lunedì 24 febbraio 2014

Matteo Renzi e le riforme necessarie

Nel discorso programmatico tenuto in Senato, Matteo Renzi ha affermato che è giunto il tempo delle “scelte radicali”. Alleggerire la macchina burocratica, riformare la giustizia, ripensare profondamente il ruolo della seconda Camera ed anche le relazioni tra tutti gli enti territoriali della Repubblica: questo è quanto chiedono i cittadini, che, per definizione, sono sempre più “avanti” della classe politica che siede in Parlamento.
Negli appalti pubblici – sostiene Renzi – “lavorano più gli avvocati che i muratori”. E questo significa che qualcosa non funziona: non è più sostenibile che “i tribunali amministrativi regionali” debbano “discettare di tutto” e che “un provvedimento di un sindaco (in alcuni casi, anche del Parlamento) è comunque costantemente rimesso in discussione in una corsa ad ostacoli impressionante”.
Un brivido corre lungo la schiena. Secondo Renzi tutto questo è necessario perché in Italia non vi è più certezza del diritto. La domanda è: certezza del diritto del cittadino o degli investitori stranieri, i quali ritengono che l’ordinamento giuridico italiano sia un coacervo di norme buono soltanto ad ostacolare la realizzazione di progetti faraonici? Il dubbio è legittimo vista l’insistenza di Renzi sulla questione degli investimenti.
Ora, se, sulla base di date regole, gli atti amministrativi e le leggi della Repubblica sono soggetti ad impugnazione dinanzi agli organi di giustizia amministrativa (nel primo caso) e dinanzi alla Corte costituzionale (nel secondo caso) non è certo perché si è inteso volutamente organizzare in modo farraginoso la macchina della giustizia, ma perché quelle regole sono dettate a garanzia dei diritti dei cittadini. È quindi del tutto normale che – in ossequio al principio dello Stato di diritto – si debba poter “rimettere in discussione” tanto il provvedimento di un Sindaco quanto una legge del Parlamento dal punto di vista della loro legittimità. Nessuna decisione dei pubblici poteri – per quanto esigenze di celerità lo impongano – può tollerare scorciatoie, che facciano saltare il sistema di garanzia dei diritti. D’altra parte perché meravigliarsi? Appena due mesi fa il Governo Letta ha pensato bene di introdurre nel DDL sulla riforma del processo civile (collegato alla legge di stabilità 2014) un articolo che prevede che “anche al fine di favorire lo smaltimento dell’arretrato civile, il giudice possa definire i giudizi di primo grado mediante dispositivo corredato dall’indicazione dei fatti e delle norme che consentano di delimitare l’oggetto dell’accertamento, riconoscendo alle parti il diritto di ottenere a richiesta e previa anticipazione del contributo unificato, la motivazione del provvedimento da impugnare”. In pratica: per conoscere le motivazioni di una sentenza occorre pagare. Previsione, questa, oltre che di dubbia utilità ai fini della deflazione dei processi civili, palesemente illegittima perché posta in violazione dell’art. 111 della Costituzione, ove si stabilisce chiaramente che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, e dell’art. 24 della Costituzione, ove si riconosce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” (non potendosi, infatti, valutare l’opportunità di una impugnazione di una sentenza se non se ne conoscono le motivazioni).
È questa l’idea di certezza del diritto che ha in mente Renzi?
In relazione alla proposta di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione Renzi afferma quanto segue: “Oggi il procedimento legislativo è farraginoso: lo sapete meglio voi di me. Oggi il numero dei parlamentari è eccessivo rispetto ai Paesi europei (…). Oggi c’è la possibilità di superare l’attuale conformazione del Senato, mantenendo fermi il no al voto di fiducia e il no al voto di bilancio e la possibilità di svolgere la funzione senatoriale, non come incarico figlio di un’elezione diretta e con un’indennità, ma, come nel modello tedesco, attraverso l’assunzione di responsabilità dai territori, impreziosito eventualmente - ci sono proposte in questo senso - da ulteriori figure espressioni del mondo culturale, accademico ed universitario. Questo tipo di proposta è il primo passo per recuperare la credibilità da parte dei cittadini nei nostri confronti. Quello immediatamente successivo è superare il Titolo V della Costituzione per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Il Titolo V oggi ha la necessità di rivedere le competenze esclusive dello Stato e delle Regioni e di introdurre la possibilità per le Regioni di legiferare in ogni materia che non sia specificamente assegnata, ma contemporaneamente di introdurre una clausola di intervento della legge statale anche in materie che siano esclusivamente assegnate alla competenza regionale quando questo sia richiesto da esigenze di unità economica e giuridica dell’ordinamento. Noi prendiamo atto che, in questi anni, il ricorso alla Corte costituzionale, non dico che ha ingolfato la Corte, perché sarebbe scarsamente rispettoso delle Istituzioni, ma ha comunque provocato un eccesso di tensione tra le Regioni e lo Stato. Se noi oggi diciamo che non possiamo sostituire e tornare ad un centralismo della burocrazia statale, come ci siamo detti anche in occasione di questo intervento, è anche altrettanto vero che abbiamo bisogno di chiedere alle donne e agli uomini che guidano le Regioni e che ne fanno parte di prendere atto che è cambiato il clima nei confronti delle Regioni. È cambiato il clima sicuramente per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali, ma è accaduto anche che, troppo spesso, la sovrapposizione di competenze dei Comuni, delle Province, delle Regione e dello Stato centrale con la linea europea a dare in qualche misura un ulteriore elemento di complicazione, ha reso sostanzialmente ingovernabile il sistema istituzionale. Noi proponiamo che, fin dal mese di marzo, la riforma del Senato parta del Senato e che la riforma del Titolo V parta dalla Camera”.
Secondo Renzi, il nuovo Senato dovrebbe comporsi di 108 rappresentanti degli Enti locali, 21 rappresentanti delle Regioni e 21 alte personalità nominate dal Presidente della Repubblica (ma non era stato abolito il Senato del Regno?). In questo modo, come si vede, le Regioni (titolari di una competenza legislativa) sarebbero messe all’angolo dagli Enti locali (titolari di funzioni amministrative). Quali siano poi le funzioni di tale Camera – e cioè con quali poteri partecipi al procedimento legislativo – non è dato sapere. Come se fosse un dettaglio trascurabile.
Si provi ora a saldare questa brillante proposta con quella (concomitante) di revisione del Titolo V. La riforma dell’assetto delle competenze legislative e amministrative che Renzi vorrebbe effettuare andrebbe in ogni caso a vantaggio dello Stato: non solo perché alcune nuove materie verrebbero ricondotte entro la competenza esclusiva dello Stato (l’energia, il turismo, ecc.), ma anche perché su quelle assegnate alle Regioni graverebbe in ogni tempo la minaccia della c.d. “clausola di supremazia”, simile – si ritiene – a quella presente negli ordinamenti federali e di cui già si discorreva nel disegno di legge di revisione costituzionale varato a suo tempo dal Presidente del Consiglio Monti: in questo modo, lo Stato avrebbe l’opportunità di decidere, di volta in volta, se la competenza regionale su una data materia debba essere esercitata dal Consiglio regionale oppure direttamente dal Parlamento.
Vero è che tale clausola ricorre nei sistemi federali, ma in nessun caso essa sta a significare che lo Stato centrale possa attrarre a sé una competenza legislativa degli Stati membri a proprio piacimento. La “clausola di supremazia” è una norma di chiusura del sistema, non una norma sul riparto delle competenze. E pertanto può essere attivata solo a patto che si sia rispettato il riparto costituzionale delle competenze.
È evidente che con il suo pacchetto di riforme Renzi vorrebbe depotenziare il ruolo che le autonomie territoriali attualmente godono entro il sistema costituzionale della Repubblica. E certamente non perché sia “cambiato il clima nei confronti delle Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché (soprattutto) l’attività delle Regioni – intese come “macro Stati che pensano di poter governare tutto” (parole dello stesso Renzi) – sarebbe d’intralcio all’operato del governo del fare. Senza neppure che ci si chieda come mai la nostra Costituzione ha inteso informare la struttura della Repubblica al principio del decentramento politico-istituzionale.
Lo vorrei ricordare con le parole che Carlo Esposito – esimio costituzionalista – espresse nel lontano 1954: “la coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce, nella nostra Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un utile strumento di buona legislazione ed amministrazione (…). Queste autonomie non hanno rilievo solo per la organizzazione amministrativa, ma incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato”, costituendo “per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà”.

ENZO DI SALVATORE


giovedì 13 febbraio 2014

Audizione sulle attività petrolifere in mare - Camera dei Deputati - 13 febbraio 2014





Relazione

di

Enzo Di Salvatore 

(13 febbraio 2014)


Oggetto: Risoluzione 7-00034 – Commissioni riunite (VIII e X) - Camera dei Deputati


1. La legge 11 gennaio 1957, n. 6 aveva disciplinato le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi e stabilito che essa trovasse applicazione in tutto il territorio dello Stato ad eccezione della Sicilia, della Sardegna e del Trentino-Alto Adige e delle “zone diverse da quelle delimitate nella tabella A, allegata alla legge 10 febbraio 1953, n. 136” ossia di quelle aree territoriali riservate all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI)[1].
Con la legge 21 luglio 1967, n. 613 si era quindi recata una disciplina di dette attività in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale, provvedendosi in parte a sostituire e in parte ad abrogare alcune previsioni della legge del 1957. Per la prima volta si introduceva una disciplina dell’attività di prospezione “consistente in rilievi geologici, geofisici e geochimici, eseguiti con qualunque metodo o mezzo, escluse le perforazioni meccaniche fatta eccezione per quelle necessarie per compiere i rilievi geofisici” e si stabiliva che il permesso di ricerca “esclusivo” fosse rilasciato con decreto del Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato unitamente all’approvazione del programma dei lavori per una durata massima di quattro anni; che al titolare del permesso, che avesse rinvenuto idrocarburi liquidi o gassosi, fosse da accordare senz’altro la concessione alla coltivazione secondo l’estensione e la configurazione dell’area determinata con decreto dello stesso Ministro e per una durata massima di trenta anni (prorogabili per altri dieci); che oltre alla corresponsione anticipata di un canone per ciascun anno di durata della concessione, il concessionario dovesse corrispondere allo Stato una aliquota del prodotto pari al nove per cento della quantità di idrocarburi estratti. 
La legge 9 gennaio 1991, n. 9 abrogava diverse disposizioni delle leggi del 1957 e del 1967 e disponeva che alcune previsioni concernenti la coltivazione degli idrocarburi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale fossero estese anche alle concessioni di coltivazione in terraferma. Con essa si stabiliva – per la prima volta – che la prospezione, la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi dovessero essere assoggettate a valutazione di impatto ambientale (VIA) e “a ripristino territoriale nei limiti e con le procedure previsti dalla normativa vigente” (art. 2, comma 3) ossia secondo quanto previsto dalla legge 8 luglio 1986, n. 349, il cui art. 6 dettava una disciplina transitoria della VIA, in attesa che si desse compiuta attuazione alla Direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985.
La legge n. 9/1991 faceva divieto di esercitare le attività relative agli idrocarburi nelle acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi, “fatti salvi i permessi, le autorizzazioni e le concessioni in atto” (art. 4) e sospendeva i permessi di ricerca nelle zone dichiarate parco nazionale o riserva marina (art. 6, comma 13). Essa contemplava la possibilità che il permesso di ricerca fosse revocato “anche su istanza di pubbliche amministrazioni o di associazioni di cittadini”, per “gravi motivi attinenti al pregiudizio di situazioni di particolare valore ambientale o archeologico-monumentale” (art. 6, comma 11).  
In questo modo, si disciplinava in modo unitario – e cioè sia in relazione alla terraferma sia in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentalele diverse fasi della prospezione, della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, stabilendosi che i relativi titoli fossero rilasciati dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentito il Comitato tecnico per gli idrocarburi e la geotermia e la Regione o la Provincia autonoma di Trento o di Bolzano territorialmente interessata.
La Regione Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano impugnavano, tuttavia, detta disciplina dinanzi alla Corte costituzionale, denunciando l’indebita avocazione in capo allo Stato delle competenze legislative in materia di idrocarburi ovvero la lesione di competenze costituzionalmente garantite, determinata dal ruolo meramente consultivo riservato ad esse dalla legge, “del tutto parificato a quello delle regioni a statuto ordinario prive di attribuzioni costituzionali nel settore delle miniere”.
Con sentenza n. 482/1991, la Corte costituzionale, dopo aver sostenuto che la legge censurata si proponesse non già di recare “misure settoriali su singole materie”, ma di predisporre “una serie di strumenti” finalizzati “ad una gestione globale ed integrata delle risorse energetiche sul territorio” (con ciò trasferendo di fatto la problematica dall’ambito materiale delle “miniere” al “settore dell’energia”), dichiarava illegittime alcune disposizioni della legge per non aver previsto il rilascio dell’intesa regionale sui titoli minerari in luogo del mero parere.

2. Sebbene sia discutibile l’idea che gli “idrocarburi”, qualificati dalla Corte costituzionale nella sentenza predetta come “una delle materie prime energetiche”, possano essere ascrivibili al settore energetico e non già all’ambito materiale delle miniere – posto che in questo modo non si manterrebbe distinta la competenza sulle attività volte al rinvenimento e all’estrazione delle sostanze minerarie da quella sulle attività finalizzate alla produzione dell’energia – la pronuncia del giudice delle leggi ha finito per riverberarsi finanche sulla successiva normativa varata dal Parlamento italiano e sulla riforma costituzionale del Titolo V approvata nel 2001.
Mentre, infatti, la disciplina recata dal decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, di attuazione della direttiva 94/22/CE concernente le condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, riconduceva la questione entro la materia delle “miniere”, quella contenuta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, attraeva la stessa entro il “settore” dell’energia. D’altra parte, l’art. 117, comma 3, della Costituzione – come modificato dalla riforma costituzionale del 2001 – ha annoverato la “produzione”, il “trasporto” e la “distribuzione nazionale dell’energia” tra le “materie di legislazione concorrente”, con ciò recependo quasi pedissequamente la formulazione recata dal d.lgs n. 112 del 1998.
Ciò ha finito per incidere sulle relazioni tra tutti i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio globale al settore energetico, inteso non tanto (e non più) come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”.
Su queste basi, la legge 23 agosto 2004, n. 239 ha aderito ad una macronozione di “materia”, innestando la sua disciplina non già sulla separazione della competenza legislativa tra il livello statale (chiamato a porre i principi) e il livello regionale (chiamato a recare la normativa di dettaglio), ma sugli “obiettivi” da raggiungere. In essa, infatti, si legge che “gli obiettivi e le linee della politica energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali” e che la loro concreta realizzazione è assicurata “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione dallo Stato, dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dalle regioni e dagli enti locali” (art. 1, commi 1 e 3). 
Tra le attività del settore energetico vengono, quindi, annoverate anche quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi, le cui “determinazioni” – in relazione alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli stessi – sono riservate allo Stato, di intesa con le Regioni interessate.
I commi 77-82 dell’art. 1 della legge – come modificati dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 – recano, quindi, una nuova e parziale disciplina dei procedimenti autorizzatori, prevedendo quanto segue:
- il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate; esso consente solo lo svolgimento delle attività di prospezione, esclusa la perforazione dei pozzi esplorativi, per la quale occorre apposita autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale minerario per gli idrocarburi e la geotermia competente, rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale, oltre alla Regione, partecipano anche gli enti locali interessati;
- il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in mare è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali interessate. Anche in questo caso è esclusa la perforazione del pozzo esplorativo, per la quale occorre apposita autorizzazione, previa valutazione di impatto ambientale;
- la concessione alla coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi è rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n) del presente articolo, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”. In quest’ultimo caso parrebbe che la disciplina del procedimento autorizzatorio concerna allo stesso modo tanto le attività in terraferma quanto quelle in mare. Il problema che si pone è quello di comprendere quali siano i soggetti legittimati a prender parte al procedimento finalizzato al rilascio del titolo minerario ovvero se lo Stato sia tenuto a stringere l’intesa con la Regione per entrambi i casi. In favore della soluzione positiva deporrebbe la circostanza che la legge non distingue tra coltivazione di idrocarburi in terraferma e coltivazione di idrocarburi in mare (mentre il successivo comma 82-quater fa espresso riferimento alla sola coltivazione in terraferma). A sostegno della soluzione negativa starebbe, invece, il fatto che la stessa legge in altra sua parte stabilisce che le determinazioni inerenti alla coltivazione di idrocarburi sono adottate sì “di intesa con le regioni interessate”, ma unicamente qualora ciò concerna la terraferma.
Quanto alla disciplina della valutazione di impatto ambientale delle attività concernenti gli idrocarburi, il comma 79 dell’art. 1 della legge del 2004 aveva inizialmente disposto quanto segue: “la procedura di valutazione di impatto ambientale, ove richiesta dalle norme vigenti, si conclude entro il termine di tre mesi per le attività in terraferma ed entro il termine di quattro mesi per le attività in mare e costituisce parte integrante e condizione necessaria del procedimento autorizzativo”. A seguito della sostituzione dei commi 77-82 dell’art. 1 della legge n. 239/2004 effettuata con l’art. 27, comma 34, della legge n. 99/2009, il nuovo comma 81 ha poi abrogato tale disposizione, stabilendo che l’attività di “prospezione” fosse soggetta (solo) alla procedura di screening ambientale, tranne qualora essa avesse trovato svolgimento all’interno di are marine a qualsiasi titolo protette (per ragioni di carattere ambientale, di ripopolamento, archeologico, ecc.). Nel qual caso, sarebbe stato obbligatorio procedere a valutazione di impatto ambientale o comunque ad altro tipo di valutazione. Il comma 81, tuttavia, è stato abrogato dal d.lgs. n. 128/2010, limitatamente alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare.

3. A seguito del disastro petrolifero avutosi nel Golfo del Messico nel 2010, il Governo, con d.lgs. n. 128/2010 ha inserito il comma 17 nell’art. 6 del Codice dell’ambiente del 2006, stabilendo quanto segue: “Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia marine dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, oltre che per i soli idrocarburi liquidi nella fascia marina compresa entro cinque miglia dalle linee di base delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero nazionale. Al di fuori delle medesime aree, le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività di cui al primo periodo. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore del presente comma. Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla stessa data. Dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente comma è abrogato il comma 81 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n. 239”.
In questo modo, per un verso, si era stabilito che le attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi fossero vietate all’interno di aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale ed anche nelle zone di mare poste entro dodici miglia marine dal perimetro esterno alle suddette aree e, per altro verso, si era precisato che tale divieto dovesse estendersi – ma solo in relazione agli idrocarburi liquidi – a tutta la fascia marina compresa entro le cinque miglia dalle linee di base delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero italiano. Contestualmente si era, quindi, previsto che tali divieti si applicassero anche ai procedimenti non ancora conclusi con il rilascio di un titolo abilitativo, fermo restando l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati.

4. Il 12 gennaio 2011 il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ha sottoposto al Consiglio di Stato alcuni quesiti concernenti l’interpretazione dell’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente.
Nel suo parere, il Consiglio di Stato ha affrontato diverse questioni e ha fornito le seguenti risposte:
1) esso ha sostenuto che la nuova disciplina recata dal d.lgs. n. 128/2010, determinando l’abrogazione del comma 81 dell’art. 1 della legge n. 239/2004 (come modificata nel 2009), avesse “ripristinato la disciplina vigente”. Questa conclusione non può, però, dirsi convincente, atteso che la nuova disciplina del Codice dell’ambiente concerne solo le attività in mare e, pertanto, solo queste sarebbero da sottoporre obbligatoriamente a valutazione di impatto ambientale. Per le attività in terraferma – e pur restando impregiudicata la procedura di screening ambientale – la sottoposizione delle attività concernenti gli idrocarburi si configura, infatti, solo come eventuale, posto che l’obbligatorietà della stessa investe, di per sé, unicamente la ricerca da effettuarsi con la tecnica del pozzo esplorativo, la costruzione degli impianti e delle opere necessari, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili alle attività di perforazione (art. 1, comma 80, legge n. 239/2004, come modificato dalla legge n. 99/2009);
2) il Consiglio di Stato ha precisato che alla locuzione “aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale” deve rendersi un significato ampio, ricomprensivo finanche di “una protezione meramente interinale e temporanea”, quale è quella assicurata dalla direttiva 92/43/CEE e da quella nazionale di recepimento “ai siti classificati come pSIC e ai SIC, prima che i medesimi siano qualificati come Zone Speciali di conservazione (ZSC)”;
3) circa il significato da attribuire alla locuzione “titoli abilitativi” già rilasciati alla data di entrata in vigore della modifica legislativa, la cui efficacia è fatta salva dal d.lgs. n. 128/2010, il Consiglio di Stato ha precisato che il riferimento normativo è ad ogni titolo minerario dotato di propria autonomia, e cioè al permesso di prospezione, al permesso di ricerca e alla concessione di coltivazione. È appena il caso di precisare, però, che, sebbene la legge n. 9/1991 e il disciplinare tipo approvato con decreto del Ministero dello sviluppo economico (marzo 2011) considerino separatamente i permessi di prospezione e quelli di ricerca, la distinzione in discorso non ha ragione di porsi, posto che il permesso di ricerca consente di per sé la sola prospezione, necessitando, invece, la ricerca effettuata con il pozzo esplorativo di apposita autorizzazione ministeriale, che trova comunque innesto nello stesso permesso originariamente rilasciato. Ciò detto, il problema più spinoso che il Consiglio ha affrontato concerneva, in realtà la “portata” dei titoli già rilasciati (e tutelati dal legittimo affidamento per le società operanti nel settore) e cioè: da un lato, la possibilità di ritenere garantito, attraverso il mantenimento del titolo già posseduto, anche il rilascio di titoli ulteriori, relativi ad attività che si fossero poste in relazione di sviluppo consequenziale con quello (ed es. il rilascio della concessione di coltivazione rispetto al permesso di ricerca); dall’altro, la possibilità che detta garanzia fosse estensibile a provvedimenti conseguenti e connessi con quello (ad es. l’autorizzazione alla perforazione del pozzo esplorativo rispetto al permesso di ricerca, alla costruzione degli impianti necessari, ecc.). Da questo punto di vista, muovendo da una interpretazione teleologico-funzionale della disposizione legislativa, il Consiglio di Stato ha ritenuto coperto dalla garanzia legislativa solo ciò che costituisce attuazione dei provvedimenti già adottati, mentre “devono, invece, ritenersi esorbitanti dalla misura di salvaguardia ricordata quelle iniziative che si risolvono nell’esistenza di un nuovo titolo abilitativo o, comunque, in una modifica del titolo già esistente, e ciò perché, tali iniziative essendo volte a tali finalità, da una parte suppongono nuovi procedimenti, in quanto tali regolati dalla nuova disciplina, dall’altra non si muovono nell’ambito delle autorizzazioni già emanate all’atto dell’entrata in vigore della nuova normativa, ma ne suppongono la modifica ovvero il superamento con un nuovo titolo abilitativo”.
Collegata a questa prospettiva è quindi la questione del provvedimento di proroga del titolo già conferito alla scadenza del termine inizialmente fissato. A parere del Consiglio di Stato, la disposizione legislativa non avrebbe offerto copertura a provvedimenti siffatti, posto che questi, qualificati come provvedimenti “di secondo grado”, avrebbero comportato una modifica sostanziale del provvedimento adottato ab origine.
È appena il caso di osservare che nessun quesito del Ministero ha riguardato, invece, l’art. 6, comma 17, nella parte in cui stabiliva che le sue disposizioni dovessero applicarsi anche ai procedimenti autorizzatori in corso. In via di prassi, e fino alla successiva modifica legislativa operata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134, il Ministero dello sviluppo economico ha interpretato quella previsione non già come divieto, ma come sospensione dei procedimenti in itinere.

5. A seguito del parere reso dal Consiglio di Stato, l’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente è stato modificato dapprima con d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con l. 4 aprile 2012, n. 35[2], e poi con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134 (“decreto sviluppo”)[3]-[4].
In base a tali modifiche, l’art. 6, comma 17, vieta ora lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi ed anche gassosi nelle aree marine e costiere “a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale” ed estende detto divieto alle zone di mare poste entro le dodici miglia dalla costa per l’intero perimetro costiero nazionale (che in presenza di un’area marina protetta si calcola a partire dal perimetro esterno), facendo tuttavia salvi i procedimenti concessori in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128.
In questo modo, il divieto di svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi non trova (più) applicazione ai procedimenti avviati e non ancora conclusi alla data di entrata in vigore del decreto (26 agosto 2012), e ciò ha determinato un riavvio dei procedimenti al tempo “sospesi” dal d.lgs. n. 128/2010. Circostanza, questa, che renderebbe la disciplina del tutto irragionevole, in quanto, giustificandosi il divieto con finalità di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (come si legge allo stesso comma 17 dell’art. 6), resterebbe da spiegare come mai le predette finalità sussistano solo in relazione alle attività per le quali non sia stata ancora presentata istanza di rilascio del titolo e non anche per quelle che, pur essendo stata presentata istanza per il rilascio del titolo, non siano ancora autorizzate.
Nella relazione allegata al “decreto sviluppo” il Governo ha, invero, giustificato questa scelta con il seguente argomento: “La norma sblocca 4,5 miliardi di investimento in 8 progetti di sviluppo di giacimenti già individuati e perforati e non ancora messi in produzione, altrimenti destinati a restare improduttivi con oneri a carico dello Stato, evitando inoltre richieste di risarcimento da parte delle imprese allo Stato italiano per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso”. Questo argomento, tuttavia, non ha pregio, atteso che il divieto posto dal d.lgs. del 2010 aveva ad oggetto solo le future richieste di esercizio di quelle attività ed anche i procedimenti già avviati, ma non ancora conclusi, senza che ciò incidesse sull’efficacia dei titoli già rilasciati. Ragion per cui non si sarebbe potuto sostenere che, in questo modo, restasse compromesso il legittimo affidamento delle società petrolifere, essendo un eventuale investimento da loro effettuato medio tempore riconducibile al consueto rischio che accompagna l’iniziativa economica privata dell’operatore economico[5].
L’autorizzazione allo svolgimento di tali attività deve essere preceduta dalla VIA[6] e deve essere acquisito il parere degli Enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle stesse.
Qui la richiesta obbligatoria del parere degli Enti locali riguarda l’autorizzazione all’esercizio delle attività, non già la VIA. Se così non fosse si finirebbe per escludere l’applicazione dell’art. 25, comma 2, del Codice dell’ambiente, ove si prevede che anche alla Regione interessata deve essere richiesto il parere in fase di VIA[7] ovvero si finirebbe per considerare come obbligatoria la richiesta del parere per ogni VIA tranne che per quella che dovesse concernere gli idrocarburi (fermo restando che non si comprende come mai la partecipazione al rilascio dell’autorizzazione non sia prevista anche per l’ente regionale). È appena il caso di aggiungere che la legge di conversione del decreto ha sottratto alla procedura VIA le attività finalizzate a migliorare le prestazioni degli impianti di coltivazione di idrocarburi, compresa la perforazione, se effettuate a partire da opere esistenti e nell’ambito dei limiti di produzione ed emissione dei programmi di lavoro già approvati (ex art. 1, comma 82-sexies, l. n. 239/2004).

6. La risoluzione 7-00034, presentata dall’On. Bianchi e portata all’attenzione delle Commissioni VIII e X, si propone di impegnare il Governo “(1) a sospendere ogni forma di autorizzazione per nuove attività di prospezione e coltivazione di giacimenti petroliferi nell’Adriatico e più in generale nel Mediterraneo in attesa che un’apposita Conferenza dei Paesi rivieraschi individui, sul modello della citata «Conferenza internazionale delle regioni adriatiche e ioniche», una regolamentazione comune delle attività estrattive e di esplorazione degli idrocarburi; (2) ad assumere iniziative per modificare la normativa riguardante le attività di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, ripristinando il divieto nello spazio di 12 miglia dalla costa per i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 128 del 2010, per evitare che si creino situazioni che ne disattendano la finalità, cioè la garanzia di maggiore rigore nella tutela ambientale, e per rendere le disposizioni chiare, certe e applicabili, in condizioni di equità, a tutti i soggetti che operano nel settore della ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi in mare; (3) a non mettere a rischio e a non pregiudicare, neanche potenzialmente, lo stato delle aree di reperimento di parchi costieri e marini e di aree marine protette, impedendo quindi l’avvio di nuovi impianti e attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi in mare oltre ad assoggettare a valutazione ambientale per motivi di dovuta cautela e precauzione e con il massimo coinvolgimento delle comunità interessate anche le attività finalizzate a migliorare le prestazione degli impianti di coltivazione di idrocarburi di cui all’articolo 1 comma 82-sexies della legge 23 agosto 2004 n. 239; (4) ad adottare tutte le iniziative necessarie, anche normative, affinché i titolari di concessioni per ricerca ed estrazione di idrocarburi garantiscano adeguati piani di emergenza e le risorse economiche per la copertura degli interventi immediati di sicurezza, disinquinamento e bonifica, in caso di incidente, anche attraverso il deposito di adeguate cauzioni; (5) a verificare la sussistenza dei requisiti economici e tecnici delle società titolari di permessi di ricerca in modo da garantire efficienza tecnica, sicurezza e pieno rispetto di tutte le prescrizioni e dei vincoli stabiliti dalle autorità competenti: non solo degli obblighi – stabiliti dal Ministero dello sviluppo economico – per la gestione degli impianti e la sicurezza mineraria – ma anche, in particolare dei vincoli disposti da Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e dalle regioni per gli aspetti di compatibilità ambientale nella realizzazione e gestione di impianti e pozzi, tenuto conto delle tecniche e delle conoscenze più avanzate per il «buon governo» dei giacimenti”.
In proposito si osserva che la richiesta formulata sub (1) risulta ambigua, in quanto non si comprende quali possano essere le “nuove” attività delle quali si auspica la sospensione di “ogni forma di autorizzazione”: se tali attività sono, infatti, già autorizzate non possono essere, a rigore, qualificate come “nuove”. Qui, probabilmente, l’invito rivolto al Governo è a non rilasciare (e non già a sospendere) nuovi titoli minerari, in attesa che si provveda alla convocazione di una apposita Conferenza dei Paesi rivieraschi. In ogni caso sarebbe opportuno che tale richiesta (che, se ben inteso, avrebbe ad oggetto solo gli idrocarburi liquidi) sia fatta precedere da una modifica legislativa, con cui – come auspicato appunto sub (2) – il divieto delle 12 miglia marine all’esercizio delle attività concernenti gli idrocarburi liquidi e gassosi venga esteso (e non già ripristinato) anche ai procedimenti in itinere. Va da sé che una siffatta misura assorbirebbe anche la richiesta sub (3), nella parte in cui si chiede al Governo di adoperarsi affinché non sia compromesso “lo stato delle aree di reperimento di parchi costieri e marini e di aree marine protette”. Quanto alle richieste sub (4) e (5), esse si traducono – in buona sostanza – nell’impegno ad adottare tutte le iniziative necessarie (anche normative) affinché gli operatori del settore diano adeguate garanzie tecniche ed economiche circa la sicurezza delle attività poste in essere.
A tal riguardo occorre comunque ricordare che la direttiva 2013/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 giugno 2013 sulla sicurezza delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi (la quale modifica anche la direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) stabilisce i requisiti minimi per prevenire gli incidenti gravi nelle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi e limitare le conseguenze di tali incidenti. In particolare, essa prescrive che il rilascio dei titoli abilitativi avvenga previa valutazione della capacità tecnica e finanziaria del richiedente, il quale dovrà provare di aver adottato (o che adotterà) – sulla base di disposizioni che saranno decise dagli Stati membri – misure adeguate per coprire le responsabilità potenziali derivanti dalle operazioni in mare (art. 4, § 3)[8]-[9].

7. Dalla discussione avviata sulla risoluzione in oggetto si evince che taluni ritengono che nell’elaborazione del documento da presentare al Governo si debba necessariamente tener conto dei contenuti della Strategia Energetica Nazionale (SEN), approvata l’8 marzo 2013 con decreto interministeriale (Ministro dello sviluppo economico e Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare) non avente natura regolamentare. Si fa, tuttavia, presente che tale atto pone seri dubbi di legittimità per le ragioni che seguono.
Con referendum del 12 e 13 giugno 2011 il corpo elettorale ha abrogato i commi 1 e 8 dell’art. 5 del decreto-legge n. 34/2011, come convertito con legge n. 75/2011 e, con ciò, anche il fondamento legislativo della SEN, nonostante questa fosse stata richiamata dal d.lgs. n. 93/2011 del 1° giugno 2011 e, cioè pochi giorni prima che il corpo elettorale si pronunciasse. L’art. 1, comma 2, del decreto, infatti, prevedeva che entro sei mesi dalla sua entrata in vigore il Ministero dello sviluppo economico, secondo la procedura ivi indicata e in coerenza con gli obiettivi della SEN, definisse una serie di “scenari decennali” per la politica energetica del Paese e che il Presidente del Consiglio dei Ministri, sulla base di tali “scenari”, individuasse le necessità minime di realizzazione di impianti e di infrastrutture anche relativi – ma solo in parte – agli idrocarburi. Ora, con il d.lgs. n. 93/2011 il Governo ha dato seguito alla delega contenuta nell’art. 17 della l.d. 4 giugno 2010, n. 96, recante principi e criteri direttivi per l’attuazione di alcune direttive CE, spingendosi, però, oltre quanto richiesto dal Parlamento, posto che: 1) nella legge delega non vi è alcun riferimento alla SEN (e dovendosi presupporre che l’abrogazione referendaria intervenuta, incidendo sulle norme e non sulle disposizioni formalmente sottoposte all’attenzione del corpo elettorale, avrebbe determinato la cessazione della vigenza di ogni norma relativa alla SEN); 2) anche qualora si volesse ricavare dalla legge una implicita delega all’elaborazione dei contenuti della SEN, resta indubbio che tale delega non si riferisce al rilancio degli idrocarburi liquidi e gassosi, come invece risulta dal documento SEN (p. 111 ss.), ove si individuano cinque zone territoriali (anche marine) strategiche per lo sviluppo del settore: val Padana, Alto Adriatico, Abruzzo, Basilicata e Canale di Sicilia.







[1] In questa sede non si considera, infatti, l’unificazione del diritto minerario del Regno disposta con R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, il quale riconduceva i “combustibili solidi, liquidi e gassosi” entro le “miniere”: sul punto sia permesso rinviare a E. Di Salvatore, Lo Stato, la Regione Siciliana e il problema della competenza legislativa sugli idrocarburi liquidi e gassosi, in Petrolio, Ambiente, Salute, a cura di E. Di Salvatore, Galaad Edizioni, Giulianova, 2013, 1 ss.
[2] In questo modo, all’art. 6, comma 17, sesto periodo, d.lgs. 3 aprile 2006, dopo le parole “titoli abilitativi già rilasciati alla stessa data”, si aggiungevano le parole “anche ai fini delle eventuali relative proroghe”.
[3] Il d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121 aveva, invero, aggiunto un periodo al comma 17 dell’art. 6 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Con ciò si stabiliva che “per la baia storica del Golfo di Taranto di cui all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1977, n. 816, il divieto relativo agli idrocarburi liquidi è stabilito entro le cinque miglia dalla linea di costa”.
[4] Art. 35 - Disposizioni in materia di ricerca ed estrazione di idrocarburi. 1. L’articolo 6, comma 17, del decreto legislativo 3  aprile  2006, n. 152, è sostituito dal seguente: “17. Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in  virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni dell’Unione europea e internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della  legge 9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, fatti salvi i procedimenti concessori di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge n. 9 del 1991 in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo  29 giugno 2010 n. 128  ed  i  procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi, nonché l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla medesima data, anche ai fini della esecuzione delle attività di ricerca, sviluppo e coltivazione da autorizzare nell’ambito dei titoli stessi, delle eventuali relative proroghe e dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi. Le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività di cui al primo periodo, fatte salve le attività di cui all’articolo 1, comma 82-sexies, della legge 23 agosto 2004, n. 239, autorizzate, nel rispetto dei vincoli ambientali da esso stabiliti, dagli uffici territoriali di vigilanza dell’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse, che trasmettono copia delle relative autorizzazioni al Ministero dello sviluppo economico e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente comma è abrogato il comma 81 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n. 239. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, i titolari delle concessioni di coltivazione in mare sono tenuti a corrispondere annualmente l’aliquota di prodotto di cui all’articolo 19, comma 1 del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, elevata dal 7% al 10% per il gas e dal 4% al 7% per l’olio. Il titolare unico o contitolare di ciascuna concessione è tenuto a versare le somme corrispondenti al valore dell’incremento dell’aliquota ad apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato, per essere interamente riassegnate, in parti uguali, ad appositi capitoli istituiti nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministero dello sviluppo economico, per assicurare il pieno svolgimento rispettivamente delle azioni di monitoraggio e contrasto dell’inquinamento marino e delle attività di vigilanza e controllo della sicurezza anche ambientale degli impianti di ricerca e coltivazione in mare” (le parole in neretto sono state aggiunte in sede di conversione del decreto).
[5] Ad una diversa conclusione, invece, potrebbe condurre la previsione contenuta nel progetto di legge C. 114, presentato il 15 marzo 2013 dall’On. Legnini (PD) ed altri, recante “Modifica all’articolo 6 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare”, ed anche – se non si inganna – quella posta dal progetto di legge C. 994 presentato il 17 maggio 2013 dall’On. Vacca (M5S) ed altri, recante “Modifiche all’articolo 6 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare”, entrambe indirizzate (anche) alla revoca dei titoli abilitativi già accordati; v. utilmente Corte cost., sent. n. 277/2012 (“Questa Corte ha ripetutamente rilevato che la tutela del legittimo affidamento è principio connaturato allo Stato di diritto, sicché, legiferando contro di esso, il legislatore statale e quello regionale hanno violato i limiti della discrezionalità legislativa”); cui adde Corte cost., sent. n. 156/2007 e Corte cost., sent. n. 206/2009.
[6] È appena il caso di osservare come il 22 novembre 2012 è stata riavviata la procedura VIA relativa all’istanza di concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi “d30B.C-MD” – Progetto di coltivazione del giacimento “Ombrina Mare”, che il 25 gennaio 2013 ha ottenuto parere positivo con prescrizioni da parte della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale. A seguito del (tardivo) parere inviato dalla Regione Abruzzo in data 4 marzo 2013, la Commissione ha svolto un “supplemento istruttorio”, confermando, tuttavia, il precedente parere del 25 gennaio 2013. In data 9 luglio 2013, però, il Ministero dell’ambiente ha deciso di avviare la procedura AIA (prot. n. DVA-20134016085). Detto provvedimento è stato impugnato dalla S.p.A. Medoilgas Italia dinanzi al T.A.R. Lazio, che si è pronunciato il 9 gennaio scorso.
[7] A tal riguardo v. utilmente T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, sent. 1° ottobre 2012, n. 8203.   
[8] Gli Stati membri sono chiamati a dare attuazione alla direttiva entro il 19 luglio 2015.
[9] Si coglie l’occasione per precisare che il diritto dell’Unione europea non impedisce che gli Stati membri decidano di precludere determinate aree del proprio territorio – dunque anche del mare territoriale – all’esercizio delle attività concernenti gli idrocarburi liquidi e gassosi (cfr. art. 2, § 1, direttiva 94/22/CE) né di condizionare o limitare l’esercizio delle attività già autorizzate per finalità di carattere ambientale, pubblica sanità, sicurezza nazionale, ecc. (art. 6, § 2, direttiva cit.); ciò conformemente, del resto, a quanto risulta stabilito dall’art. 194, § 2, TFUE, ove si dispone che le disposizioni dei Trattati “non incidono sul diritto di uno Stato membro di determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche, la scelta tra varie fonti energetiche e la struttura generale del suo approvvigiona­mento energetico, fatto salvo l’articolo 192, paragrafo 2, lettera c)”, e cioè a meno che il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, non adotti “misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo”. Si tenga presente, comunque, che lo stesso art. 192, § 1, TFUE, fa salva la possibilità del ricorso in materia al “ravvicinamento delle legislazioni”, di cui all’art. 114 TFUE. In relazione alla problematica in discorso va, inoltre, segnalata la decisione 2013/5/UE del Consiglio del 17 dicembre 2012 sull’adesione dell’UE al protocollo relativo alla protezione del Mare Mediterraneo dall’inquinamento derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale, del fondo del mare e del suo sottosuolo. Il presente scritto non considera, invece, i più recenti decreti ministeriali, con i quali, sulla base di quanto consentito dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 625/1996, sono state determinate ulteriori aree della piattaforma continentale per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi: per i quali si v. Il mare. Supplemento al BUIG del 28 febbraio 2013, reperibile sul sito: http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it (cui però va aggiunto il decreto ministeriale del 9 agosto 2013, relativo alla “rimodulazione” della “zona E”).