L’eurodeputato Andrea Zanoni (PD)
ha annunciato trionfalisticamente che l’Unione europea si è finalmente dotata
di una più moderna ed efficace direttiva sulla valutazione di impatto
ambientale e ha dichiarato che in questo modo è stata posta “una pietra miliare nella storia della
politica ambientale dell’UE”: se ciò è accaduto lo si deve in gran parte a
lui.
A dire il vero, la proposta di
direttiva è stata elaborata dalla Commissione e successivamente inviata al
Consiglio e al Parlamento, entrambi coinvolti nella procedura legislativa
ordinaria. E per capire quanta poca sostanza vi sia nel comunicato diramato
dall’eurodeputato è sufficiente leggere attentamente le carte.
Sono trascorsi quasi 30 anni dalla
prima direttiva sulla VIA e, nonostante le modifiche apportate nel corso del
tempo, i fautori del “fare a tutti i costi” hanno inteso varare una “regolamentazione
intelligente”. Nella proposta di direttiva si legge che il ricorso alla
valutazione di impatto ambientale comporta sempre costi economici notevoli, con
ripercussioni negative sul mercato interno. Per questo è necessario semplificare.
Nessuno nega che la direttiva
rechi previsioni condivisibili. Ma l’idea che si continua ad avere dell’ambiente
è ancora ferma al 1985: le ragioni economiche devono prevalere comunque sulle
ragioni dei beni comuni. Hanno, cioè, sempre la precedenza.
In questa direzione mi pare
possano essere lette anche le affermazioni rinunciatarie di Zanoni: “Desidero rendere omaggio alla determinazione
della Commissione che ha proposto questo testo sicuramente necessario, ma
purtroppo – e lo dico a malincuore – forse troppo ambizioso rispetto alla
sensibilità di gran parte di quest’Assemblea. In qualità di relatore da subito
ho dichiarato il mio pieno e convinto appoggio a questa proposta condividendone
i contenuti. Di conseguenza, le mie proposte si sono limitate a rafforzare il
testo come, ad esempio, introdurre una chiara norma contro il conflitto di
interessi, o a proporre l’adozione di misure correttive nel caso in cui il
monitoraggio e le conseguenti misure di compensazione fossero inefficaci”.
In buona sostanza Zanoni ammette
che si è trattato di qualche aggiustamento qua e là.
Se è vero che con la nuova direttiva
si rafforza, da un lato, il bagaglio delle informazioni da rendere ai cittadini
e si introducono ai fini della valutazione elementi nuovi, è anche vero che,
dall’altro, si cerca di limitare la VIA a progetti che possano avere effetti
significativi sull’ambiente.
Non si può dire, poi, che la
nuova direttiva sia particolarmente generosa con i cittadini, visto che concede
loro pochi giorni per esprimere il proprio punto di vista; mentre l’autorità
competente è tenuta ad adottare la sua decisione entro tre mesi.
Fortunatamente la sindrome del
“procedere rapidamente” (e che sul piano nazionale fa il paio con “il governo
del fare”) almeno in un caso è stata debellata, visto che un emendamento proposto
dal Parlamento non compare più nella versione licenziata ieri: quella che diceva
che “per evitare inutili sforzi e costi superflui” i progetti da sottoporre
eventualmente a valutazione di impatto ambientale avrebbero dovuto “contenere
una bozza di documento, non superiore alle 30 pagine”. Come se la complessità
scientifica possa essere misurata e costretta entro qualche foglio A4.
Accanto a molte conferme, la
direttiva reca anche qualche novità (di troppo). Per un verso, si continua a
stabilire che “gli Stati membri, in casi
eccezionali, possono esentare un progetto specifico dalle disposizioni
stabilite nella presente direttiva, in cui l’applicazione di tali disposizioni
potrebbero alterare le finalità del progetto, a condizione che gli obiettivi
della presente direttiva siano soddisfatti”; per altro verso, si prevede
che “nei casi in cui un progetto è
adottato da uno specifico atto legislativo nazionale, gli Stati membri possono
esentare tale progetto dalle disposizioni relative alla consultazione pubblica
prevista dalla presente direttiva, a condizione che gli obiettivi della presente
direttiva siano rispettate”.
La direttiva stabilisce, inoltre,
che le sue norme non trovino applicazione (e che dunque non si proceda a
valutazione di impatto ambientale) ai progetti concernenti la difesa (anche
quella relativa alle attività degli alleati, come si specifica nel preambolo
della direttiva) e le emergenze civili. E mi pare che in Italia gli esempi non
manchino (MUOS, terra dei fuochi, ecc.).
Ma arriviamo ad una delle
questioni più spinose: il fracking (la frantumazione delle rocce porose di
origine argillosa – scisti – mediante l’utilizzo di liquidi saturi di sostanze
chimiche).
Nell’ottobre del 2013 Zanoni ha affermato:
“È indispensabile che siano sottoposti a valutazione ambientale anche i
progetti di estrazione del gas di scisto che utilizzano la tecnologia del
fracking, cioè la fratturazione idraulica, una tecnologia molto impattante
perché può causare impatti molto negativi sulla falda acquifera a causa dell’inquinamento
che potrebbe essere prodotto[...]. Ci sono casi eclatanti nel Nord America dove
questi impianti hanno causato l’avvelenamento delle falde acquifere. In Europa
dobbiamo dotarci di tutte le normative necessarie che prevengano ogni problema
ambientale per l’estrazione di questi gas”.
Come è andata a finire? Che la
previsione della sottoposizione di tali progetti alla valutazione di impatto
ambientale è stata immediatamente cancellata. E questo perché l’Europa si è
dovuta piegare ai diktat provenienti da Oltremanica. Nel corso del 44° World
Economic Forum di Davos in Svizzera, il premier britannico David Cameron ha,
infatti, esortato l’Europa ad abbandonare l’idea d’introdurre regole
particolarmente gravose per le società operanti nello shale gas, onde evitare
la fuga degli investitori. Tali affermazioni sono state rilasciate proprio
mentre la francese Total annunciava l’acquisizione del 40% di due permessi di
esplorazione per lo shale gas nelle Midlands inglesi.
Per riscuotere successo tra i
cittadini inglesi, e neutralizzare così le proteste degli ambientalisti, il
conservatore Cameron ha promesso di lasciare agli enti locali il 100% (raddoppiando
l’attuale 50%) del gettito derivante dalle tasse pagate dalle società che
praticano il fracking: circa 1,7 milioni di sterline per impianto, cui vanno
aggiunte 100 mila sterline per ogni esplorazione e la partecipazione – pari all’1%
– ai ricavi derivanti dalla produzione. In questo modo, i problemi derivanti da
tale pratica estrattiva sono passati rapidamente in secondo piano e il governo ha
potuto conseguire indisturbato i propri obiettivi. Greenpeace le ha definite
“bribes”, ossia: mazzette.
Le pressioni sul commissario all’Ambiente,
Janez Potonick, e sul commissario per il Clima, Connie Hedegaard, hanno,
dunque, avuto la meglio: per ora non conviene parlare di fracking. Che tradotto
in parole più esplicite vuol dire: per ora non occorre sottoporre
obbligatoriamente a valutazione di impatto ambientale l’attività di fracking.
Ogni Stato membro faccia pure quel che vuole.
Eppure Zanoni sostiene che il
Parlamento europeo “ha agito nel solo ed esclusivo interesse dei 500 milioni di
europei, della loro salute e dell’ambiente in cui vivono”. Che dire? Se ci
crede lui.
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