrattiva sono passati rapidamente in secondo piano e il governo ha potuto conseguire indisturbato i propri obiettivi. Greenpeace le ha definite “bribes”, ossia: mazzette.
Le pressioni sul commissario all’Ambiente, Janez Potonick, e sul commissario per il Clima, Connie Hedegaard, hanno, dunque, avuto la meglio: per ora non conviene parlare di fracking. Che tradotto in parole più esplicite vuol dire: per ora non occorre sottoporre obbligatoriamente a valutazione di impatto ambientale l’attività di fracking. Ogni Stato membro faccia pure quel che vuole.

Eppure Zanoni sostiene che il Parlamento europeo “ha agito nel solo ed esclusivo interesse dei 500 milioni di europei, della loro salute e dell’ambiente in cui vivono”. Che dire? Se ci crede lui.

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