CAFFE' ABRUZZO





La potestà regolamentare in Abruzzo secondo il Collegio regionale per le garanzie statutarie

L’art. 121 della Costituzione italiana aveva attribuito in capo al Consiglio regionale l’esercizio esclusivo della potestà legislativa e della potestà regolamentare. Tuttavia, in assenza di una disciplina che consentisse una approvazione dei regolamenti più snella e agevole rispetto a quella prevista per l’adozione delle leggi, i Consigli regionali finirono presto per ritenere non “conveniente” il ricorso alla potestà regolamentare. Tanto fu plateale il fenomeno che alcuni lo definirono come l’età dei “regolamenti dimenticati”. Così, detto potere transitò di fatto nelle mani delle Giunte regionali, le quali procedettero sovente all’adozione di atti formalmente amministrativi, ma dal contenuto sostanzialmente regolamentare. In questo modo si aggirò il divieto posto in Costituzione.
La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha modificato l’art. 121 della Costituzione, sopprimendo formalmente dalle attribuzioni del Consiglio regionale l’esercizio della potestà regolamentare. Ciò ha dato la stura ad una situazione di grave incertezza, posto che taluni hanno sostenuto che in ragione di questo si fosse determinato un automatico passaggio della potestà regolamentare in capo alla Giunta regionale.
Con la sentenza n. 131 del 2003, la Corte costituzionale ha però sciolto il problema, avendo sostenuto che la modifica apportata all’art. 121 Cost. non comportasse in nessun modo un automatico passaggio della potestà regolamentare dal Consiglio alla Giunta. Secondo il giudice costituzionale, ogni Regione avrebbe potuto liberamente disciplinare attraverso il suo Statuto l’attribuzione di detta competenza. Ma mentre ovunque si è finito per attribuire la potestà regolamentare in capo alla Giunta, in Abruzzo si è deciso di seguire una strada diversa: l’art. 13, comma 1, dello Statuto abruzzese del 2006 ha, infatti, conservato in capo al Consiglio l’esercizio della potestà regolamentare; in questo modo, anche il problema della natura giuridica delle deliberazioni adottate dalla Giunta (atti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente regolamentari) è tornato a riproporsi. Questa scelta non è stata evidentemente particolarmente lungimirante. La dottrina maggioritaria ha infatti sottolineato come sia necessario mantenere distinte le due funzioni, lasciando al Consiglio solo quella legislativa e affidando quella regolamentare alla Giunta, in ragione dell’asserita appartenenza intrinseca dello strumento normativo secondario all’esecutivo regionale.

Lo scorso ottobre, 12 consiglieri regionali hanno chiesto al Collegio regionale per le garanzie statutarie di esprimersi circa la conformità di una deliberazione della Giunta regionale allo Statuto abruzzese (la deliberazione della Giunta recava “Indirizzi generali di gestione delle popolazioni di cinghiale e principi generali per la gestione delle popolazioni di cervo e caprioli”). Attraverso il loro ricorso, i richiedenti hanno sostenuto che detta deliberazione contrastasse con l’art. 13 dello Statuto regionale abruzzese, nel quale è previsto che “Il Consiglio regionale è l’organo della rappresentanza democratica della Regione; esercita la funzione legislativa e regolamentare, di indirizzo e programmazione; svolge attività ispettiva e di controllo; adempie ai compiti previsti dalla Costituzione italiana e dallo Statuto”. Anzi, a parere dei consiglieri, l’atto della Giunta si sarebbe posto in contrasto con lo Statuto, non solo in quanto “atto regolamentare generale ma, addirittura” perché avrebbe preteso di apportare “modifiche di carattere legislativo rispetto alla legge regionale 10/2004, in ciò invadendo chiaramente la competenza riservata al Consiglio regionale”.

Con parere n. 4, adottato il 19 ottobre scorso, il Collegio per le garanzie statutarie ha riconosciuto che la delibera della Giunta possiede evidente carattere regolamentare.
Nella sua decisione, il collegio per le garanzie statutarie si richiama ad un suo precedente parere (n. 2/2012), nonché ad una sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 9/2012).
Nel parere n. 2/2012 il Collegio ha avuto, infatti, modo di sottolineare che “Lo Statuto della Regione Abruzzo, differenziandosi da tutte le altre Regioni, ha riservato anche la funzione regolamentare al solo Consiglio, conferendo alla Giunta unicamente un potere di iniziativa in materia”. In detta occasione, esso ha ricordato come, secondo l’insegnamento della dottrina più autorevole, il regolamento si configuri quale atto normativo, idoneo, cioè, ad innovare all’ordinamento giuridico, attraverso disposizioni generali ed astratte; il che lo distinguerebbe da altri atti, che, sebbene generali ed astratti, risultino, però, privi del carattere della “novità” (es. bandi gara, concorsi, ecc.).
In questo modo, si sono respinte soluzioni ulteriori, come quelle volte a sottolineare la valenza politica del regolamento e cioè l’autonoma individuazione del fine da perseguire, che, di tutta evidenza, non è un carattere tipico dell’atto amministrativo generale. Allo stesso tempo, neppure risolutivo sarebbe il criterio dell’autoqualificazione dell’atto, ossia il fatto che esso risulti denominato “regolamento” (e, va aggiunto, la circostanza che esso sia emanato dal Presidente della Regione); se così fosse, infatti, ne seguirebbe l’attribuzione del carattere normativo a qualunque tipo di atto in modo arbitrario; e ciò in violazione dei caratteri tipici che detti atti devono possedere, nonché delle regole sulla produzione delle fonti del diritto.
Secondo il Collegio abruzzese, risolutiva sarebbe una decisione della adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 9/2012), con la quale, dopo essersi registrata una accentuazione del fenomeno della “fuga dal regolamento” (ossia l’utilizzo da parte degli esecutivi dello Stato e delle Regioni di atti formalmente amministrativi, ma a contenuto sostanzialmente regolamentare), si è escluso che la disciplina di una materia possa prescindere da quanto formalmente prescritto dalla legge n. 400 del 1988, che all’art. 17 reca una disciplina dei tipi di regolamento e del procedimento da seguire per l’adozione degli stessi.
Il Consiglio di Stato, dopo aver sottolineato che i caratteri della generalità e dell’astrattezza, che contraddistinguono l’atto normativo, “non possono e non devono essere intesi nel senso della applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell’applicazione e come capacità di regolare una serie indefinita di casi”, ha precisato che si possa discorrere di atto normativo ove i destinatari siano indeterminabili sia a priori che a posteriori (quale conseguenza della generalità e dell’astrattezza dell’atto); e che, invece, si debba parlare di atto amministrativo generale laddove i destinatari dello stesso siano indeterminabili a priori, ma determinabili a posteriori, esaurendosi l’atto, in ragione della natura che gli è propria, in una vicenda determinata.
Risulta pacifico affermare, pertanto, che l’atto amministrativo generale, a differenza del regolamento, abbia come fine la regolazione di un caso specifico e che sia sprovvisto della attitudine ad innovare all’ordinamento giuridico.
Su queste basi, il Collegio regionale abruzzese per le garanzie statutarie ha concluso che la delibera della Giunta regionale abruzzese n. 605/2012 possieda tutti i requisiti ed i caratteri del regolamento, dal momento che si propone di disciplinare in modo accurato e specifico il prelievo venatorio degli ungulati, l’individuazione delle figure tecniche abilitate alla gestione degli ungulati, il contenuto del piano di gestione che le province sono tenute ad adottare, l’individuazione delle zone di caccia, le norme di sicurezza per la caccia collettiva e l’assegnazione di potere sanzionatorio alle province.

 CARLO ALBERTO CIARALLI



Il metanodotto Sulmona-Foligno: gli abruzzesi ringraziano il Parlamento italiano

È cosa nota che la Società Snam intenda costruire in Abruzzo un metanodotto di circa 169 km e una centrale di compressione gas nei pressi di Sulmona. Ed è altrettanto noto che il progetto, che interesserà ben 20 Comuni della Provincia di L’Aquila, sia stato fortemente contrastato dai cittadini, che hanno denunciato l’insostenibilità dell’opera, in ragione del fatto che essa verrebbe realizzata in aree ad alto rischio sismico. Per questo, lo scorso giugno il Consiglio regionale abruzzese ha dichiarato per legge l’incompatibilità della costruzione di gasdotti e di centrali a gas nelle aree ad elevato rischio sismico ed ha stabilito che la Regione, chiamata a rilasciare l’intesa con lo Stato, non può prestare il proprio assenso alla realizzazione di opere siffatte. Con una precisazione: che trovi applicazione comunque quanto previsto dal Testo Unico del 2001 sull’espropriazione per pubblica utilità, ove si dice che se non c’è l’intesa con la Regione alla autorizzazione alla costruzione di un metanodotto si procede ad una nuova valutazione dell’opera e all’esame di una proposta alternativa eventualmente presentata dalla Regione dissenziente.
Riassumo: per poter costruire il suo metanodotto la Snam ha bisogno di una autorizzazione da parte dello Stato; questa autorizzazione non può però essere rilasciata senza l’accordo con la Regione Abruzzo; se lo Stato e la Regione non raggiungono l’accordo, perché la Regione sostiene, ad esempio, che la costruzione ricada in un’area ad alto rischio sismico, la Regione può ottenere una nuova valutazione dell’opera e può chiedere che sia preso in considerazione un progetto alternativo: tanto per fare un esempio, che il metanodotto attraversi il mare.
La legge della Regione Abruzzo è stata impugnata dal Governo dinanzi alla Corte costituzionale. Nel suo ricorso esso ha sostenuto che la Regione non può stabilire con legge che non stringerà intese con lo Stato. I rapporti della Regione con lo Stato devono ispirarsi al principio di leale collaborazione e dire “no” a prescindere e in modo generalizzato non è un modo di collaborare lealmente. Giusto. Per questo, contattato da un paio di consiglieri regionali, avevo espresso a suo tempo le mie perplessità sulla legittimità della legge abruzzese. Ma il punto ora è un altro.
Il “decreto sviluppo” del 22 giugno scorso ha previsto una semplificazione dei procedimenti amministrativi relativi al settore energetico. L’art. 38 del decreto ha stabilito che qualora lo Stato non riesca a stringere un accordo con la Regione in relazione ad alcune attività elencate dalla legge n. 239 del 2004 – come ad esempio la ricerca del petrolio – il Governo può fare da solo e cioè può adottare la sua decisione unilateralmente. In fase di conversione del decreto, però, il testo dell’art. 38 è cambiato. Nel senso che il Parlamento, chiamato a convertire il decreto, ha aggiunto che la disciplina sulla semplificazione amministrativa sia estesa anche al procedimento previsto dal Testo Unico del 2001 ossia all’autorizzazione necessaria alla costruzione dei metanodotti.
Detto altrimenti: la Regione Abruzzo, chiamata a stringere un accordo con lo Stato per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione del metanodotto Sulmona-Foligno, non può più ottenere una nuova valutazione dell’opera né la valutazione di un progetto alternativo. E non può più farlo perché il Parlamento ha precisato che la legge si applica anche ai procedimenti in corso. Guarda tu il caso. E a chi è venuto in mente tutto questo? Lo si scopre dai lavori parlamentari. Giovedì, 19 luglio 2012, ore 15. Le Commissioni riunite VI e X esaminano il decreto sviluppo del Governo. Vincenzo Gibiino (PDL) propone la modifica al “decreto sviluppo” e Stefano Saglia (PDL) sottoscrive la proposta. Alla seduta partecipa anche il deputato abruzzese Giovanni Lolli (PD), che si spende per la ricostruzione dei Comuni aquilani colpiti dal sisma del 2009, ma che tace sulla questione dell’applicazione della semplificazione amministrativa ai metanodotti (come se le due questioni non siano tra loro collegate). Dopodiché il decreto approda in Aula e il Governo pone la fiducia. Mentre la Regione Abruzzo non impugna la legge del Parlamento dinanzi alla Corte costituzionale. Cosa aggiungere: le jeux sont faits?

ENZO DI SALVATORE



Cinghiali, cervi e caprioli in un regolamento (illegittimo) della Regione Abruzzo

Non è la prima volta che la Giunta regionale abruzzese interviene nella disciplina di una materia con regolamento, ossia con un atto normativo, la cui adozione è riservata dallo Statuto della Regione in via esclusiva al Consiglio regionale. Per più motivi, deve dirsi che aver voluto riservare al Consiglio l’esercizio della potestà regolamentare sia stata una scelta infelice. A ciò, tuttavia, può porsi rimedio solo attraverso una modifica dello Statuto e non già ammettendo, ossia “tollerando”, che la Giunta adotti atti – ora qualificati “linee guida”, ora denominati “determinazioni” ovvero “indirizzi” – che quasi sempre hanno natura regolamentare. È quello che accaduto il 26 settembre scorso, quando sul Bollettino ufficiale della Regione è apparso un provvedimento della Giunta, intitolato “Indirizzi generali per la gestione delle popolazioni di cinghiale e principi generali per la gestione delle popolazioni di cervo e capriolo”: provvedimento, che ha portato ben 12 Consiglieri a chiedere al Collegio per le garanzie statutarie della Regione di esprimersi circa la sua conformità allo Statuto (a dire il vero, senza che fosse chiaro se il parere richiesto concernesse un conflitto di attribuzione tra Consiglio e Giunta o se invece riguardasse la presunta illegittimità dell’atto adottato dalla Giunta rispetto allo Statuto). Appena qualche giorno fa, il Collegio si è quindi pronunciato sul parere ed ha giustamente dichiarato che non spettasse alla Giunta adottare quel tipo di provvedimento. In realtà, va sottolineato che con il suo atto la Giunta è stata capace di fare molto di più: ha violato non solo lo Statuto (che riserva, appunto, la funzione regolamentare al Consiglio), ma anche la legge dello Stato sulle aree protette del 1991 (nella parte in cui, ad esempio, consente che “le squadre di girata possono essere utilizzate dalle Province per interventi di controllo numerico della specie al di fuori del periodo cacciabile anche nelle aree vietate alla caccia” come “i Parchi naturali”) e la legge della Regione sulla caccia del 2004 (nella parte in cui, ad esempio, disciplina le modalità di accesso al prelievo degli ungulati). La qual cosa apre, allora, a tre ipotesi: o la Giunta è stata (ancora una volta) distratta; o essa non ha alcuna idea del modo in cui risultino ordinate le fonti del diritto tra loro (il rapporto che corre tra una legge dello Stato, una legge della Regione e un regolamento); o la Giunta, pur conoscendo perfettamente tale ordine, ha inteso (ancora una volta) disattenderlo. Al di là di della risposta che si potrebbe rendere, un mistero avvolge comunque il caso di specie: come mai un provvedimento deliberato dalla Giunta nel settembre del 2011 è stato pubblicato sul Bollettino ufficiale esattamente un anno dopo?

ENZO DI SALVATORE
 


La Provincia: una scatola ormai vuota?

All’incontro sul riordino delle Province tenutosi ieri pomeriggio a Pineto c’era una grande assente: la politica. Non parlo della politica con la “P” maiuscola. So bene che in questo momento i big della Politica sono alacremente impegnati a discutere di strategie elettorali. No. Mi riferisco alla politica con la “p” minuscola. Quella a cui appartengono coloro che, direttamente o indirettamente, si troveranno presto coinvolti nel processo decisionale, che porterà alla riscrittura della geografia istituzionale dell’Abruzzo. C’è da chiedersi come mai. Forse perché sanno che non di autentica decisione si tratti, visto che alla fine il Governo nazionale deciderà in solitudine. O forse perché, più semplicemente, ogni dubbio è in loro dissipato, al punto tale da ritenere che qualsivoglia confronto con il prossimo sia perfettamente superfluo.
Escluderei entrambe le ipotesi. Perché se una sola delle due fosse vera non assisteremmo al balletto che quotidianamente impazza sulla stampa. Giacché: quali buone ragioni sorreggerebbero le diverse proposte finora avanzate? Non certo quelle del campanile, si dice. Ben altre. Per esempio, il fatto che se sparisse questa o quella Provincia vi sarebbero gravi disservizi per i cittadini. O magari il fatto che possa essere maggiormente conveniente, per questo o quel Comune, annettersi o restare in questa o in quella Provincia.
Capisco chi si dichiari contrario ad una delle proposte ventilate per motivi di appartenenza identitaria: per quanto discutibile, si tratterebbe pur sempre di una posizione, che affonda le sue ragioni direttamente nel cuore. Capisco molto meno, invece, chi crede che da una sola delle proposte avanzate possa derivare un qualche “vantaggio” o “utilità”, specie in termini economici. Perché se così fosse, vorrebbe dire che il disegno sul riordino delle Province non gli è del tutto chiaro.
A parte, infatti, quanto già stabilisce il TUEL (l’istituzione di una nuova provincia non necessariamente comporta l’istituzione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici), la circostanza che venga mantenuta o soppressa una data Provincia costituisce un fatto pressoché irrilevante dal punto di vista dei benefici che si avrebbero o si perderebbero, dal momento che la legge n. 214 del 2011 impone che entro il 31 dicembre 2012 tutte le funzioni attualmente spettanti alle Province siano trasferite ai Comuni. Ed è quello che in effetti fa ora l’art. 17 della legge n. 135/2012, il quale, da un lato, devolve ai Comuni le funzioni finora spettanti alle Province nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato e, dall’altro, riserva alle stesse solo tre “gruppi” di funzioni “fondamentali”, relativi al settore dell’ambiente, della viabilità e dei trasporti, della scuola. Tre “gruppi” soli, che, a me pare, presentano un contenuto più scarno rispetto a quello previsto dal TUEL. Basti pensare alla scuola: il TUEL stabiliva che alle Province spettassero “i compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado ed artistica ed alla formazione professionale, compresa l’edilizia scolastica”; la legge n. 135 del 2012 stabilisce, invece, che ad esse spetti “la programmazione provinciale della rete scolastica” e “la gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole di secondo grado”.    
Per il resto, le Province saranno chiamate unicamente a coordinare e indirizzare le “attività” dei Comuni, nei limiti fissati dalla legge dello Stato e da quella della Regione (secondo le rispettive competenze) (v. anche l’art. 14 della legge n. 122 del 2010). Tutte le altre funzioni – fino ad oggi conferite alle Province – sono automaticamente devolute in capo ai Comuni.
Insomma un po’ poco. Per questo ritengo che la discussione intorno al riordino delle Province – almeno nei termini posti – stia diventando oziosa. Perché le proposte avanzate hanno tutte ad oggetto il riordino di un Ente che è ormai una scatola vuota. Di questo dovrebbe semmai dolersi la politica con la “p” minuscola. E cioè del fatto che la politica con la “P” maiuscola – attraverso due interventi legislativi – abbia finito per riscrivere le caratteristiche di un ente territoriale, modificandone, nella sostanza, la natura.
Una riscrittura che, a mio parere, viola la Carta costituzionale: non solo in relazione al procedimento sancito dalla stessa per il riordino (art. 133 Cost.), ma soprattutto in relazione alla garanzia dell’autonomia locale (art. 5 Cost.), che si estrinseca attraverso la previsione di specifici “tipi” di funzioni amministrative in favore della Provincia.
L’art. 117 della Costituzione stabilisce, infatti, che la legge dello Stato determini le funzioni “fondamentali” delle Province. Ed è quello che fa, appunto, ora la legge n. 135 del 2012, che, nell’individuare quelle tre funzioni sopra richiamate (ambiente, trasporto e scuola), cita espressamente l’art. 117 Cost., comma 2, lett. p), Cost. Ma il fatto è che la Costituzione non contempla solo la categoria delle funzioni “fondamentali”, bensì, accanto a queste, anche quelle “proprie” e quelle “conferite” (art. 118 Cost.). Per questo la Costituzione è calpestata. Aver stabilito che alle Province spettino esclusivamente le funzioni di indirizzo e coordinamento, nonché le tre funzioni “fondamentali” di cui si è detto, equivarrebbe a negare che le Province siano titolari anche di funzioni “proprie” e di funzioni “conferite” (si veda l’art. 23, commi 14 e 18, della legge n. 214 del 2011).
Vero è che qualche giurista ritiene che le funzioni “fondamentali” siano coincidenti con quelle “proprie”, ma questa opinione non mi ha mai convinto del tutto. Anche se così fosse, il risultato comunque non cambierebbe, in quanto la legge del Parlamento impedirebbe che – da questo momento in poi – le Province possano essere titolari anche di funzioni “conferite” con legge della Regione (a meno che non si interpreti questo divieto come circoscritto solo alle funzioni finora conferite alle Province, ammettendosi che in futuro la legge della Regione possa conferire alle stesse nuove funzioni).
Finora la politica ha preferito discorrere di accorpamenti e di fusioni. Di denominazioni e di Città metropolitane. E i cittadini si sono divertiti, sono rimasti indifferenti o si sono indignati.
Ma credo sia giunto il momento di iniziare a prendere coscienza del fatto che una sola alternativa resti sul tappeto: chinare per sempre la testa o denunciare l’illegittimità della legge dello Stato.

ENZO DI SALVATORE  





Il riordino delle Province abruzzesi e la lenta agonia di Teramo


La proposta di riordino delle Province abruzzesi, avanzata dal Sindaco Brucchi nel corso dell’Assemblea tenutasi ieri presso la Sala polifunzionale della Provincia di Teramo, è stata largamente condivisa dai politici locali intervenuti all’incontro. Almeno questo è quanto riferisce la stampa quotidiana oggi. Di cosa si tratta? La ricetta sembra essere semplice: conservare intatte le Province di L’Aquila, Teramo e Chieti e trasformare Pescara in Città metropolitana. In questo modo, Pescara potrebbe tranquillamente cedere qualche suo Comune alla Provincia di Teramo (come ad esempio Penne) e Teramo acquisirebbe i requisiti minimi imposti dalla delibera del Governo del 20 luglio scorso: a) dimensione territoriale non inferiore a duemilacinquecento km quadrati; b) popolazione residente non inferiore a trecentocinquantamila. Una soluzione che, attraverso un taglia e cuci territoriale, finirebbe per accontentare tutti, giacché mentre quei requisiti non sarebbero necessari affinché Pescara possa costituirsi in Città metropolitana, per Teramo essi sarebbero fonte di “salvezza”. I numeri, infatti, parlano chiaro. La dimensione territoriale e la popolazione residente nelle quattro Province abruzzesi sono le seguenti: Pescara possiede 1.225 kmq e 323.184 abitanti; L’Aquila 5.034 kmq e 309.820 abitanti; Chieti 2.588 kmq e 397.123 abitanti; Teramo 1.948 kmq e 312.239 abitanti.

A mio parere, la proposta avanzata dal Sindaco Brucchi non sembra realizzabile. Per due motivi: 1) Pescara non può essere costituita in Città metropolitana, in quanto le Città metropolitane sono istituite dal Parlamento e sono solo quelle elencate all’art. 18 della legge sulla “spending review”, ossia: Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria; 2) l’art. 17 della legge sulla “spending review” precisa che “il riordino deve essere effettuato nel rispetto dei requisiti minimi (…) determinati sulla base dei dati di dimensione territoriale e di popolazione, come esistenti alla data di adozione della deliberazione di cui al medesimo comma 2”. E cioè: al 20 luglio 2012, giorno in cui il Consiglio dei ministri ha, appunto, adottato la delibera con cui sono stati fissati i requisiti minimi. Questo vuol dire che, ai fini del riordino delle Province, il taglia e cuci territoriale è vietato e che l’accorpamento delle Province non può che avvenire in “blocco”. Circostanza, questa, del tutto trascurata da chi ha preso parte all’incontro ieri.

Se così è, resterebbe sul tappeto un’unica alternativa: 1) procedere al riordino delle Province abruzzesi, seguendo i criteri fissati dallo Stato; 2) agire in sede giurisdizionale.

1) Alla luce dei criteri fissati dalla legge dello Stato, il riordino delle Province abruzzesi comporterebbe in ogni caso la soppressione della Provincia di Teramo. Per Pescara, invece, il discorso è leggermente diverso, in quanto, qualora fosse accorpata a Chieti, diverrebbe comunque Capoluogo di Provincia, giacché la legge e la delibera del Governo stabiliscono a chiare lettere che “in esito al riordino (…) assume il ruolo di comune capoluogo delle singole province il comune già capoluogo delle province oggetto di riordino con maggior popolazione residente”.
2) Per la Provincia di Teramo, dunque, non c’è “salvezza”. A meno che – si intende – non decida di agire in sede giurisdizionale, impugnando la delibera del Consiglio dei ministri davanti al Tar (affinché poi questo sollevi la questione di legittimità della legge sulla “spending review” dinanzi alla Corte costituzionale) oppure non chieda al Consiglio delle Autonomie locali (Cal) di proporre alla Regione Abruzzo l’impugnazione in via principale dell’art. 17 della stessa legge sulla “spending review”. Soluzione, quest’ultima, non impossibile da praticare, posto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 298 del 2009, ha affermato che “le regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale”.

ENZO DI SALVATORE


La Regione Abruzzo non rende pareri sulla VIA dello Stato

L’ultimo bollettino ufficiale degli idrocarburi, diramato dal Ministero dello sviluppo economico il 30 giugno scorso, parla chiaro: la società "Petroceltic Italia" ha ottenuto due permessi per cercare petrolio nel mare abruzzese.
Come è noto, le Regioni non hanno alcuna competenza al riguardo. Non già perché così sia stabilito in Costituzione (e questo lo si è detto più volte), ma perché così ha voluto nel 2009 una legge dello Stato, entrata in vigore senza che le Regioni battessero ciglio.
Il punto, ora, è, però, un altro. Sebbene, infatti, ogni competenza regionale sia dal 2009 del tutto negata, in capo alle Regioni residuerebbe comunque una qualche possibilità di intervento.
I due permessi di cui si sta parlando, infatti, sono stati preceduti nel 2011 da due decreti, con i quali il Ministero dell’ambiente ha espresso giudizio positivo circa la compatibilità ambientale dei progetti presentati. Se si legge quanto stabilisce il Codice dell’Ambiente del 2006 si scopre che quando la valutazione di impatto ambientale (VIA) ha ad oggetto progetti di competenza dello Stato, che siano comunque di interesse regionale, le Regioni sono chiamate a dare un parere entro 90 giorni dalla presentazione dell’istanza da parte della società petrolifera (art. 25, comma 2, Codice dell’Ambiente).
Ebbene, volendo sorvolare sulla contraddittorietà di una siffatta disciplina (per cui, da un lato, le Regioni non dovrebbero avere alcuna competenza nel rilascio del titolo minerario, mentre, dall’altro, avrebbero una specifica competenza ad esprimersi sulla VIA, che conduce, poi, al rilascio del titolo), preme qui osservare che la Regione Abruzzo ha ritenuto di non utilizzare tale facoltà, che la legge comunque le concedeva: la Regione Abruzzo – così si legge nei due decreti del Ministero dell’ambiente – non ha espresso alcun parere sulla VIA ed anzi non ha trasmesso alcun parere pur essendo stata sollecitata a farlo in data 4 marzo 2010.
Il fatto più sorprendente, in verità, è che la Regione Abruzzo non rende un parere sui progetti sottoposti a VIA da parte dello Stato ormai da tempo: l’ultimo, relativo al Metanodotto Sulmona-Oricola, risale, infatti, al 2008. Dopodiché l’indifferenza più assoluta.
Nessun parere reso, ad esempio, sul Metanodotto Sulmona-Foligno (decreto VIA del 7 marzo 2011, con esito positivo), rispetto al quale sono, invece, pervenuti i pareri delle Regioni Marche ed Umbria; sulla perforazione del pozzo esplorativo “Elsa 2” (decreto VIA del 16 maggio 2011, con esito negativo); sull’elettrodotto “Villanova-Gissi” (decreto VIA del 13 settembre 2011, con esito positivo); sulla centrale termoelettrica di Teramo (decreto VIA del 21 aprile 2011, con esito negativo); sul permesso di ricerca di idrocarburi in mare “d 507 B.R-.EL” (decreto VIA del 13 settembre 2011, con esito positivo); sul permesso di ricerca di idrocarburi in mare “d 505 B.R-.EL” (decreto VIA del 29 marzo 2011, con esito positivo, rispetto al quale il Consiglio regionale abruzzese, nella seduta del 14 giugno 2011, ha dato mandato al Presidente Chiodi di proporre ricorso amministrativo avverso il decreto VIA).
Insomma, un bell’esempio di buona amministrazione. Non c’è che dire.

ENZO DI SALVATORE


Nel "Decreto sviluppo" una norma sul petrolio particolarmente insidiosa

Nel 2010, in seguito al disastro petrolifero occorso nel Golfo del Messico, l’allora Ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo chiese ed ottenne una modifica al Codice dell’ambiente del 2006. In base a questa modifica, si stabiliva che, da quel momento in poi, non sarebbe stato più possibile cercare ed estrarre gas o petrolio all’interno di aree marine o costiere protette a qualsiasi titolo. Il divieto veniva, quindi, esteso anche all’esterno di quelle aree protette, per 12 miglia marine ancora. Per il solo petrolio, invece, esso avrebbe trovato applicazione lungo tutta la fascia marina della Penisola italiana, entro le cinque miglia dalla costa. Infine, si stabilivano ancora due cose:

1) che il divieto dovesse riguardare anche i “procedimenti autorizzatori in corso”, vale a dire a tutte quelle richieste di ricerca o di estrazione, che, alla data di entrata in vigore della modifica, non avessero avuto ancora il rilascio di un titolo minerario;
2) che, tuttavia, restassero in piedi i titoli minerari già rilasciati alla data di entrata in vigore della modifica: questo vuol dire che se una società petrolifera fosse stata autorizzata prima del 2010 a cercare petrolio o ad estrarlo in una zona protetta, avrebbe potuto continuare a farlo. Il passato è passato.

Nell’aprile di quest’anno, il Governo ha introdotto un’ulteriore modifica a quanto voluto nel 2010 dall’ex Ministro Prestigiacomo, stabilendo che dovessero restare in piedi i titoli già rilasciati “anche ai fini delle eventuali proroghe”. In che senso? Faccio un esempio: se una società petrolifera fosse stata già autorizzata prima del 2010 a cercare o ad estrarre petrolio, avrebbe potuto chiedere di farlo per due, tre, quattro anni ancora. Il passato, evidentemente, non è del tutto passato, poiché – secondo il Governo – è in condizione di proiettare la sua ombra anche sul futuro.
Ora, per cercare ed estrarre petrolio, la società petrolifera deve presentare due distinte istanze al Ministero dello sviluppo economico: con la prima chiede un “permesso di ricerca”; con la seconda chiede una “concessione” alla “coltivazione”. Le due attività sono collegate, certo. Pur tuttavia, si tratta di due diversi “procedimenti autorizzatori”, che terminano con due diversi “titoli minerari”.
Torniamo a quanto voluto dall’ex Ministro Prestigiacomo. Alla data di entrata in vigore della modifica, chi avesse avuto un permesso per cercare petrolio, avrebbe potuto continuare tranquillamente a farlo. Ma una volta trovato il petrolio, se avesse chiesto al Ministero l’autorizzazione ad estrarlo, il Ministero non l’avrebbe concessa. Perché? Perché la modifica legislativa consentiva di preservare solo quel che già si aveva, non già quel che si chiedeva ex novo. Se però così è, come giustificare, allora, la modifica introdotta nell’aprile di quest’anno dal Governo? Mi spiego: se io sono tuttora titolare di un permesso per cercare petrolio – permesso che risale a prima del 2010 – non ho nessun interesse a chiedere nel 2012 che mi venga concessa un’ulteriore proroga di due, tre, quattro anni ancora per continuare a farlo, sapendo che, poi, non mi sarà certo possibile estrarlo (stante, appunto, il divieto delle 5 e 12 miglia marine). Che ci faccio? Questo dubbio mi ha torturato per mesi. Ma oggi mi è abbastanza chiaro cosa ci potrei fare.

Il “Decreto sviluppo” – che presto arriverà sul tavolo del Governo – contiene un articolo, che inciderà sulla modifica voluta nel 2010 dall’ex Ministro Prestigiacomo. In esso si dice quanto segue: “All’articolo 6, comma 17, del decreto legislativo3 aprile 2006, n. 152, al quinto periodo dopo le parole “autorizzatori” e prima delle parole “in corso” sono aggiunte le seguenti: “di cui all’articolo 4 e 6 della legge n. 9 del 1991. Traduco:
1) il divieto delle 5 o 12 miglia marine si applica sì anche ai “procedimenti autorizzatori” in corso, ma solo a quelli che dovessero interessare le acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi. In questo caso, esso riguarda tanto la ricerca quanto l’estrazione del petrolio e del gas. Precisazione, a dire il vero, inutile, poiché detto divieto è (almeno in parte) già contenuto nella legge del 1991, che il “Decreto sviluppo” si premura di richiamare;
2) il divieto delle 5 o 12 miglia marine si applica sì anche ai “procedimenti autorizzatori” in corso, ma… limitatamente ai “permessi di ricerca”. Questo vuol dire che, dal momento in cui entrerà in vigore il “Decreto sviluppo”, non sarà più possibile chiedere nuovi permessi di ricerca. Ergo: si potrà, però, estrarre petrolio. Nel senso che chi è già titolare di un permesso di ricerca del petrolio o del gas, che risalga a prima del 2010, e che abbia nel frattempo presentato un’istanza di concessione di coltivazione, potrà ora tranquillamente estrarlo, anche se questo dovesse avvenire – per avventura – a 200 metri dalla riva.

Ma come giustifica questa scelta il Governo? Nella relazione che accompagna il “Decreto sviluppo” si legge: “La norma sblocca 4,5 miliardi di investimenti in 8 progetti di sviluppo di giacimenti già individuati e perforati ma non ancora messi in produzione, altrimenti destinati a restare improduttivi con oneri a carico dello Stato, evitando inoltre richieste di risarcimento da parte delle imprese allo Stato italiano per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso”. Come dire: se non accordiamo la concessione ad estrarre petrolio, lo Stato italiano dovrà risarcire con milioni e milioni di euro le compagnie petrolifere per gli investimenti effettuati.
Non vorrei sbagliarmi, ma a me pare che non sia così. La modifica voluta dall’ex Ministro Prestigiacomo teneva (e tiene tuttora) distinte due ipotesi: i “procedimenti autorizzatori in corso” e quelli già conclusi. Nel codice dell’ambiente si legge, infatti: “Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati” alla data di entrata in vigore della legge. Questo significa che se io possiedo un titolo per estrarre petrolio, qualora mi fosse impedito improvvisamente di farlo, potrei legittimamente chiedere un risarcimento milionario. Qualora, invece, un procedimento autorizzatorio fosse in corso, non avendo ancora alcun titolo per estrarre petrolio, non avrei neppure alcun diritto per chiedere un risarcimento milionario.
Certo, nell’attesa che il procedimento autorizzatorio si concluda, le società petrolifere potrebbero aver già investito e non poco. Ma, allora, la questione si sposterebbe su un piano diverso, in quanto concernerebbe il rischio, che, da sempre, accompagna inevitabilmente l’iniziativa economica privata: del piccolo imprenditore, così come della più grande multinazionale.

ENZO DI SALVATORE


Il Collegio regionale per le garanzie statutarie si pronuncia sulla Riserva del Borsacchio

Il 5 giugno scorso, il Collegio regionale per le garanzie statutarie si è pronunciato in merito alla delibera legislativa di revisione dei confini della Riserva naturale del Borsacchio, approvata dal Consiglio regionale un mese fa circa (8 maggio). La pronuncia del Collegio è stata sollecitata da una richiesta avanzata da 9 consiglieri, in conformità a quanto stabilito dallo Statuto della Regione e dal Regolamento interno per i lavori del Consiglio, ove si stabilisce, appunto, che il Collegio si esprima con parere “sui rilievi di compatibilità con lo Statuto delle deliberazioni legislative sollevati da un quinto dei consiglieri” (art. 80 St.), nel rispetto di alcune tassative condizioni (art. 119 Reg.).
Nella loro istanza, i Consiglieri hanno chiesto al Collegio se la delibera legislativa sul Borsacchio fosse compatibile con l’art. 32 dello Statuto della Regione, ossia con le disposizioni che disciplinano il procedimento legislativo, denunciando l’irregolarità della “votazione in merito al progetto di legge”. Essi, inoltre, hanno lamentato anche la “palese incongruenza” che sussiste tra il testo della delibera legislativa e la cartografia allegata alla delibera, la quale, com’è noto, traccia il perimetro della Riserva.
Il problema può essere riassunto nel modo che segue: nella delibera si legge che gli ettari di territorio della Riserva ammontano a 1.150; nella cartografia si dice, invece, che essi sono pari a 1.148.

Il Collegio ha ritenuto che quanto denunciato dai Consiglieri in merito alla irregolarità del procedimento sia privo di fondamento; esso ha, tuttavia, concluso che la delibera debba tornare comunque in Consiglio, in quanto, recando “un oggettivo contrasto” in sé (i.e.: tra gli ettari di territorio dichiarati nel testo e quelli dichiarati nella cartografia), si porrebbe in violazione del “principio di chiarezza della legislazione”. Conclusione, questa, discutibile sia dal punto di vista “formale”, in quanto la richiesta dei Consiglieri poggerebbe su un parametro (l’art. 40 dello Statuto, relativo alla “qualità delle norme”) non espressamente evocato (come impone, invece, l’art. 119 del Regolamento del Consiglio), sia dal punto di vista “sostanziale” ovvero del “merito”.

Sul piano del merito, il parere non convince per la seguente ragione. Il Collegio discorre di “oggettivo” e “insanabile” contrasto, che sussisterebbe tra quanto dichiarato nella delibera e quanto dichiarato nella cartografia. Ora, questo “contrasto” è, per forza di cose, “insanabile” solo in senso – per così dire – “improprio”, giacché se così non fosse neppure il Consiglio potrebbe mai sanare qualcosa che si ritiene di per sé “insanabile”. Un contrasto, dunque, che è tale solo da un punto di vista materiale. Per questo il problema doveva essere risolto diversamente, ossia dichiarando che fosse sufficiente procedere ad una correzione in sede di coordinamento formale del testo di legge.
Che si tratti di un errore materiale “sanabile” lo si ricava dal fatto che la legge non può che tradurre in parole o in numeri quello che c’è nella cartografia (il perimetro della Riserva). Tra i due atti vi è una sequenza logica, che non può essere invertita: il testo di legge segue giocoforza quanto stabilito dalla cartografia; non può darsi il contrario. Del resto, in sede di coordinamento formale si sarebbe fatto esattamente quello che si chiede ora al Consiglio di fare: correggere i 1.150 ettari in 1.148. Con un’unica differenza: che il Consiglio può ora scegliere di farlo in tre modi diversi: 1) scrivendo 1.148 dove c’è scritto 1.150; 2) aggiungere la parola “circa” prima di 1.150; 3) cancellare il numero 1.150 e rinviare direttamente al numero di ettari dichiarati nella cartografia.
Ma c’è un’altra considerazione che deve essere svolta e che porta a ritenere che, in verità, neppure il Consiglio potrebbe sciogliere – se non in senso materiale – la contraddizione di cui parla il Collegio. Chi ci dice, infatti, che, una volta corretta la delibera, i 1.148 ettari dichiarati nella cartografia  e nella legge corrispondano effettivamente all’entità reale del territorio della riserva? Nessuno. Per questo non sarebbe stato un problema correggere la legge: perché né la correzione materiale né la nuova delibera del Consiglio potrebbero togliere qualcosa alla effettiva consistenza della Riserva, posto che gli adempimenti successivi – come ad esempio la sistemazione dei cartelli segnaletici perimetrali e dei cartelli lungo le strade di accesso alla Riserva da parte del Comune di Roseto – dovranno seguire inevitabilmente la cartografia, a prescindere dal numero degli ettari che in essa risultino dichiarati.

Nel suo parere, il Collegio si è richiamato al “principio della chiarezza legislativa”, sostenendo che detto principio sia implicitamente contenuto nella stessa disciplina del procedimento legislativo di cui all’art. 32 dello Statuto; articolo, questo, che, secondo il Collegio, “esplica dal punto di vista procedimentale anche i principi di necessaria chiarezza e comprensibilità dei testi legislativi”. Il che, a dire il vero, non pare; ed anzi: finisce proprio per dimostrare come il Collegio tenti di ancorare la sua decisione ad un parametro non evocato dai Consiglieri regionali.
Affermare che la “necessaria chiarezza e comprensibilità dei testi legislativi” si configuri come un “dovere” non altrimenti eludibile, cui può porsi rimedio solo con una nuova delibera del Consiglio “sulle sole parti oggetto del giudizio di non conformità statutaria” (come richiesto dall’art. 119, comma 6, del Regolamento interno), costituisce un precedente niente affatto trascurabile; un precedente che è in condizione di spianare la strada a richieste di ogni tipo, sia da parte dei consiglieri, sia da parte del Collegio. Perché, infatti: quante sono le leggi chiare e comprensibili che il Consiglio immette sistematicamente nell’ordinamento regionale?

ENZO DI SALVATORE



La Costituzione (s)piegata dai politici 

La “lettera aperta” che il consigliere regionale Rabbuffo ha pubblicato su “I due punti” e con cui si propone di replicare a quanto da me espresso in ordine alla nuova legge sulla Riserva del Borsacchio poggia, credo, su un grave fraintendimento.
Le mie “elucubrazioni” – come le chiama Rabbuffo – non anelano ad alcuna verità; esse sono solo parte di una riflessione, che è propria dello studioso, e che vorrebbe mettere capo ad un punto di vista scientifico.
A prescindere, infatti, dai dubbi che continuo a nutrire in ordine alla legittimità della legge sulla Riserva del Borsacchio, chi studia sa che le tesi scientifiche sono tali solo se confutabili; giacché se si ritenesse che sul piano scientifico vi siano tesi vere o tesi false si finirebbe per rendere a queste un carattere filosofico o metafisico.
Il mio ruolo, dunque, mi è abbastanza chiaro e con esso anche il posto che alle mie “elucubrazioni” deve essere assegnato. Molto meno, invece, mi pare lo sia quello del Consigliere Rabbuffo, il quale è uno stimato politico ed in questo stimato ruolo scrive affinché sia fatta piena verità sui fatti.
Il titolo della sua lettera sembra già di per sé significativo: “I rilievi di incostituzionalità sono infondati”; al contrario, il mio intervento recava un titolo diverso: “Perché la nuova legge sul Borsacchio è di dubbia legittimità costituzionale”. Due obiettivi opposti, come si vede: il mio indirizzato ad esprimere un personale punto di vista scientifico, che, in quanto tale, vorrebbe trascurare ogni considerazione di carattere politico. Il suo, al contrario, diretto a difendere la bontà della decisione politica assunta con la recente legge sulla riperimetrazione della Riserva del Borsacchio.
Che il “politico” Rabbuffo fraintenda incredibilmente il mio ruolo lo si evince da alcuni passaggi della sua lettera (ad esempio, laddove scrive: “Quindi, o i rilievi di presunta incostituzionalità della legge di riperimetrazione sono infondati o il Prof. Di Salvatore deve iniziare ad andare in giro per l’Italia a predicare che tutte le leggi regionali, su questo punto, sono infondati”), così come da alcune affermazioni rese di recente durante un dibattito in TV, ove egli ha sostenuto che la legge n. 15 del 1991 della Regione Marche, per alcuni aspetti molto simile a quella abruzzese, non sia stata impugnata dal Governo e che pertanto non sia illegittima e che pertanto le mie considerazioni (ad un certo punto della trasmissione definite: “illazioni”) sarebbero destituite di ogni fondamento.
A parte l’equazione priva di pregio (non impugnazione = non illegittimità), mi preme chiarire che, se l’angolo visuale dal quale muovo è quello scientifico, mi è abbastanza indifferente sapere quello che il Governo fa o non fa, così come sapere se tutte le Regioni di Italia abbiano deciso di varare leggi che vadano in una direzione contraria a quanto da me indicato.
Questo può forse costituire un problema per il politico o per l’avvocato, che, molto comprensibilmente, devono portare acqua al loro mulino; non può esserlo certo per me. Giacché a me interessa il problema in sé, essendo irrilevante se esso sia originato da un’idea politica di Rabbuffo o di qualcun altro. Tant’è che nei due miei interventi sulla Riserva del Borsacchio il nome di Rabbuffo non compare mai.
A Rabbuffo, invece, sembra interessare molto rendere poco credibile e screditare chi intende sostenere tesi solo scientifiche, nella convinzione, forse, che in questo modo la sua legittima posizione politica possa uscirne rafforzata.
Il tono irriverente e a tratti canzonatorio della sua lettera lo testimonierebbe. Per questa ragione, sebbene lo ringrazi per aver maturato in me ancor di più il convincimento che nella critica rivoltami sostanza non vi sia, rinuncio a discutere qui i termini del problema, ripromettendomi di farlo in un’occasione più adeguata.

ENZO DI SALVATORE


È legittima la legge regionale abruzzese che sospende con efficacia retroattiva la VIA?

L’art. 63 della legge finanziaria 2012 della Regione Abruzzo aveva introdotto una nuova “disciplina delle misure di pubblicità dell’Autorità competente in materia di valutazione ambientale”. Aveva, appunto. Perché il 20 marzo scorso il Consiglio regionale, con legge n. 13, ha sospeso l’efficacia dell’art. 63 per il periodo compreso tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2012, stabilendo, con ciò, che per quei 4 mesi continuasse ad applicarsi la normativa già vigente in materia.
Questa decisione appare del tutto discutibile, in quanto occorrerebbe chiedersi se sia legittima una legge regionale che sospenda con efficacia retroattiva una precedente legge regionale.
In via di principio, la questione non è molto dissimile da quella che si avrebbe qualora il Consiglio regionale abrogasse con effetti retroattivi una sua precedente legge. L’abrogazione, come è noto, determina la cessazione della vigenza di una legge. E questa cessazione agisce con efficacia ex nunc, ossia per il futuro e non per il passato. A meno che, si intende, il Legislatore non dichiari di voler estendere anche al passato la nuova legge adottata. La sospensione, invece, non provoca la cessazione della vigenza di una norma, ma ne determina solo la sua temporanea non applicazione. Ciò vuol dire che provvisoriamente, e cioè fino ad una certa data, si applicherà una diversa legge e che allo spirare del termine tornerà ad applicarsi la legge sospesa. Anche in questa evenienza, la sospensione agisce per il futuro e non per il passato. A meno che, si intende, il Legislatore non dichiari espressamente di voler estendere la sospensione della vigenza della legge anche al passato. Con una non trascurabile (potenziale) differenza: che mentre l’abrogazione retroattiva può anche giustificarsi per porre rimedio ad una disparità di trattamento che di fatto si produca tra coloro che soggiacciono alla vecchia normativa e coloro che soggiacciono a quella nuova, la sospensione retroattiva contiene in sé il rischio che si realizzi, con maggiore probabilità, il risultato contrario. Essa, pertanto, è legittima solo se rispettosa del canone della ragionevolezza. Ed è in questo senso che occorre, allora, chiedersi se la legge n. 13/2012 sia legittima o no.

Alcune richieste, relative ad impianti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale, sono state presentate in Regione durante il periodo che ha preceduto l’adozione della legge n. 13/2012. Mi limito a citare un solo esempio: la realizzazione di un impianto eolico presso Castiglione a Casauria e Torre de’ Passeri (PE) da parte della società “Energy System Services”. Nell’avviso di deposito comunicato dalla Regione si dice che a partire dall’8 marzo 2012 “decorrono i 60 (sessanta) giorni entro i quali chiunque (associazioni, Enti, privati cittadini e portatori di interesse), in conformità alle leggi vigenti, può presentare, in forma scritta, al predetto Servizio, istanze, osservazioni o pareri sull’opera”. Con quali conseguenze?
1) Dall’8 marzo e fino al 29 marzo (giorno in cui è entrata in vigore la legge n. 13) ha trovato (rectius: avrebbe dovuto trovare) applicazione la disciplina sulla VIA contenuta nella legge finanziaria; dal 29 marzo ha trovato applicazione la disciplina contenuta nella legge n. 13, che in modo retroattivo ha sospeso l’efficacia della disciplina contenuta nella legge finanziaria; dal 1° maggio in poi troverà nuovamente applicazione la disciplina contenuta nella legge finanziaria. È evidente che, dati i tempi ristrettissimi, difficilmente si sarà in condizione di dar seguito alle norme sul nuovo procedimento VIA (almeno in relazione alla partecipazione del pubblico interessato, visto che il termine per presentare osservazioni scadrà il 7 maggio).
2) Il Comitato regionale VIA ha nel frattempo valutato la compatibilità ambientale di circa 60 progetti, sulla base delle norme contenute nella legge n. 13/2012. Oggi lo farà in relazione ad altri 43 progetti. Per alcuni, come per quello di Castiglione a Casauria e Torre de’ Passeri, la valutazione del Comitato avverrà, invece, prossimamente sulla base dell’art. 63 della legge finanziaria, che al suo comma 13 stabilisce: “È fatto obbligo per la Direzione regionale competente di trasmettere o rendere disponibile per tempo, anche per via telematica, ai componenti del Comitato CCR-VIA tutta la documentazione progettuale, il parere istruttorio degli uffici regionali e copia delle osservazioni pervenute, relativa ai piani o progetti per i quali il CCR-VIA è chiamato ad esprimersi”. Da un punto di vista qualitativo, ciò comporta che i progetti a suo tempo presentati (e per i quali non si è ancora concluso il procedimento VIA) saranno oggetto di una differente valutazione rispetto a quei 60 e passa progetti già valutati secondo la normativa di sempre, sulla base della sospensione disposta dal Consiglio regionale. La qual cosa a me pare che finisca per concretare esattamente una ipotesi di disparità di trattamento ed un arbitrio del Legislatore, potendosi insinuare il dubbio che la sospensione della legge servisse a sottrarre alla applicazione della nuova normativa sulla VIA – nell’imminenza della valutazione del Comitato – un certo numero di progetti presentati.

ENZO DI SALVATORE


Bar che chiudono per ragioni di sicurezza pubblica

Da recenti notizie di stampa s’apprende della chiusura forzata, per 15 giorni, di due bar della Città di Teramo: “Baratto” di Sant’Atto e “Clarizia” del quartiere Gammarana.
La chiusura è stata disposta dal Questore della Provincia di Teramo perché i due esercizi sarebbero frequentati da pregiudicati. La medesima Autorità di pubblica sicurezza, sempre stando al racconto dei giornali, non ricollega l’adozione dei provvedimenti a responsabilità riferibili ai gestori dei due luoghi di ritrovo, ma ha deciso comunque di sospendere loro le licenze.
Bisogna dunque chiedersi quanto sia compatibile con il nostro ordinamento costituzionale un provvedimento del genere e, soprattutto, quanto siano costituzionalmente accettabili le conseguenze che ne sono scaturite.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, e cioè secondo le sentenze che diversi giudici hanno già pronunciato in casi simili, non è in effetti necessario che il Questore ravvisi delle responsabilità in capo ai gestori degli esercizi per decidere di sospendere o di revocare loro le licenze, dal momento che la legge di cui si fa applicazione in questi casi – art. 100 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.) – non ha una finalità punitiva, ma semplicemente persegue la tutela dell’ordine pubblico, della moralità, del buon costume o della sicurezza dei cittadini. Temi di costante attualità – almeno per quanto riguarda la sicurezza e l’ordine pubblico – malgrado la vetustà della norma: classe 1931.

Detta così, la notizia potrebbe non destare particolare preoccupazione. Potrebbe anzi ristorare la fame di sicurezza che molte persone avvertono. L’idea che il Questore, in caso di pericolo, chiuda, vieti, proibisca, potrebbe persino rinfrancare il miraggio di città più sicure e tranquille.
Come spesso accade, però, ragionamenti troppo frettolosi rischiano di scadere nella demagogia e di perdere di vista l’essenza delle cose e la tutela dei singoli: avvertita come necessaria non tanto dall’etica o dalla morale, ma dalla nostra Carta costituzionale, che troppo spesso viene relegata sullo sfondo. Una delle maggiori conquiste del nostro ordinamento costituzionale è, appunto, la tutela dell’individuo. Del singolo. Tutela in passato sempre costantemente sacrificata a vantaggio di altri interessi, come, ad esempio, quello pubblico.
Anche oggi l’interesse pubblico trova una tutela privilegiata nel nostro ordinamento, ma la Costituzione non permette che l’interesse del singolo ne esca eccessivamente svilito o persino annullato.

Per comprendere se il provvedimento adottato dal Questore sia o meno legittimo – e soprattutto se lo siano le sue conseguenze – bisogna per un attimo accantonare, senza dismetterle, le vesti della collettività, della moltitudine, ed indossare i vestimenti del gestore, del barista, del cameriere, oltreché dei congiunti di costoro che sui loro redditi fanno affidamento.
Individualità tutelate dal diritto, non dal ben pensare.
Trovarsi improvvisamente senza proventi, lasciar marcire beni alimentari deteriorabili, accantonare ampie riserve di cattiva pubblicità, non poter far fronte alle esigenze quotidiane per sé e per la propria famiglia sono tutte questioni economicamente apprezzabili. In altri termini: hanno un costo. Di questo costo deve farsi carico la Pubblica Amministrazione, che ha perseguito la tutela dell’interesse pubblico. Non il singolo.

Si pensi ad esempio all’esproprio per pubblica utilità. La Costituzione ammette che il proprietario di un terreno ne venga espropriato perché su di esso possa essere edificato un ospedale o una strada o qualunque altra cosa ma pretende che al proprietario medesimo venga riconosciuto un indennizzo.
Dunque le considerazioni conclusive sono due.
Da un lato è necessario verificare se il provvedimento ha davvero tutelato l’interesse pubblico, non dimenticando che “l'esercizio del potere attribuito al questore dall’art. 100 t.u.l.p.s. del 1931 incontra un limite nell’effettiva sussistenza di situazioni di fatto di particolare gravità ed allarme sociale concretamente idonee a mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza pubblica, poiché solo detti presupposti giustificano la compressione di una libertà costituzionalmente tutelata come quella dell'iniziativa economica privata” (così T.A.R. di Bologna, sez. I, 19 settembre 2003, n. 1567).
Dall’altro lato, sempre che ragioni di necessità vi fossero e fossero concrete, bisogna indennizzare la sospensione della licenza e a beneficiare dell’indennizzo dovrebbero essere i gestori ed i lavoratori dipendenti degli esercizi. In questo senso, sarebbe auspicabile una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21 quinquies della legge 241/1990 del quale bisognerebbe fare applicazione anche ai casi come quello in esame. Sia in caso di sospensione che di revoca. Così recita la disposizione citata al primo comma: “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo”.
Laddove un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma de qua non fosse praticabile in ragione di un insanabile contrasto con la lettera della disposizione, allora bisognerebbe concludersi per l’incostituzionalità dell’art. 100 del T.U.L.P.S., nella parte in cui non prevede un equo indennizzo per coloro che, pur esenti da responsabilità, si vedano sospesa o revocata la licenza.

ANDREA CERRONE


Nuove considerazioni sulla illegittimità della legge sul Borsacchio


L’8 maggio scorso il Consiglio regionale abruzzese ha deliberato con legge una revisione dei confini della Riserva naturale del Borsacchio, estromettendo dalla stessa il territorio del Comune di Giulianova ed alcune parti del territorio di Roseto degli Abruzzi. Con la legge varata si è proceduto alla sostituzione di alcuni commi dell’art. 69 della legge istitutiva del 2005: quelli che vanno da 1 a 16, mentre immutati restano i commi da 17 a 25 (relativi ai divieti immediatamente applicabili in attesa che la Riserva entri in funzione).
A parere di chi scrive, la legge è illegittima per i seguenti motivi, che investono: 1) il procedimento di istituzione della Riserva; 2) il procedimento di attuazione della Riserva; 3) la natura della legge varata; 4) l’assenza di copertura finanziaria.

1) La legge dello Stato sulle aree protette (l. 394 del 1991) disegna un iter tipizzato da seguire ai fini dell’istituzione delle riserve naturali regionali. Essa stabilisce a chiare lettere che sulla proposta di istituzione di un’area protetta debbano esprimersi gli Enti locali interessati (ossia: i Comuni e la Provincia), che ciò avvenga in Conferenza e che i lavori della Conferenza terminino con un documento di indirizzo, contenente tutta una serie di elementi (art. 22). Solo in seguito il Consiglio regionale potrà esprimersi, “tenuto conto del documento di indirizzo” approvato in Conferenza (su ciò v. anche Corte cost., sent. n. 14 del 2012).
Ora tutto questo non pare essere avvenuto, come del resto si intuisce dalla relazione della II Commissione consiliare, ove si legge che la Commissione “ha ascoltato le amministrazioni locali interessate”. Peraltro, anche a voler tacere sulla irregolarità del procedimento seguito, non è chiaro in che modo, quando e nella persona di chi gli enti locali interessati si sarebbero pronunciati. La relazione della Commissione, ad esempio, non dice se il “parere” dei Comuni e della Provincia reso in Commissione sia stato preceduto o no da una delibera formale dell’Ente.

2) La nuova legge sul Borsacchio rinnova la disciplina degli adempimenti da seguire per l’attuazione della Riserva. Essa ripete quanto già prevedeva la legge del 2005, ossia: entro 90 giorni dalla entrata in vigore della legge il Comune di Roseto dovrà definire, mediante “apposita intesa” [1], l’organo di gestione della riserva, la sua composizione, nonché le forme e i modi attraverso cui si attuerà la gestione stessa; entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, il Comune provvederà all’affidamento dell’incarico per l’elaborazione del Piano di Assetto naturalistico della Riserva, il quale dovrà essere elaborato ed adottato entro 1 anno dall’incarico; entro 120 giorni dalla data in cui perverrà in Regione, il Consiglio regionale dovrà approvare il Piano di Assetto Naturalistico; entro 90 giorni dall’approvazione del Piano da parte del Consiglio regionale, il Comune di Roseto approverà il Programma pluriennale di attuazione del Piano e il “Regolamento di esercizio, che stabilisce le modalità di accesso alla Riserva e di fruizione delle infrastrutture e dei servizi in essa realizzati (…), nonché i divieti specifici”.
Ebbene questa disciplina è illegittima per la seguente ragione.
La legge statale n. 394 del 1991 classifica le aree naturali protette regionali in Parchi naturali regionali e Riserve naturali regionali, recando all’art. 22 principi fondamentali che le Regioni devono seguire nel predisporre la normativa di dettaglio. Gli articoli 23 ss. si occupano di disciplinare espressamente i soli Parchi regionali, nulla disponendo in ordine alle Riserve. Ciò potrebbe lasciar pensare che tale disciplina non possa essere estesa alle Riserve e che, pertanto, la Regione sia al riguardo libera di recare la disciplina che vuole. Questa interpretazione, però, non può essere seguita, in quanto se così fosse potrebbe corrersi il rischio che gli obiettivi perseguiti dallo Stato in materia di tutela ambientale siano vanificati. Che non sia così, del resto, lo si evince dalla circostanza che l’art. 22 della legge n. 394 del 1991 annoveri tra i principi fondamentali anche “la pubblicità degli atti relativi all’istituzione dell’area protetta e alla definizione del piano per il parco di cui all’art. 25”. E se si passa a vedere quel che stabilisce l’art. 25, si apprende che “il piano per il parco è adottato dall’organismo di gestione del parco ed è approvato dalla regione”. Con il che resta, dunque, confermato che lo Stato abbia voluto estendere la disciplina sui Parchi anche alle Riserve naturali regionali.
L’art. 23 della legge n. 394 del 1991 stabilisce che la legge istitutiva del parco regionale individui “il soggetto per la gestione del parco”. Per comprendere quale sia l’organismo deputato alla gestione della Riserva naturale del Borsacchio occorre verificare quel che dispone in proposito la legge approvata dal Consiglio regionale. In essa, tuttavia, si dicono due cose contestualmente: 1) che “la gestione della Riserva naturale regionale guidata è demandata al Comune di Roseto degli Abruzzi” (art. 69, comma 4); 2) che “entro il termine di 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge il Comune definisce, mediante apposita intesa, l’organo di gestione della Riserva, la relativa composizione, nonché le forme ed i modi attraverso cui si attuerà la gestione della Riserva stessa” (art. 69, comma 6). Da queste due disposizioni, come si vede, non si comprende quale sia l’organismo di gestione della Riserva individuato dalla legge.
Ora, questa contraddizione può essere sciolta ritenendo che la gestione della Riserva da parte del Comune sia solo provvisoria, ossia ammissibile unicamente fino a quando non venga nominato l’organo di gestione. La qual cosa resterebbe, peraltro, comprovata da quanto la stessa legge regionale dispone al successivo comma 7 dell’art. 69, ove si legge: “qualora, entro il termine di 90 giorni, il Comune non abbia provveduto agli adempimenti necessari stabiliti nel comma 3, la Giunta regionale gestirà in via provvisoria la Riserva”. Del resto, che il Comune possa gestire “a regime” direttamente la Riserva, parrebbe implicitamente escluso anche dalla legge dello Stato, che tra i “principi fondamentali” da seguire annovera “la partecipazione degli enti locali interessati alla gestione dell’area protetta” (art. 22, legge n. 394 del 1991). 
Se così è, risulta allora evidente come la legge regionale si ponga in contraddizione con la normativa statale in materia ambientale, in quanto, autorizzando il Comune di Roseto all’approvazione del Piano di Assetto naturalistico, del Piano pluriennale e del Regolamento della Riserva, consente una illegittima invasione nella sfera di competenza riservata dalla legge dello Stato all’Ente gestore. Nello stesso senso, del resto, va anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (v. sent. n. 70 del 2011).

3) Dalla stampa quotidiana si apprende che nei confronti di un campeggio sito nel territorio di Roseto “il Tribunale di Teramo ha firmato un’ordinanza di demolizione per strutture ritenute irregolari”. Si tratta, invero, di una sentenza con cui alcuni degli imputati sono stati condannati per aver eseguito lavori (un fabbricato, un parcheggio, l’installazione di 25 pali della luce, ecc.) in difformità del permesso di costruire, rilasciato dal Comune di Roseto (ex art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380/2001) (Testo unico in materia di edilizia). In questo caso, il giudice ha ritenuto di non accogliere i rilievi mossi dal P.M., il quale faceva valere come dette opere fossero state realizzate entro un’area ricadente all’interno della Riserva del Borsacchio, determinando così la violazione della legislazione in materia ambientale. A parere del Tribunale, infatti, il permesso del Comune era stato rilasciato il 16 luglio 2007, e cioè “nella fase di momentanea sospensione degli effetti della L.R. 6/2005”, disposta per il periodo compreso tra il 31 agosto 2006 e il 6 ottobre 2007 dalla legge regionale n. 26 del 2006. A parere di chi scrive, il Tribunale avrebbe dovuto sospendere il giudizio in corso e sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge regionale n. 26/2006. Detta legge, sebbene poi abrogata, risulta ancora applicabile ai fatti determinatisi sotto la sua vigenza ed è illegittima perché disponeva – per il periodo sopra considerato – finanche la sospensione dell’efficacia delle “norme di salvaguardia” della Riserva. L’illegittimità deriverebbe dal fatto che, diversamente da quanto sarebbe accaduto se il Consiglio regionale avesse soppresso la Riserva, la legge di sospensione contenesse in sé l’implicita volontà di dare comunque attuazione alla Riserva, non appena il Consiglio avesse approvato il nuovo perimetro della stessa (questo ovviamente non toglie che in appello la pubblica accusa possa chiedere al giudice di sollevare un ricorso in via incidentale dinanzi alla Corte costituzionale).
Un discorso a parte deve essere, però, svolto in merito agli altri capi di imputazione; ossia: in relazione ai reati in materia ambientale, discendenti dalla violazione della legge sulle aree protette del 1991 (violazione delle misure di salvaguardia, ecc.). In questo caso, il Tribunale ha condannato B. C. per aver effettuato lavori senza il previo nulla-osta della competente autorità, come richiesto dall’art. 13 della legge n. 394/1991 (sebbene il P.M. deducesse anche la violazione delle norme di salvaguardia), essendo stati i lavori eseguiti nella vigenza delle norme sulla Riserva del Borsacchio. Secondo quanto si apprende dalla stampa locale, la vicenda giudiziaria parrebbe non ancora esaurita (v. l’articolo dal titolo “Ricorso in appello per l’abuso nel Borsacchio”, pubblicato su Il Centro del 28 gennaio 2012).
Per quel che qui interessa, occorrerebbe valutare se la nuova legge approvata dal Consiglio regionale – che esclude ora dalla Riserva anche quell’area cui fa riferimento la sentenza del Tribunale – possa avere un contenuto provvedimentale. Rispetto a questo tipo di leggi, se è vero che la Corte costituzionale ha affermato che non è preclusa alla legge regionale “la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto”, è del pari vero, però, che, sempre secondo la Corte, dette leggi sono ammissibili soltanto entro limiti specifici e comunque a certe condizioni, ossia nel “rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alle cause in corso” e “nel rispetto del principio di ragionevolezza e non arbitrarietà” (sent. n. 137 del 2009). Esse, in altre parole, sono ammissibili solo se “non sia vulnerata la funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso” (sent. 94 del 2009), se non sia elusa l’esecuzione di una sentenza (sent. n. 267 del 2007) e sempreché non si apra ad una disparità di trattamento tra i cittadini. Circostanza, questa, che sarebbe da escludere solo qualora dalla legge approvata emergesse chiaramente “la ratio giustificatrice del caso concreto” (sent. n. 137 del 2009).

4) La nuova legge sul Borsacchio stabilisce che “per il primo anno successivo all’istituzione della Riserva, il Comune dovrà utilizzare lo stanziamento di cui al comma 24 per l’espletamento degli adempimenti previsti nei commi 3, 5, 9 e 12”, mentre al suo articolo 2 dichiara che “la presente legge non comporta oneri a carico del bilancio regionale”.
Al comma 24 dell’art. 69 si legge: “All’onere derivante dall’applicazione del presente articolo, valutato per l’anno 2005 in € 250.000, si provvede mediante utilizzazione di quota parte dello stanziamento iscritto sulla UPB 05.01.001, cap. 271600 (…)”.
Ebbene, gli adempimenti previsti dalla legge non sarebbero sostenuti da adeguata copertura finanziaria, posto che la somma a suo tempo stanziata risulterebbe (almeno in parte) già utilizzata. A riprova di ciò sarebbe sufficiente richiamare una delibera della Giunta regionale (27 novembre 2008, n. 1153), ove si riferisce di un incarico affidato dal Comune di Roseto degli Abruzzi all’arch. Nigro di Roma (delibera n. 25 del 26.01.2007) per la redazione del Piano di Assetto Naturalistico. Piano che, alla luce del nuovo perimetro della Riserva, non può certo ritenersi utilizzabile così come a suo tempo redatto. Da questo punto di vista, la legge regionale approvata violerebbe, allora, l’art. 81 della Costituzione.

ENZO DI SALVATORE



[1] La legge istitutiva del 2005 stabiliva che il Comune di Roseto degli Abruzzi dovesse definire, “mediante apposite delibere consiliari, l’organo di gestione della Riserva (…)”; successivamente, in ragione dell’estensione della Riserva al territorio di Giulianova, detta disposizione è stata modificata come segue: “(…) i Comuni di Roseto degli Abruzzi e di Giulianova definiscono, mediante apposita intesa, l’organo di gestione della Riserva (…)”. È evidente come la nuova legge sul Borsacchio rechi in proposito una previsione senza senso, frutto di un errore dovuto al “copia e incolla”: con chi dovrebbe stringere l’intesa il Comune di Roseto?


Una risposta al Consigliere regionale Rabbuffo sulla Riserva del Borsacchio

Il Consigliere regionale Rabbuffo ritiene di non poter condividere la mia proposta sulla Riserva naturale del Borsacchio: quella di abrogare i divieti contenuti nella legge regionale del 2005, rinviando contestualmente ai limiti fissati dalla legge dello Stato. Il suo dissenso sarebbe giustificato da alcuni motivi, che, esposti attraverso un ragionamento ricco di congiunzioni coordinanti, vorrebbero logicamente decostruire la tesi criticata. La logicità di questa decostruzione, tuttavia, mi sfugge.
Rabbuffo muove dalla constatazione di come, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, la tutela dell’ambiente costituisca materia espressamente riservata alla competenza legislativa dello Stato. Per questa ragione, alle Regioni sarebbe precluso qualsivoglia intervento in materia di ambiente. “Perciò” – dichiara Rabbuffo – l’art. 23 della legge statale del 1991 “dispone che la legge regionale può definire la perimetrazione provvisoria e le misure di salvaguardia e deve individuare il soggetto per la gestione del parco che ha il compito di approvare il Regolamento e il Piano del Parco”. Egli, quindi, ricorda come l’art. 6, comma 3, della legge del 1991 vieti “fuori dei centri edificati l’esecuzione di nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti”, aggiungendo che questo divieto sarebbe contenuto finanche nell’art. 11, comma 3, della stessa legge. Dove? Dalla lettura della disposizione dell’art. 11, comma 3, non mi pare si ricavi questa conclusione: “nei parchi” – in essa si legge – “sono vietate le attività e le opere che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat”. Rabbuffo sostiene che questa previsione – secondo “consolidata giurisprudenza” – riguardi anche “l’esecuzione di nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti”. Quale sarebbe questa giurisprudenza? Se il divieto di edificazione fosse automaticamente e in modo assoluto ricompreso in detta disposizione dovrebbe anche ammettersi che sia privo di significato quanto scritto a chiare lettere nell’art. 6, comma 3, della stessa legge, ove questo divieto, salvo eccezioni, è previsto solo per le aree collocate fuori dai centri edificati. Vogliamo, forse, sostenere che il Legislatore statale si sia contraddetto?
Ma vi è di più”, afferma Rabbuffo. L’art. 6, comma 4, stabilisce: “Dall’istituzione della singola area protetta sino all’approvazione del relativo regolamento operano i divieti e le procedure per eventuali deroghe di cui all’art. 11”. Per Rabbuffo con ciò sarebbe “evidente che, fino a quando non è nominato l’organo di gestione della Riserva del Borsacchio e non viene predisposto e approvato da quest’ultimo il Regolamento e il Piano di Assetto Naturalistico (PAN) opereranno, oltre alle misure di salvaguardia contenute nell’art. 11, anche il divieto di nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti nonché tutte le iniziative di introduzione di eventuali deroghe”. Non capisco perché questo dovrebbe essere “evidente”. Se fosse stato così “evidente”, il Legislatore statale lo avrebbe esplicitato. E invece in tale comma non si fa menzione né di nuove costruzioni, né della trasformazione delle opere esistenti. In realtà, con quel “ma vi è di più” egli vuol riferirsi (anche) ad un ulteriore tipo di divieto, che sarebbe logicamente ricompreso nell’art. 6, comma 4: quello di introdurre eventuali deroghe ai divieti ivi espressamente sanciti. Giusto. Ed è proprio per questo che ho suggerito di modificare la legge regionale del 2005: perché essa contiene divieti ulteriori e più stringenti rispetto a quelli previsti dallo Stato. In altre parole: perché la Regione Abruzzo ha a suo tempo approvato una legge che, introducendo deroghe vietate dalla legge del 1991, è illegittima. Per questo quella legge la si può tranquillamente abrogare. Rabbuffo, invece, dopo aver precisato che finanche la proposta di deroga alle misure di salvaguardia (patrocinata dal dott. Sorgi) sia da considerare illegittima (salvo più avanti contraddittoriamente affermare che “dovrebbe guardarsi con una certa attenzione” alle deroghe alle misure di salvaguardia disposte in favore della Pineta Dannunziana), dichiara: “Tanto meno, abrogare i divieti contenuti nell’art. 69 della L.R. 6/2005 servirebbe a superare i precisi limiti disposti dalla legge statale. Infatti, secondo costante giurisprudenza costituzionale, la Regione non può legiferare in materia di ambiente quand’anche esista un vuoto di disciplina”. Ebbene, non vedo in che modo la mia proposta si colleghi a questa giurisprudenza. La sentenza cui fa riferimento Rabbuffo è la n. 70 del 2011. Ne sintetizzo brevemente il contenuto, in modo che il lettore possa giudicare se quanto affermato dal mio critico sia pertinente o no alla proposta che ho avanzato.
Con una legge del 2010, la Regione Basilicata aveva introdotto una modifica alla legge sulle aree protette regionali (legge n. 28 del 1994). In base a questa modifica, si stabiliva che gli Enti Parco regionali potessero approvare provvedimenti specifici per l’esercizio di talune attività, anche in deroga al comma 3 dell’art. 19 della legge. E cosa stabiliva detto comma? Esso fissava alcuni divieti, che in buona sostanza risultavano coincidenti con quelli stabiliti dalla legge dello Stato. In questo modo, sulla base della modifica introdotta, la Regione finiva per consentire l’esercizio indiscriminato di ogni attività, seppur provvisoriamente, come ad es. la caccia, l’apertura delle cave, l’accensione di fuochi, ecc. A parere della Corte costituzionale, ciò costituiva una deroga ai divieti stabiliti dall’art. 11 della legge del 1991. Dunque, come si vede, esattamente il contrario di quello che con la mia proposta si vorrebbe conseguire: l’abrogazione dei divieti contenuti nella legge del 2005 e il contestuale rinvio ai divieti contenuti nell’art. 11 della legge dello Stato, tra i quali non figura né il divieto di costruire, né quello di trasformare le costruzioni esistenti; soluzione, questa, che, diversamente da quella accolta dalla Regione Basilicata, non potrebbe dirsi lesiva della competenza statale in materia di ambiente, atteso che in tal modo la Regione dichiarerebbe di voler applicare proprio la legge dello Stato.
Rabbuffo, tuttavia, dichiara che sia necessario approvare una legge di riperimetrazione della riserva, perché ciò consentirebbe di “sanare” l’illegittimità della legge istitutiva del 2005, approvata a suo tempo senza il parere degli Enti locali. Nel dire questo, egli afferma contestualmente che le mie perplessità sul suo progetto di legge sarebbero ingiustificate, in quanto gli Enti locali si sarebbero già espressi in proposito.
In relazione alla prima affermazione (mancata partecipazione degli Enti locali), torno a sottolineare come la questione dell’illegittimità costituzionale della legge del 2005 costituisca, in realtà, un falso problema. Il Governo, infatti, può impugnare le leggi regionali solo entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. E, in relazione alla legge del 2005, questo termine è ampiamente scaduto. Residuerebbe solo una strada: quella del giudizio in via incidentale. Ma anche questa ipotesi appare meramente teorica, in ragione del fatto che se un privato agisse in sede giurisdizionale contro il diniego opposto dalla P.A. difficilmente potrebbe, poi, far valere l’illegittimità della legge del 2005, adducendo quale argomento che essa sia stata adottata senza il parere degli Enti locali. La questione, infatti, pur essendo fondata, sarebbe del tutto irrilevante ai fini della decisione del giudice; e se  venisse sollevata dinanzi alla Corte costituzionale, questa la dichiarerebbe  per certo inammissibile. Non così, probabilmente, qualora il privato sostenesse, invece, che la legge del 2005 sia illegittima perché recante un divieto generalizzato ad edificare, più ampio, cioè, di quello posto dalla legge del Parlamento. In questo caso, la dichiarazione di illegittimità non investirebbe la legge nella sua interezza: essa la colpirebbe solo nella parte in cui inasprisce i divieti oltre quanto consentito dalla legge dello Stato. Per questo va cambiata. Ovvio che se si riapprovasse una legge di riperimetrazione della Riserva i termini per il ricorso del Governo decorrerebbero nuovamente.
Quanto alla seconda affermazione (ingiustificate perplessità sul suo progetto di legge), mi meraviglia che un critico così attento, quale certamente è il Consigliere Rabbuffo, non abbia letto con scrupolo quel che stabilisce la legge dello Stato (*). L’art. 22 afferma testualmente che il parere degli Enti locali va reso in Conferenza e non unilateralmente. Rabbuffo, peraltro, sostiene che i Comuni di Giulianova e di Roseto si siano già espressi sul suo progetto di legge e che lo abbia fatto persino la Provincia di Teramo. A me risulta vero il contrario: i pareri dei Comuni di Giulianova e di Roseto non sono stati resi in Conferenza, ma attraverso due distinte delibere adottate dai rispettivi Consigli comunali; delibere, queste, che non prendono neppure posizione su alcuna delle proposte avanzate in Consiglio regionale, ma che rilanciano, al contrario, una diversa e autonoma proposta (inutilizzabile, però, in quanto non conforme alle condizioni fissate dall’art. 4 della legge regionale n. 38 del 1996). Su nessuna delle proposte avanzate si è, poi, espressa la Provincia di Teramo. L’ultima volta che la Provincia ha messo bocca sul problema è stato nel 2008; quindi, se non erro, prima che il Consigliere Rabbuffo presentasse la propria proposta di legge.
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(*) Rabbuffo osserva come nel mio articolo io confonda il “centro edificato” con il “centro abitato”. Ha ragione a rimproverarmi questa imprecisione del linguaggio, sebbene io l’abbia fatto solo per agevolare la comprensione del lettore. Ciò detto, però, credo che questa differenza finisca per essere oziosa, atteso che il problema – se ben inteso – sarebbe dato principalmente dalla situazione in cui versa il quartiere dell’Annunziata: che è appunto un centro edificato. Come del resto lo sono anche le contrade Giammartino, Mazzocco e Frischia (Roseto degli Abruzzi).

ENZO DI SALVATORE


Una possibile soluzione per la Riserva naturale del Borsacchio

1. Non è mia intenzione entrare nel dibattito politico relativo alla spinosa questione del Borsacchio ed indagare quali reali ragioni o interessi sorreggano le diverse proposte avanzate. Il mio intervento ha un obiettivo più contenuto: verificare se quelle proposte si mantengano entro la cornice tracciata dal diritto e suggerire, in caso contrario, una diversa soluzione al problema.
Le proposte al momento sono tre: 1) ripensare i confini della riserva (Ruffini; Rabbuffo); 2) introdurre una deroga alle norme di salvaguardia (Acerbo, Sorgi, WWF); 3) abrogare la riserva (Venturoni). Le prime due hanno un medesimo obiettivo: alleggerire i vincoli che gravano sui centri edificati presenti nella riserva e in particolar modo sul quartiere dell’Annunziata di Giulianova. Diversa, tuttavia, è la strada indicata per conseguire tale risultato: nel primo caso, si sostiene che occorra ridurre la riserva; nel secondo, che sia sufficiente introdurre una deroga alla legge vigente, senza modificare, dunque, il perimetro della riserva.
Tutte e tre le proposte avanzate sono, a mio parere, illegittime.
Circa le proposte nn. 1) e 3) va osservato che nulla impedisce che i confini di una riserva possano essere ripensati, né che la riserva possa essere soppressa. In ambedue i casi, però, occorre seguire il procedimento previsto dalla legge dello Stato, e cioè acquisire il parere degli Enti locali interessati. Dopo la sentenza della Corte costituzionale sulla Pineta Dannunziana (sentenza n. 14 del 2012) non vi sono più dubbi in proposito. E chi promuove una nuova perimetrazione della riserva si richiama a ragione proprio a detta sentenza, sostenendo: a) che una nuova perimetrazione della riserva sia necessaria per “sanare” l’illegittimità della legge istitutiva del 2005 (varata senza il parere degli Enti locali) (*); b) che sulla proposta di nuova perimetrazione della riserva gli Enti locali interessati si sarebbero già pronunciati.
Ebbene, se è vero che, più in generale, ogni legge di istituzione di una riserva deve essere sempre preceduta dal parere degli Enti locali, è altrettanto vero, però, che detto parere deve darsi sempre in Conferenza, ossia su una medesima omogenea proposta e non attraverso unilaterali delibere adottate dai Consigli comunali: i pareri dei Comuni di Giulianova e Roseto, al contrario, non sono stati resi in Conferenza, ma attraverso due distinte delibere adottate dai rispettivi Consigli comunali. Delibere, queste, che non si esprimono neppure sulle proposte avanzate in Consiglio regionale, ambendo esse a porre sul tappeto una autonoma e diversa soluzione (del tutto inutilizzabile, in quanto non conforme alle condizioni fissate dall’art. 4 della legge regionale n. 38 del 1996). Si aggiunga, infine, che su nessuna delle proposte avanzate si è mai espressa la Provincia di Teramo.
Un discorso a sé merita, invece, la proposta n. 2), che arriva dal dott. Sorgi. Con essa si vorrebbe introdurre una modifica alle norme di salvaguardia, stabilite dalla legge regionale del 2005. In questo modo, si vorrebbero consentire il “completamento funzionale” delle attività, degli edifici e delle strutture esistenti, “gli interventi previsti e il vigente contratto di quartiere dell’Annunziata”. I dubbi di legittimità che si nutrono in proposito si appuntano sul fatto che l’art. 6, comma 3, della legge n. 394 del 1991 dice a chiare lettere che eventuali deroghe alle misure di salvaguardia adottate (quindi: tanto a quelle adottate dallo Stato, quanto a quelle adottate dalla Regione) sono consentite unicamente dal Ministro dell’ambiente con provvedimento motivato. La Regione, dunque, non avrebbe competenza al riguardo.

2. La legge n. 6 del 2005 afferma che è “istituita la Riserva Naturale Regionale Guidata “Borsacchio” nel territorio del Comune di Roseto degli Abruzzi (Te)”. Allo stato attuale dei fatti, la riserva risulta protetta solo da provvisorie norme di salvaguardia. Questo comporterebbe che si applichi l’art. 6 della legge del 1991, dedicato, appunto, alle “misure di salvaguardia”. Prima di spendere qualche parola in ordine a detto articolo, risulta, però, utile verificare quel che stabilisce la legge regionale del 2005. Secondo quanto si legge al suo art. 69, il Comune di Roseto degli Abruzzi, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, avrebbe dovuto provvedere a tutta una serie di adempimenti: procedere alla “sistemazione dei cartelli segnaletici perimetrali e di quelli lungo le strade di accesso alla Riserva”, “definire, mediante apposite delibere consiliari, l’organo di gestione della Riserva, la relativa composizione, nonché le forme ed i modi attraverso cui si attuerà la gestione della Riserva stessa”, approvare il “Piano di Assetto Naturalistico” e il “regolamento di esercizio”, ecc. Ma così non è stato. Questo ha comportato che la competenza (provvisoria) passasse nelle mani della Giunta regionale (**).
Il problema è, dunque, il seguente. L’art. 69 della legge regionale sancisce alcuni divieti, che – al momento – sono fatti valere dalla Giunta regionale. Detti divieti, tuttavia, sono differenti e ulteriori rispetto a quelli individuati dalla legge dello Stato. All’art. 6 della legge del 1991 si dicono due cose: 1) che fino all’approvazione del regolamento operano i divieti posti dal successivo art. 11 (e tra questi non figura “la costruzione di nuovi edifici”, annoverata, invece, tra i divieti recati dalla legge regionale) (v. utilmente anche Cass. pen. Sez. III, (ud. 21-05-2008) 16-09-2008, n. 35393); 2) che l’esecuzione di nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti sono vietati fuori dai centri edificati e che eventuali deroghe alle misure di salvaguardia in questione sono adottate unicamente dal Ministro dell’ambiente. Nei centri edificati questo divieto non sussiste. Nel senso che esso non è automatico – come invece vorrebbe la legge della Regione – ma consegue solo ad un provvedimento motivato e solo per gravi motivi di salvaguardia ambientale. Riassumendo: in relazione alle aree protette regionali, fuori dai centri abitati la regola è il divieto di edificazione; nei centri abitati la regola è la possibilità di edificare. Nel primo caso, può consentirsi l’edificazione solo dietro provvedimento motivato del Ministro. Nel secondo caso, la possibilità di edificare può essere negata solo con provvedimento motivato della Giunta regionale e solo per gravi motivi di salvaguardia ambientale. Se questa ricostruzione non dovesse essere del tutto peregrina, la soluzione al problema potrebbe anche essere la seguente: lasciare intatta la riserva con gli attuali confini e abrogare il novero dei divieti fissati all’art. 69 della legge regionale. L’abrogazione dei divieti comporterebbe l’automatica applicazione di quelli della legge statale. In alternativa, qualora lo si volesse, potrebbero anche sostituirsi i commi 19 ss. con un’unica disposizione, che rinvii espressamente ai limiti fissati dalla legge n. 394 del 1991.
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(*) Che la legge del 2005 possa essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale per essere stata adottata senza il parere degli Enti locali costituisce un epilogo assolutamente remoto. Il Governo, infatti, può impugnare le leggi regionali solo entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. In relazione alla legge del 2005, questo termine è, dunque, ampiamente scaduto. Residuerebbe, pertanto, solo una strada: quella del giudizio in via incidentale. Ma anche questa ipotesi appare meramente teorica, in ragione del fatto che se un privato agisse in sede giurisdizionale contro il diniego opposto dalla P.A. difficilmente potrebbe, poi, far valere l'illegittimità della legge del 2005, adducendo quale argomento che essa sia stata adottata senza il parere degli Enti locali. La questione, infatti, pur essendo fondata, sarebbe del tutto irrilevante ai fini della decisione del giudice; e se  venisse sollevata dinanzi alla Corte costituzionale, questa la dichiarerebbe  per certo inammissibile. Un diverso esito, invece, potrebbe (probabilmente) ottenersi qualora il privato sostenesse che la legge del 2005 sia illegittima perché recante un divieto generalizzato ad edificare ossia più ampio di quello posto dalla legge del Parlamento del 1991. In questo caso, tuttavia, la dichiarazione di illegittimità non colpirebbe la legge istitutiva della Riserva nella sua interezza, ma solo nella parte in cui estende i divieti oltre quanto previsto dallo Stato. Va, infine, precisato che se la Regione approvasse una nuova legge di riperimetrazione o di soppressione della Riserva, i termini per l'impugnazione del Governo docorrebbero nuovamente dalla pubblicazione della legge.


(*) La legge della Regione Abruzzo sulle aree protette del 1996 stabilisce che in caso di inerzia del Comune la gestione dell'area passi alla Provincia (art. 21). Con D.G.R n. 1153 del 2008 le funzioni relative al Borsacchio sono state, quindi, trasferite in capo alla Provincia di Teramo. A parere di chi scrive, però, la legge del 2005, stabilendo che ciò spetti alla Giunta regionale, costituisce disciplina speciale rispetto a quella generale del 1996. Questo comporta che il trasferimento delle funzioni dalla Giunta regionale in capo alla Provincia possa darsi solo con legge, che espressamente deroghi a quella previsione. La delibera del 2008 è, pertanto, illegittima.

ENZO DI SALVATORE


Il Centro Oli di Ortona è tuttora vivo e vegeto

Nel novembre dello scorso anno il Consiglio comunale di Ortona ha approvato il progetto di piano regolatore generale; appena tre giorni fa ha deliberato la “presa d’atto dell’adeguamento degli elaborati tecnici e grafici” relativi a quel progetto. A leggere le carte, si apprende che parte di “Contrada Feudo” è classificata come zona industriale (D1), non più come zona agricola. Tanto è bastato perché si riaccendesse la protesta. Una protesta in sé legittima, ma che, nei termini posti, non mi pare colga nel segno. Cerco di spiegarne il perché.
Nel 1996 l’Eni ottiene il permesso di cercare idrocarburi in Abruzzo per una superficie di 179 kmq. A seguito della ricerca effettuata, la società petrolifera trova quel che cerca e decide di chiedere la concessione a coltivare idrocarburi. Non solo: accarezza l’idea di costruire persino un Centro Oli. Un’idea, questa, ambiziosa e che ha speranza di trovare realizzazione solo a patto che venga condivisa dalla comunità locale. Per questo, forse, l’Eni ritiene opportuno incontrare alcuni politici abruzzesi presso il ministero delle attività produttive e di esporre loro il progetto. È l’11 settembre del 2001. Il 21 dicembre successivo, il Parlamento vara la c.d. “legge obiettivo” (legge n. 443 del 2001) e autorizza il Governo ad individuare, attraverso l’approvazione di un programma, “le infrastrutture pubbliche e private e gli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese”. Quindi, lo delega ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, “uno o più decreti legislativi volti a definire un quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati”. Lo stesso giorno, però (dunque sulla base di una legge non ancora in vigore”), il CIPE adotta il “I Programma delle infrastrutture strategiche”, il quale reca nel suo seno un elenco di opere da realizzare. Tra queste figura espressamente il Centro Oli di Ortona.
Il 19 aprile del 2002, l’Eni ottiene dal Ministero la concessione a coltivare idrocarburi, mentre il 20 agosto successivo il Governo vara finalmente il suo decreto legislativo (n. 190 del 2002). Nel decreto si stabilisce che l’approvazione di progetti preliminari delle opere da parte del CIPE deve darsi a maggioranza assoluta, con il consenso del Presidente della Regione e sentiti i comuni interessati; e che essa comporta “l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti ed adottati” (art. 3 comma 7). L’approvazione definitiva dei progetti – si dice ancora nell’atto normativo – costituisce “dichiarazione di pubblica utilità” (art. 13, comma 5) e gli enti locali interessati devono provvedere “all’adeguamento definitivo degli elaborati urbanistici di competenza” (art. 14, comma 5).
Il 5 gennaio del 2005, l’Eni chiede al Ministero una variazione del programma dei lavori; il 19 aprile successivo il Ministero approva la modifica. Cosa prevede tale programma? La costruzione del Centro Oli.
Come si vede, l’autorizzazione all’insediamento dell’impianto è successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo del Governo. Ragion per cui, averne approvata la realizzazione equivale anche ad aver modificato il piano regolatore del Comune. Il Comune di Ortona non può, dunque, che prenderne atto. Almeno per una volta, visto che in passato ha senz’altro sciupato l’occasione di assumere una diversa posizione politica: che bisogno c’era di accordare all’Eni il permesso di costruire (4 ottobre 2007), visto che il decreto del Governo espressamente stabiliva che “l’approvazione del progetto definitivo” da parte del CIPE “sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominato e consente la realizzazione e, per gli insediamenti produttivi strategici, l’esercizio di tutte le opere, prestazioni e attività previste nel progetto approvato”? Se l’Eni lo ha chiesto, è stato, forse, solo per ragioni di opportunità; se il Comune di Ortona lo ha accordato, è stato, forse, solo per ragioni di convenienza, in modo da ottenere, attraverso la stipula di una apposita convenzione con l’Eni, tutta una serie di prebende.
Il significato che si ricava oggi dal piano regolatore di Ortona è, dunque, un altro. Il quotidiano online “PrimaDaNoi” ha scritto: “torna lo spettro del Centro Oli”. A mio avviso, questo spettro non è mai andato via. Se quel progetto non ha trovato finora realizzazione è per ben altre ragioni, non già perché mancava una delibera del Consiglio comunale di Ortona. Basterebbe leggere l'ultimo numero del Bollettino ufficiale degli idrocarburi per capire come stanno effettivamente le cose: alla concessione “Miglianico” per il momento nessuno vi ha rinunciato. E questo vuol dire che il Centro Oli di Ortona è tuttora vivo e vegeto.

ENZO DI SALVATORE



L’Abruzzo discute di riforme istituzionali e riflette poco sulle sue leggi


Le forze politiche abruzzesi ritengono che la questione delle riforme istituzionali costituisca un problema non più eludibile. La discussione ruota ormai da tempo intorno a due temi principali: la riforma del Consiglio e la riforma della legge elettorale. Quanto al primo, quasi tutti affermano che occorra ridurre l’attuale numero dei consiglieri regionali. Quanto al secondo, da più parti si sostiene che occorra innalzare la soglia di sbarramento (fino al 6% per le liste di coalizione), prevedendo possibilmente un collegio elettorale unico (come auspica Confindustria) ed anche un premio di maggioranza tutto da definire. Il dibattito, insomma, si concentra intorno all’organo Consiglio, non sull’attività che questo svolge. Eppure è proprio l’attività del Consiglio che meriterebbe una riflessione più approfondita. Certo, soggetto (Consiglio) e oggetto (attività) sono tra loro strettamente collegati. Ma non si vede in che modo dalla riforma del Consiglio e della legge elettorale possa scaturirne un sicuro beneficio per l’attività normativa della Regione.
Nel panorama della produzione legislativa regionale, l’Abruzzo risulta essere particolarmente attivo: nel solo 2010 il Consiglio ha varato ben 62 leggi; nel 2011 ne ha approvate 44. Questi dati, però, devono essere letti cum grano salis, in quanto di per sé potrebbero non voler dire niente. Essi non dicono niente anzitutto sulla qualità della legislazione, in quanto molte delle leggi approvate derivano da un autentico copia e incolla: si naviga su internet, si cerca nei siti istituzionali delle altre Regioni, si copia e incolla su un file di word la legge trovata e la si presenta sotto forma di progetto di legge in Consiglio. Un’operazione, insomma, che ciascuno di noi potrebbe comodamente effettuare da casa. In secondo luogo, occorrerebbe verificare attentamente quale sia il contenuto di quelle leggi. Molte di esse, infatti, sono “leggine” o “leggi-provvedimento”: la Regione interviene con legge su tutto, persino se si tratta di istituire la “Giornata degli Abruzzesi nel Mondo” o il “Concorso Remo Gaspari”. Del resto, non è un caso se ad una così alta produzione legislativa corrisponda un’attività regolamentare pari a zero. Secondo quanto stabilisce lo Statuto della Regione, la potestà regolamentare spetta in via esclusiva al Consiglio. Nel 2010, però, la Regione Abruzzo non ha varato un solo regolamento. Questo spiegherebbe, almeno in parte, come mai la Regione sia così produttiva in fatto di leggi. Non solo. Come mai persino la Giunta ricorra sempre più sovente a delibere “paranormative”.
C’è poi un’altra questione che in relazione all’attività legislativa regionale deve essere considerata. Dal 2003 ad oggi il Governo nazionale ha impugnato 37 leggi della Regione; dal canto suo, la Regione Abruzzo ha impugnato 7 leggi dello Stato. Nella Legislatura in corso, quella del governo Chiodi, il Governo ha impugnato ben 17 leggi regionali (solo tre nei mesi di gennaio e febbraio 2012), mentre la Regione Abruzzo ne ha impugnata solo una. Il che lascerebbe pensare o che le leggi dello Stato siano tutte, tranne una, perfettamente rispettose della Costituzione oppure che la Regione Abruzzo sia al riguardo particolarmente distratta. Ebbene, quale esito hanno avuto detti ricorsi? Mi limito qui a considerare il biennio 2010-2011. Nel 2010 la Corte si è pronunciata 6 volte: in due casi con ordinanza (posto che la Regione aveva nel frattempo modificato la legge impugnata) e negli altri quattro con sentenza. Le quattro sentenze hanno dichiarato tutte (almeno in parte) l’illegittimità delle leggi impugnate. Il dato che appare più curioso è che in nessuno dei 6 casi la Regione ha ritenuto di doversi difendere in giudizio. Nel 2011, invece, la Corte è intervenuta 7 volte: due con ordinanza e cinque con sentenza. Anche qui, le sentenze adottate hanno dichiarato tutte l’illegittimità costituzionale delle leggi impugnate. E per ben due volte la Regione ha rinunciato a difendersi in giudizio. Ricapitolando: nel solo biennio 2010-2011 si sono avute 9 pronunce di illegittimità costituzionale e per ben 8 volte nessuno ha difeso la legge della Regione Abruzzo dall’impugnazione del Governo nazionale. Ci sarebbe da chiedersi: il ricorso al copia-incolla, l’adozione di “leggine” e di “leggi-provvedimento”, l’approvazione di leggi poi dichiarate illegittime, la rinuncia all’impugnazione di leggi statali e soprattutto la rinuncia alla difesa delle leggi regionali dinanzi alla Corte significano davvero che la Regione Abruzzo tiene in alta considerazione il suo massimo consesso? Perché se così non fosse, anche il dibattito su quale riforma convenga al Consiglio potrebbe finire per essere un dettaglio parzialmente trascurabile.

ENZO DI SALVATORE


La Corte costituzionale boccia la legge della Regione Abruzzo sul calendario venatorio

Con sentenza depositata il 9 febbraio scorso, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge abruzzese sul calendario venatorio (sent. n. 20/2012). Che questa legge fosse sospetta di violare la Costituzione non credo possa sorprendere più qualcuno (si veda, se si vuole, l’articolo apparso su questo blog dal titolo “A proposito dell’approvazione con legge regionale del calendario venatorio”). Prima di commentare brevemente la decisione adottata dalla Corte, vorrei, però, spendere qualche parola sulla questione della materia “caccia” alla luce del quadro costituzionale vigente. Ciò risulterà senz’altro utile ai fini della comprensione e della valutazione della sentenza del giudice costituzionale.

Prima che la Costituzione fosse riformata nel 2001, la materia “caccia” era attratta espressamente nella competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni: la Regione avrebbe potuto disciplinare con legge la caccia, ma solo nel rispetto dei principi fondamentali individuati dalla legge dello Stato. Dopo la riforma del 2001, la “caccia” è scomparsa dal testo costituzionale, e cioè: non risulta più attratta nell’elenco delle materie sulle quali hanno competenza legislativa lo Stato e la Regione assieme e neppure è ricondotta entro l’elenco delle materie sulle quali solo lo Stato ha competenza legislativa (art. 117, commi 2 e 3, Cost.). La domanda che si pone è la seguente: a chi appartiene oggi la competenza legislativa sulla caccia? La risposta che deve darsi è questa: alla sola Regione. Ciò lo si ricava dal fatto che la stessa Costituzione stabilisce a chiare lettere: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, comma 4, Cost.). Il problema che, tuttavia, si pone è che la competenza della Regione sulla caccia incrocia un’altra competenza: quella legislativa esclusiva dello Stato sulla tutela ambientale. In materia di ambiente, infatti, solo lo Stato può intervenire, mentre la Regione può farlo solo a patto che, in connessione con una materia di sua competenza (quale in questo caso è la caccia), la sua legge non violi gli standard di tutela fissati dallo Stato: essa può, dunque, solo innalzare, ma mai ridurre le garanzie di protezione dell’ambiente stabilite dallo Stato.
La disciplina di riferimento è data da una legge varata dal Parlamento nel 1992, che contiene sia disposizioni sulla tutela ambientale, sia disposizioni sulla caccia: un esempio del primo tipo è dato dalle disposizioni sulla protezione della fauna (come quelle sui piani faunistico-venatori, sulle specie cacciabili, sui periodi di attività venatoria, ecc.); un esempio del secondo tipo è dato dalle disposizioni sulle modalità della caccia (come quelle sulle condizioni del suo esercizio, sui mezzi utilizzabili, ecc.). Ebbene, alla luce del quadro costituzionale oggi vigente, può dirsi quanto segue:
A) in relazione alle disposizioni dettate a tutela dell’ambiente, la Regione non può intervenire, ma è tenuta ad osservare quanto in esse prescritto. In questo caso, la Regione può intervenire unicamente: 1) con regolamenti o con atti amministrativi se autorizzata in tal senso dalla legge dello Stato; 2) con legge qualora innalzi le garanzie di tutela ambientale offerte dalla legge dello Stato;
B) in relazione alle disposizioni sulla caccia, queste possono essere derogate dalla Regione, sempreché le deroghe regionali non si riflettano sulle garanzie di carattere ambientale: come ad es. qualora vi fossero eventuali disposizioni sul tipo di pallini utilizzabili, quali quelli di piombo, considerati inquinanti per l’ambiente e tossici per la salute umana (v. legge n. 66/2006, relativa all’Accordo sulla conservazione degli uccelli acquatici migratori dell’Africa – EURASIA).

La sentenza della Corte ha ad oggetto la legge della Regione nella parte in cui disciplina la stagione venatoria, le giornate e gli orari di caccia, le specie cacciabili e i periodi di caccia. Disposizioni, queste, che si inquadrano tutte entro la materia della tutela ambientale e non in quelle della caccia e che, in ragione di ciò, presupporrebbero che l’intervento della Regione resti autorizzato dalla legge dello Stato. E così sembrerebbe in effetti essere. Con il suo ricorso, del resto, il Governo non lamentava la possibilità che la Regione potesse intervenire in proposito, in quanto la legge del 1992 effettivamente autorizzava la Regione ad intervenire. Il problema era non l’intervento in sé, ma il mezzo prescelto per l’intervento: la legge. Stagione venatoria, giornate e orari di caccia, specie cacciabili e periodi di caccia non possono essere disciplinati con legge perché questo vorrebbe dire invadere la competenza dello Stato, che in materia di tutela dell’ambiente è “esclusiva”. E si badi: neppure se lo Stato lo volesse la Regione potrebbe intervenire con legge. L’intervento con legge regionale dietro delega del Parlamento nel nostro ordinamento non è ammessa. Ciò che può essere delegato è solo la potestà regolamentare. Mentre l’esercizio della funzione amministrativa, che spetta normalmente al Comune, può essere conferita a Province, Città metropolitane, Regioni o mantenuto in capo allo Stato, ma solo per esigenze di carattere unitario.
Sul punto, tuttavia, la decisione della Corte, sebbene condivisibile nel merito, appare piuttosto ambigua. Essa, infatti, pur muovendo dal corretto presupposto che le questioni sollevate abbiano attinenza ad una materia di competenza esclusiva dello Stato (l’ambiente), giunge ad affermare che “il legislatore ha perciò titolo per imporre alle Regioni di provvedere nella forma dell’atto amministrativo anziché in quella della legge”. Per poi comunque sostenere che la natura in sé degli oggetti disciplinati dalla legge regionale (stagione venatoria, giornate, orari di caccia, specie cacciabili, periodi di caccia) non potrebbe che richiedere un intervento con un atto diverso dalla legge: l’atto amministrativo. Detto atto – è questo il pensiero della Corte – appare più consono alla disciplina dei criteri tecnico-scientifici ai quali soggiacciono quegli oggetti; e solo esso consentirebbe di far fronte tempestivamente ad un “repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali il calendario venatorio è stato approvato”.   

Vero è che la legge della Regione Abruzzo fosse illegittima perché l’intervento sugli oggetti di cui sopra andava esercitato con atto diverso dalla legge, ma questa illegittimità non deriva da quanto ritiene la Corte: né dalla natura degli oggetti disciplinati dalla legge regionale, né da una scelta discrezionale del Legislatore statale (l’atto amministrativo anziché la legge). Trattandosi di una competenza esclusiva dello Stato, infatti, il Legislatore statale avrebbe potuto scegliere unicamente tra: intervenire direttamente esso stesso su tutto oppure autorizzare la Regione all’intervento, ma solo con regolamento oppure con atto amministrativo. Mai con legge. Solo la Costituzione stabilisce quando la Regione può intervenire con legge, non il Legislatore statale.

Da questo punto di vista, la legge del 1992 appare, quindi, legittima: essa stabilisce che “le regioni, sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, pubblicano, entro e non oltre il 15 giugno, il calendario venatorio regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria”. Qui, come si vede, la legge dello Stato “autorizza” la Regione ad intervenire, da un lato, con atto amministrativo, dall’altro, con regolamento. E in ambedue i casi ciò risulta perfettamente legittimo: nel primo caso, perché, pur trattandosi di una materia di sua competenza, lo Stato può decidere che le funzioni amministrative siano devolute in capo alle Regioni (art. 118 Cost.); nel secondo caso, perché così consente l’art. 117, comma 6, Cost., ove si dice che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di sua competenza esclusiva, salva delega alle Regioni”. Pertanto: l’intervento della Regione Abruzzo risulta illegittimo perché dato con legge e  ciò è invasivo della competenza statale. 

Eppure anche su quest’ultimo punto la sentenza non è priva di ambiguità. La Corte, infatti, discorre continuamente di “atto amministrativo”, senza considerare che la legge dello Stato chiede che le Regioni adottino “il calendario venatorio regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria”. Dunque: non solo un atto amministrativo (il calendario venatorio), ma anche un regolamento, che, però, è un atto normativo. Che i due piani non siano mantenuti adeguatamente distinti emerge anche dalla circostanza che la Corte ritiene che solo un “atto amministrativo” consente di porre tempestivamente rimedio ad un “repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali il calendario venatorio è stato approvato”. Se si seguisse il procedimento legislativo, precisa la Corte, ciò non sarebbe possibile, costituendo detto procedimento “un aggravio, persino tale in casi estremi da vanificare gli obiettivi di pronta regolazione dei casi di urgenza”.
Ora, questo risulta vero qualora le predette esigenze toccassero il calendario venatorio in sé, ma non lo sarebbe nel caso in cui esse avessero ad oggetto la disciplina dell’attività venatoria annuale. In questa evenienza, infatti, occorrerebbe ricorrere ad un regolamento, non ad un atto amministrativo. E competente all’adozione dei regolamenti, almeno in Abruzzo, è il Consiglio e non la Giunta. Ragion per cui, in questo caso, i problemi di aggravio del procedimento potrebbero restare pressoché irrisolti.

ENZO DI SALVATORE


La Corte e la Pineta Dannunziana: una sentenza che non convince

La sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge regionale sulla “Pineta Dannunziana” non ha destato alcuna sorpresa presso l’opinione pubblica: ai più deve essere parso un fatto quasi scontato che la decisione sull’ampliamento della Riserva dovesse essere preceduta da un necessario coinvolgimento degli enti locali a ciò interessati. Una soluzione non solo opportuna, ma persino legittima. Lo stabilisce una legge dello Stato del 1991 e lo ribadisce una legge della Regione del 1996. Non aver rispettato la legge dello Stato e quella della Regione vuol dire, quindi, aver violato indirettamente la Costituzione: non solo l’art. 118 sulle funzioni amministrative, ma anche e soprattutto l’art. 117 sul riparto delle funzioni legislative tra lo Stato e le Regioni. E segnatamente: la competenza sulla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, in base alla quale lo Stato è chiamato a fissare con legge i principi fondamentali della materia e la Regione a recare la normativa di dettaglio, e la competenza sulla “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, in base alla quale solo lo Stato può dettare con legge l’intera disciplina della stessa.

Il ragionamento portato avanti dall’Avvocatura dello Stato procede per equazioni: ampliare un’area protetta già istituita vuol dire istituire una nuova area; istituire una nuova area vuol dire dover rispettare l’art. 22 della legge 394 del 1991, che impone che al riguardo siano sentiti gli enti locali; non aver sentito gli enti locali vuol dire aver violato la legge dello Stato; aver violato la legge dello Stato vuol dire aver violato l’art. 117 della Costituzione sulla competenza legislativa. Qui si pone il primo problema: quale tipo di competenza sarebbe stata violata? Quella sulla “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” o quella sulla “valorizzazione dei beni ambientali”? Nel dubbio, l’avvocatura dello Stato evoca entrambi i tipi di competenza; e la Corte costituzionale, nel dubbio, preferisce non sciogliere il dubbio.
In una sentenza del 2009, la Corte aveva chiarito che la parola “ambiente” è da riferire all’habitat dell’uomo e il termine “ecosistema” alla natura in sé. Ragion per cui l’espressione “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, lungi dal poter essere intesa come una endiadi, imporrebbe che solo lo Stato possa intervenire in proposito. Detto intervento, aveva precisato la Corte, “viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza”, salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela più elevate nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che vengano a contatto con quella dell’ambiente. Un esempio per chiarire quanto si sta dicendo: se la Regione adotta una legge in materia di agricoltura e la materia involge questioni di carattere ambientale, la Regione può intervenire su dette questioni, accordando una tutela maggiore rispetto a quella fissata dallo Stato.
Diverso discorso sarebbe da farsi, invece, per la “valorizzazione dei beni ambientali”. Con detta espressione si farebbe riferimento a quelle attività che siano dirette a migliorare le condizioni di conoscenza e di conservazione dei beni ambientali e ad incrementarne la fruizione (così Corte cost., sent. 9/2004). Su questo tipo di “materia” hanno competenza tanto lo Stato, quanto la Regione: lo Stato stabilisce i principi fondamentali e la Regione reca la normativa di dettaglio. In questo caso, la legge della Regione non può violare i principi fissati dallo Stato senza con ciò non violare l’art. 117 della Costituzione.
Su queste premesse, risulta evidente, allora, che l’istituzione di un’area protetta non ha nulla a che fare con la “valorizzazione dei beni ambientali”: essa rientra nella “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, che in quanto tale è riservata alla esclusiva competenza dello Stato. E rispetto a questo tipo di competenza la Regione potrebbe fare una cosa sola: innalzare il livello di tutela, qualora si trovi a disciplinare una materia di sua competenza. Questo è almeno quanto si ricava dalla Costituzione e dalla giurisprudenza della Corte.

Il punto dolente dell’intera questione è in realtà un altro. Il Governo e la Corte sostengono che la Regione Abruzzo abbia violato l’art. 22 della legge n. 394 del 1991, nonché una serie di leggi regionali, tra le quali quella del 1996 sulle aree protette (ma su quest’ultimo punto preferisco sorvolare, limitandomi ad osservare che non si vede quale rilievo costituzionale possa avere la circostanza che una legge regionale “violi” una precedente legge regionale). Ora, questa conclusione non è condivisibile per la semplice ragione che a dover essere discusso è il presupposto di partenza, non la conseguenza che se ne trae: l’art. 22 di quella legge, infatti, non può dirsi conforme al quadro costituzionale vigente; essa, prevedendo che la partecipazione degli enti locali costituisca principio fondamentale per la disciplina delle aree naturali protette regionali, presuppone, implicitamente, da un lato, che la tutela dell’ambiente sia una materia di competenza concorrente e non esclusiva dello Stato e, dall’altro, che la Regione, qualora decidesse di intervenire, debba farlo con legge. Non solo: che debba farlo con legge dopo aver ottenuto il parere degli enti locali (attraverso apposite conferenze). Il che mi pare francamente troppo, per le seguenti ragioni: 1) solo la Costituzione e mai la legge dello Stato può attribuire una competenza legislativa in capo alla Regione; 2) aver previsto che l’adozione della legge da parte della Regione debba essere preceduta dal parere degli enti locali vuol dire accordare alla legge della Regione una forza “atipica”, ossia renderla particolare dal punto di vista della sua efficacia. Ed anche questo è da ritenersi in palese violazione della Carta costituzionale: non potrebbe, infatti, sostenersi che la partecipazione al procedimento degli enti locali sia conseguenza del principio di leale collaborazione, perché dire questo (come pure sembra presupporre qui la Corte; ma in senso contrario v. le sentenze 401/2007, 371 e 222/2008) vorrebbe dire ammettere che la collaborazione possa interessare finanche l’attività legislativa (quando, invece, la Carta costituzionale individua tassativamente le ipotesi di “particolare” efficacia delle leggi: ad es. art. 8) e non solo quella amministrativa. Non è un caso che la concreta istituzione di un Parco nazionale, decisa per legge dello Stato, avvenga concretamente con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, sentita la Regione. In questo caso, l’intervento della Regione è, per così dire, sui contenuti del decreto, non su quello della legge.

Questa confusione di fondo emerge significativamente da un passaggio della stringatissima sentenza adottata: non può considerarsi legittima – afferma la Corte – l’adozione “di modalità procedimentali che – come nella specie – si discostino in peius dai principi fondamentali tracciati dalla legislazione statale a garanzia dei diritti partecipativi”. “In peius”: qui è evidente come la Corte sovrapponga i due tipi di competenza legislativa: se si trattasse di competenza concorrente (come pare ammettere la Corte evocando i “principi fondamentali”), la Regione non potrebbe discostarsi dai principi né “in peggio” né “in meglio”. I principi sono quelli che sono: quelli che stabilisce la legge dello Stato. Se, viceversa, si trattasse di una competenza esclusiva dello Stato (come pare ammettere la Corte utilizzando l’espressione “in peius”), allora non avrebbe senso alcuno discorrere di principi fondamentali: la Regione potrebbe intervenire in materia solo innalzando e mai abbassando la soglia di tutela.

ENZO DI SALVATORE

Le cave e la valutazione di impatto ambientale secondo la finanziaria della Regione Abruzzo

Il Presidente di Confindustria Pescara, Enrico Marramiero, sostiene che la vita amministrativa della Regione Abruzzo necessiti di uno snellimento burocratico ed afferma che nella recente legge finanziaria vi sono due articoli che andrebbero nella direzione opposta: l’art. 29, sulle concessioni in materia di attività estrattiva e di escavazione, e l’art. 63, relativo alla disciplina delle misure di pubblicità dell’Autorità competente in materia di valutazione ambientale. Articoli, questi, che potrebbero essere ora cancellati dal Consiglio regionale, come avverte Maurizio Acerbo dalle colonne del quotidiano “Il Centro”, anche a seguito della spaccatura prodottasi in seno all’opinione pubblica abruzzese.
“Gli operatori dell’edilizia” – dichiara Marramiero – “vogliono il piano cave, che anzi, andava fatto anni fa. Senza il piano, infatti, i tempi per ottenere un’autorizzazione sono in media di 22 mesi, una cosa indegna di un Paese civile. Ma per colmare i ritardi della politica non si può sospendere ogni attività estrattiva per un anno e mezzo. Un imprenditore deve avere regole certe e continuative nel tempo. Da luglio a oggi è cambiato il mondo; andiamo a una velocità pazzesca. I tempi della politica sono incompatibili con quelli dell’economia reale. Dobbiamo trovare il sistema per velocizzare tutto garantendo sempre democrazia e trasparenza”.
Come dargli torto. La legge n. 54 del 1983, che ha recato una disciplina generale per la coltivazione delle cave e torbiere, è rimasta finora lettera morta: l’approvazione del Piano regionale da parte della Giunta doveva darsi entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge; e detto termine è stato inutilmente prorogato di anno in anno, fino al 31 dicembre 1989.
Eppure, il ragionamento svolto dal Presidente Marramiero non convince completamente. Anzitutto perché l’articolo 29 della legge finanziaria non sospende le attività estrattive per un anno e mezzo, ma sospende il rilascio delle concessioni per l’esercizio di nuove attività estrattive fino all’approvazione del Piano regionale. Il quale, non solo renderebbe un volto più civile al Paese – come pure auspica Marramiero –, ma farebbe sì che tutti, imprenditori compresi, possano disporre di regole più certe.
Quello che, però, più non convince del ragionamento di Marramiero è l’idea che “i tempi della politica” siano “incompatibili con quelli dell’economia reale” e che per questo occorrerebbe “trovare il sistema per velocizzare tutto garantendo sempre democrazia e trasparenza”. Esso non convince perché pretenderebbe di mettere assieme due verità, che non possono stare l’una accanto all’altra. Può ben darsi che i tempi della politica siano incompatibili con quelli dell’economia reale. Ma se così fosse, risulterebbe, allora, difficile velocizzare il sistema, garantendo, ad un tempo, che i processi decisionali continuino ad essere democratici. La disciplina sulla valutazione di impatto ambientale introdotta nella finanziaria ne è la prova lampante: essa aggraverà pure il procedimento e forse questo non sarà senza oneri per la Regione. Ma quel che è certo è che renderà più democratico e trasparente il procedimento, prevedendo, ad esempio, che le convocazioni del Comitato di coordinamento regionale e gli ordini del giorno siano pubblicati sul sito web della Regione, che la Direzione regionale organizzi un sistema di newsletter digitale, che i verbali dei lavori del Comitato siano pubblicati online. Proprio perché chiunque abbia interesse al procedimento possa esprimere il proprio punto di vista.
Marramiero chiede che la Regione sburocratizzi “tutti i livelli della vita amministrativa”, in quanto ciò avrebbe “un impatto formidabile sulla vita delle imprese e dei cittadini”. D’accordo. Ma lo snellimento del sistema amministrativo non può riguardare il piano dei diritti e degli interessi, perché, se così fosse, si avrebbe sì un impatto formidabile sulla vita dei cittadini e delle imprese, ma solo in senso negativo. Esso, dunque, non può concernere i beni primari, quali l’ambiente, il paesaggio o la salute. Ed è per questo che la Corte costituzionale, dopo aver ricordato che la disciplina statale sulla tutela dell’ambiente “viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza” (sentenze 104/2007; 378/2008; 67/2010), ha precisato che se le Regioni lo volessero potrebbero pur sempre adottare norme di tutela ambientale più restrittive: elevando, cioè, e mai riducendo lo standard di tutela fissato dallo Stato.

ENZO DI SALVATORE

In Abruzzo vigono leggi non ancora pubblicate?

Attraverso un comunicato apparso sul sito della Regione Abruzzo, il Presidente Chiodi ha dichiarato che la cattiva informazione resa dai Consiglieri regionali sarebbe foriera di “conseguenze fatali per l’opinione pubblica”, in quanto poggerebbe su “presupposti errati”. Il Presidente ha precisato che “la legge di bilancio e la legge finanziaria sono state promulgate il 10 e l’11 gennaio 2012, con i numeri 1 e 2” e che “le norme contenute nella legge di bilancio approvata lo scorso 29 dicembre sono efficaci dal 1° gennaio 2012”. Provare per credere: a far data dal 1° gennaio 2011, i cittadini hanno la possibilità di consultare online e gratuitamente il Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo in versione Telematica (BURAT). Una decisione questa – ha spiegato il Presidente – “da noi fortemente voluta proprio per quei principi di trasparenza, di facilità, di accesso e di garanzia di circolazione delle informazioni, che agevola anche i cittadini per i quali il servizio è gratuito, diversamente da quanto accadeva prima, con il cartaceo a pagamento”.
Per consultare il BURAT occorre accedere al portale della Regione Abruzzo e quindi cliccare sul link “B.U.R.A”. Una volta entrati nella pagina, compaiono quattro serie del Bollettino: ordinario, speciale, supplementare e straordinario. All’interno di ogni serie si ritrovano determinati atti della Regione (tra cui le leggi) e in fondo alla lista finalmente il BURA. Ebbene, in nessuna di tali serie si ritrovano le leggi di cui discorre Chiodi. Il che vuol dire una cosa sola: che esse, sebbene promulgate, non sono ancora pubblicate e non sono neppure in vigore.
Ma non è tutto. Questa vicenda mi dà modo di svolgere un paio di considerazioni ancora: 1) l’entrata in vigore di una legge regionale è sempre successiva alla pubblicazione della stessa sul Bollettino Ufficiale della Regione. L’art. 70 della legge finanziaria, senza peraltro statuire nulla in ordine alla sua pubblicazione sul BURAT, stabilisce, invece, che essa entri in vigore il 1° gennaio 2012. Mi chiedo: come può retrodatarsi l’entrata in vigore di una legge ad un momento cronologicamente antecedente a quello della sua pubblicazione? Si possono retrodatare gli effetti di una legge, ma non si può retrodatare la sua entrata in vigore; 2) la legge regionale n. 51 del 2010 ha recato una nuova disciplina della pubblicazione degli atti normativi della Regione Abruzzo. Essa stabilisce che “le leggi e i regolamenti della Regione sono pubblicati, di norma, entro venti giorni decorrenti rispettivamente dalla data di promulgazione e di emanazione” e che “gli altri atti sono pubblicati, di norma, entro trenta giorni dalla data della loro ricezione da parte della redazione del BURAT” (art. 8). Questa previsione a me pare assolutamente illegittima, in quanto è lo Statuto della Regione e non la legge regionale a doversi occupare della pubblicazione delle leggi e dei regolamenti. Lo dice la Costituzione all’art. 123. E se si va a vedere quello che c’è scritto sullo Statuto, si scopre che la disciplina della pubblicazione di detti atti è sensibilmente diversa da quella che reca ora la legge n. 51 del 2010: “le leggi regionali” – afferma l’art. 35 dello Statuto – “sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore dopo quindici giorni, salvo che le leggi stesse non dispongano diversamente”. Cosa vuol dire questo? Che le leggi sono pubblicate subito e non venti giorni dopo la promulgazione; che a questa previsione può derogarsi solo se la singola legge regionale disponga diversamente; che disporre qualcosa diversamente significa posticipare l’entrata in vigore di una legge, non certo anticiparla rispetto alla sua pubblicazione.

ENZO DI SALVATORE


Modificare la legge sul petrolio con referendum

La legge della Regione Abruzzo n. 48 del 2010 disciplina “la localizzazione di ogni opera relativa ad attività di prospezione, ricerca, estrazione, coltivazione e lavorazione degli idrocarburi liquidi”. Questa normativa appare irragionevole, in quanto – come sta a dimostrare la recente vicenda abruzzese relativa alle richieste della Medoilgas e della Adriatica Idrocarburi – non sarebbe possibile distinguere, né tecnicamente né giuridicamente, tra ricerca dei soli idrocarburi liquidi e ricerca dei soli idrocarburi gassosi. Per questo motivo, occorrerebbe seriamente chiedersi se non sia il caso di rivedere la legge regionale, nell’intento di recare una disciplina unitaria degli idrocarburi.
Le possibilità che si danno al riguardo sono due: approvare una nuova legge, che modifichi espressamente quella in vigore oppure chiedere l’indizione di un referendum, con cui si elimini una sola parola dal testo della legge. La legge regionale, infatti, reca una disciplina particolarmente restrittiva delle sole attività petrolifere, prevedendo che la valutazione della compatibilità/incompatibilità con talune aree del territorio regionale investa gli “idrocarburi liquidi”. Eliminando la parola “liquidi” resterebbe in piedi la parola “idrocarburi”. In questo modo, la valutazione suddetta si estenderebbe anche a quelli gassosi.
La strada da seguire sarebbe quella indicata dallo Statuto della Regione all’art. 75: il referendum è indetto quando “lo richiedano un cinquantesimo degli elettori, più Consigli comunali che rappresentino almeno un quinto della popolazione abruzzese, due Consigli provinciali”. L’Abruzzo conta 1.342.975 abitanti e 305 Comuni. Questo vuol dire che occorrerebbero all’incirca 27.000 elettori disposti a sottoscrivere la richiesta di referendum o, in alternativa, una quindicina di Comuni (di medie dimensioni) disposti a deliberarla. Una volta richiesto e indetto il referendum, esso sarebbe valido solo se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto – e, cioè, tutti coloro che nel giorno della consultazione, siano elettori della Regione – e solo qualora si raggiunga la maggioranza dei voti validamente espressi. Una strada un po’ impervia, si dirà. Ma la recente raccolta di firme lanciata dalla Federazione della Sinistra a sostegno della Riserva del Borsacchio dimostra come questa strada non sia affatto impossibile da praticare.

ENZO DI SALVATORE

La provincia di Teramo (non) si esprime sugli idrocarburi

Nella seduta di ieri, 16 dicembre 2011, il Consiglio provinciale di Teramo ha respinto la “richiesta di adozione di una mozione contro la ricerca e le trivellazioni di idrocarburi” presentata da Riccardo Mercante, consigliere dell’IdV. Con ciò si invitava il Presidente della Giunta provinciale a chiedere al Presidente della Regione Abruzzo “l’attuazione di una moratoria sul rilascio dei permessi di ricerca di idrocarburi liquidi e/o gassosi sul territorio provinciale e regionale”, nonché “la revisione della normativa regionale sul rilascio dei permessi di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, prevedendo il puntuale coinvolgimento delle Istituzioni locali e maggiori garanzie contro possibili manovre speculative legate all’ottenimento dei titoli autorizzativi”. La richiesta, inoltre, intendeva impegnare il Presidente della Giunta Provinciale “a proseguire nelle iniziative di contrasto alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi sia per mare che per terra nel territorio provinciale e regionale”, “a chiedere l’invio alla Regione Abruzzo di osservazioni negative” da parte della Provincia di Teramo e “a riferire tempestivamente al Consiglio provinciale circa l’esito delle iniziative che vorrà intraprendere, anche per il tramite dell’Assessore delegato in materia, in relazione agli impegni e a tutto quanto come sopra esposto”.
Le ragioni che hanno portato il Consiglio ad esprimersi negativamente sulla proposta di Mercante sono state riassunte dall’Assessore provinciale all’ambiente Francesco Marconi in questo modo: “Non ci pare corretto né utile porre un divieto generico e assoluto su questioni che invece vanno valutate scientificamente e tecnicamente di volta in volta, soprattutto perché la Regione Abruzzo, fra le prime in Italia e recependo specifiche richieste avanzate dalle quattro Province, ha regolamento questo tipo di attività limitandolo fortemente, tanto è vero che sin dall’inizio della legislatura non è stata autorizzata alcuna estrazione e lavorazione di idrocarburi liquidi” (fonte: Cityrumors.it). Per Marconi la conclusione è, pertanto, la seguente: “bisogna ragionare e approfondire il tema” (fonte: altraparola.it). Dal canto suo, il Presidente della Provincia Catarra ha ricordato come vi sia una differenza sostanziale tra idrocarburi liquidi e idrocarburi gassosi, essendo a tutti noto che “il metano ci dà una mano” (fonte: altraparola.it).

La richiesta di Mercante lambisce più aspetti della problematica degli idrocarburi e pone sul tappeto questioni di evidente carattere politico. Da questo punto di vista, non spetta a me valutare se le posizioni manifestate con il voto di ieri siano o no condivisibili: i cittadini sapranno giudicare ed ognuno si assumerà la responsabilità delle proprie azioni. Quel che qui interessa è, invece, il piano giuridico della problematica; e da questo punto di vista, a me pare che la richiesta avanzata da Mercante non sia affatto campata in aria. Per almeno due ragioni. Anzitutto perché, in relazione alle istanze volte ad ottenere i due permessi di ricerca di idrocarburi in Provincia di Teramo, essa coglie un punto centrale della vicenda, ossia: che contrariamente a quanto sostiene il Presidente della Provincia, le richieste non hanno ad oggetto solo il gas, ma anche il petrolio. In secondo luogo, perché con essa si ribadisce quanto da almeno due anni si tenta di spiegare e che cioè la Regione ha senz’altro competenza in materia di idrocarburi e che può esercitare detta competenza nel rispetto della Costituzione. La qual cosa va esattamente nel senso presupposto da Mercante e, cioè, che: 1) gas e petrolio devono essere disciplinati unitariamente, soprattutto per quel che concerne la fase della ricerca, in quanto, sul punto, la legge regionale n. 48 del 2010 risulta manifestamente irragionevole: le compagnie petrolifere, nel corso di un eventuale giudizio dinanzi al TAR, potrebbero, infatti, sollevare la questione di illegittimità costituzionale, lamentando che la disciplina sulla ricerca degli idrocarburi liquidi, recata dalla legge regionale, finisce per estendersi anche alla ricerca degli idrocarburi gassosi, non contemplata, invece, dalla legge regionale, non essendo, appunto, possibile mantenere tecnicamente distinti i due tipi di ricerca; 2) che gli enti locali devono essere coinvolti in ogni fase delle attività relative agli idrocarburi e, dunque, anche in quella che riguarda la ricerca: la legge dello Stato (n. 99 del 2009) ha illegittimamente estromesso gli enti locali dal procedimento che mette capo al rilascio del permesso di ricerca; e ciò in evidente violazione della Costituzione, in quanto, per esigenze di carattere unitario, le funzioni amministrative possono essere esercitate sì dallo Stato, ma nel rispetto del principio di leale collaborazione (v. sent. Corte cost. n. 383 del 2005). Ed aver estromesso gli enti locali dalla partecipazione al procedimento destinato a concludersi con l’eventuale rilascio del permesso di ricerca non mi pare un buon esempio di leale collaborazione. Ma sono cose che si vanno ripetendo da tempo, appunto: di cosa altro dovremmo ancora ragionare?

 

ENZO DI SALVATORE   


Gli idrocarburi e la Riserva naturale del Borsacchio

L’istanza di permesso di ricerca di idrocarburi denominato “Villa Mazzarosa” interessa, come è noto, parte del territorio dei Comuni di Roseto degli Abruzzi e di Pineto (TE). Nel rapporto ambientale presentato dalla Medoilgas Italia S.p.A. si legge che “all’interno dell’area in istanza non sono presenti aree protette di alcun genere (SIC, ZPS, Parchi Regionali o Nazionali)”. Fabrizia Arduini, responsabile del WWF – Zona Frentana Costa teatina, ha, tuttavia, dimostrato come l’istanza presentata concerna anche la Riserva naturale del Borsacchio. Se così stanno le cose, la domanda da porsi sarebbe la seguente: è consentito cercare idrocarburi all’interno del Borsacchio?
Quella del Borsacchio è una “riserva naturale regionale guidata” ossia finalizzata alla “conservazione e ricostituzione di ambienti naturali”. La legge regionale n. 6 del 2005 che l’ha istituita stabilisce tutta una serie di divieti: “l’alterazione delle caratteristiche naturali”, “l’apertura di nuove strade”, “la costruzione di nuovi edifici”, “l’apertura di nuove cave, di miniere e di discariche”, “l’alterazione con qualsiasi mezzo, diretta o indiretta, dell’ambiente geofisico e delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, ed in genere l’immissione di qualsiasi sostanza che possa modificare, anche transitoriamente, le caratteristiche dell’ambiente acquatico” e persino “l’installazione di cartelli pubblicitari”. Certo, in essa non si fa cenno alcuno agli idrocarburi liquidi e gassosi. È evidente, però, che, in ragione della ratio della legge, qualsiasi attività relativa agli idrocarburi dovrebbe dirsi a fortiori vietata. Ma ammettiamo pure che così non sia: in questa evenienza, non dovrebbe comunque dirsi applicabile la legge dello Stato?
Nel 2010, su delega del Parlamento, il Governo nazionale ha apportato alcune modifiche al Codice dell’ambiente. Tra le novità introdotte ve n’è una che concerne proprio gli idrocarburi liquidi e gassosi. A tal riguardo risulta stabilito quanto segue: “Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare” (art. 6, comma 17).
Stando alla lettera del Codice parrebbe che il divieto di esercizio delle attività relative agli idrocarburi concerna solo le “aree protette marine” e non anche quelle “naturali” regionali. Essa, dunque, non potrebbe riferirsi alla Riserva del Borsacchio. Per più motivi, però, questa lettura non può dirsi convincente: 1) la disposizione del Codice si riferisce ad “aree a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali” e “regionali”: se il divieto riguardasse solo le “aree protette marine” il riferimento alle leggi regionali sarebbe del tutto inutile, in quanto le “aree protette marine” sono solo quelle istituite dallo Stato (art. 18, legge n. 394 del 1991); 2) la disposizione del Codice afferma che “sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare”; e la ricerca da parte della Medoilgas non riguarderebbe il mare, ma solo la terraferma. Pur tuttavia, la disposizione del Codice si riferisce anche alle aree “costiere” (ossia: alle aree diverse da quelle marine) e in essa si parla di tutela “all’interno del perimetro” di tali aree (ossia: di aree da tutelare nella loro interezza). Se fosse lecito distinguere tra attività in terraferma e attività in mare, la tutela voluta dalla legge sarebbe per certo vanificata. Per queste ragioni, la conclusione non potrebbe che essere la seguente: il divieto stabilito dal Codice si estende anche alla Riserva naturale del Borsacchio.

ENZO DI SALVATORE



Qualche precisazione sulle istanze di permesso di ricerca degli idrocarburi gassosi (e liquidi) in Abruzzo
Con quattro distinti Avvisi al pubblico dell’11 e del 23 novembre 2011, la Direzione Parchi, Territorio, Ambiente, Energia – Servizio Tutela, Valorizzazione del Paesaggio e Valutazioni Ambientali – Ufficio Valutazione Impatto Ambientale della Regione Abruzzo dà comunicazione dell’avvenuta trasmissione di quattro Istanze di Permesso di ricerca di idrocarburi gassosi in terraferma, presentate negli anni 2005 e 2006 al Ministero delle attività produttive (oggi: Ministero dello sviluppo economico) da parte delle S.p.A. Medoilgas Italia e Adriatica Idrocarburi:

- Istanza di Permesso di ricerca “Villa Carbone”, presentata dalla Medoilgas Italia S.p.A. e relativa ai seguenti Comuni della Provincia di Teramo: Mosciano S. Angelo, Teramo, Cermignano, Cellino Attanasio, Canzano, Castellalto, Notaresco, Bellante;

- Istanza di Permesso di ricerca “Villa Mazzarosa”, presentata dalla Medoilgas Italia S.p.A. e relativa ai seguenti Comuni della Provincia di Teramo: Roseto degli Abruzzi, Pineto;

- Istanza Permesso di ricerca “Santa Venere”, presentata dalla Adriatica Idrocarburi S.p.A e relativa ai seguenti Comuni della Provincia di Pescara: Cappelle sul Tavo, Città Sant’Angelo, Collecorvino, Montesilvano, Moscufo, Pescara, Pianella, Spoltore;

- Istanza Permesso di ricerca “Cipressi”, presentata dalla Adriatica Idrocarburi S.p.A. e relativa ai seguenti Comuni delle Province di Teramo e Pescara: Atri, Castiglione Messer Raimondo, Castilenti, Cellino Attanasio, Città Sant’Angelo, Elice, Montefino, Penne;



I quattro avvisi al pubblico sono stati diramati dall’Ufficio Valutazione Impatto Ambientale della Regione Abruzzo, in ottemperanza a quanto imposto dall’art. 20 del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n. 152 del 2006). Essi sono finalizzati a raccogliere osservazioni, da parte di chiunque abbia interesse, in merito alla c.d. “Verifica di assoggettabilità” alla procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) dei progetti presentati dalle due società sopra citate. Questa verifica è imposta dallo stesso Codice dell’Ambiente, il quale, nel suo Allegato IV, n. 2, lett. g), ricomprende espressamente le “attività di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma”.

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Le quattro istanze di permesso di ricerca presentate dalle S.p.A. Medoilgas Italia e Adriatica Idrocarburi non hanno ad oggetto unicamente la ricerca degli idrocarburi gassosi, ma anche quella relativa agli idrocarburi liquidi. Sebbene, infatti, nei rapporti ambientali presentati dalle due Società si affermi che la ricerca avrà ad oggetto gli idrocarburi gassosi, e nonostante gli avvisi facciano riferimento unicamente a questo tipo di ricerca, è da osservare come non sia possibile distinguere, né dal punto di vista delle tecniche utilizzabili, né dal punto di vista giuridico, tra ricerca dei soli idrocarburi gassosi e ricerca dei soli idrocarburi liquidi.

A parte, infatti, i dubbi che sussisterebbero in ordine alle tecniche di ricerca degli idrocarburi, cui le due società ricorrerebbero (e, segnatamente, la perforazione dei pozzi, vietata dalla legge dello Stato) [1], e a parte, ancora, i dubbi che vi sarebbero in merito alla opportunità di riferire dette istanze a singoli progetti e non anche a veri e propri programmi o piani ex art. 6 del Codice dell’Ambiente (data la contiguità tra gli interventi che si vorrebbero effettuare) [2], va osservato quanto segue:


- Dal sito del Ministero dello sviluppo economico – Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche è possibile prendere visione degli estratti delle richieste, pubblicati a suo tempo sul Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse (BUIG). Sul BUIG risultano pubblicati, per l’appunto, solo gli estratti delle istanze che le Società presentano per la ricerca degli idrocarburi, non già le istanze nella loro interezza. È sufficiente, tuttavia, leggere il “modulo di presentazione di una istanza di permesso di ricerca”, che il Ministero mette a disposizione delle compagnie petrolifere, per capire come ogni istanza comprenda tanto la ricerca del gas, quanto quella del petrolio. Sul modulo, infatti, compare già prestampata la seguente dicitura: “La società (…) chiede (…) che le venga accordato il permesso esclusivo di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi convenzionalmente denominato …”. Le società, dunque, devono limitarsi a completare quanto già previsto per loro dal Ministero.


- Nel caso, ad esempio, dell’istanza denominata “Cipressi”, concernente il territorio delle Province di Pescara e Teramo, il BUIG non specifica affatto se si tratti di permesso di ricerca del gas o di ricerca del petrolio, in quanto in esso si parla genericamente di “ricerca di idrocarburi”. Tuttavia, nella successiva “Comunicazione di avvio del procedimento” del 20 gennaio 2006, l’Ufficio F3 della (allora) “Direzione generale per l’energia e le risorse minerarie” del Ministero delle Attività produttive scrive: “si comunica che in data 16 gennaio 2006 questa Amministrazione ha avviato il procedimento amministrativo in ordine all’istanza di permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi “CIPRESSI” in territorio delle Province di Teramo e Pescara”. Questa osservazione può essere estesa anche alle altre tre istanze presentate.


- Le S.p.A. Medoilgas Italia e Adriatica Idrocarburi dichiarano di voler cercare idrocarburi gassosi. Ma questa volontà, manifestata attraverso l’intestazione dei rapporti presentati, si scontra con l’ambiguità di alcune espressioni, che ricorrono tra le pagine dei rapporti medesimi. Solo per fare un esempio, in quello redatto dalla società “Medoilgas” si legge: “In questa sede si vuole sottolineare che un’istanza di permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi viene presentata al fine di poter iniziare un’attività di esplorazione, ottenendo dalle Autorità una sorta di “esclusività” dell’area per un periodo di sei anni” (p. 4) e che “L’area oggetto di questo rapporto (Fig. 1 e All. 1), relativa all’Istanza di Permesso di Ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi denominato Villa Carbone, è localizzata nella Regione Abruzzo, interamente in provincia di Teramo” (p. 52).

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In relazione alle quattro istanze presentate, la Regione Abruzzo rende noto che “chiunque può presentare in forma scritta istanze, osservazioni e pareri sull’opera entro 45 giorni a far data dalla pubblicazione dell’avviso sul BURA”. L’invito rivolto a tal fine dalla Regione Abruzzo ha, tuttavia, ad oggetto unicamente la ricerca degli idrocarburi gassosi. Che, però, anche per la Regione Abruzzo la questione della ricerca degli idrocarburi gassosi non possa essere separata da quella relativa agli idrocarburi liquidi resta attestato sia dalla circostanza che – come può apprendersi agevolmente dalla documentazione pubblicata sul sito del Ministero dello sviluppo economico – Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche – nelle richieste di intesa e di valutazione di impatto ambientale inoltrate a suo tempo dal Ministero alla Regione si discorra indistintamente di “idrocarburi liquidi e gassosi”, sia dal fatto che la “normativa di riferimento” citata negli avvisi sia richiamata non correttamente. Per l’Ufficio regionale che ha pubblicato l’avviso, infatti, l’Allegato IV, n. 2, lett. g), del Codice dell’Ambiente vorrebbe sottoposti a verifica di assoggettabilità i progetti che siano relativi alle “attività di ricerca di idrocarburi gassosi in terraferma”, quando, invece, detta normativa si riferisce in modo unitario alle “attività di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma”. In questo modo, chiunque abbia interesse a svolgere osservazioni sui progetti presentati è nei fatti indotto in errore, in quanto il parere eventualmente reso avrebbe ad oggetto la sola ricerca del gas e non anche quella del petrolio.

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La circostanza che l’istanza di permesso di ricerca si riferisca agli idrocarburi liquidi e gassosi ad un tempo comporta che si applichi, per un verso, l’art. 6, comma 17, del Codice dell’Ambiente e, per altro verso, la legge regionale n. 48 del 2010, che disciplina gli idrocarburi liquidi. In entrambi i casi, la domanda circa la verifica di assoggettabilità a VIA della ricerca degli idrocarburi sarebbe del tutto oziosa.

Per quanto concerne l’art. 6, comma 17, del Codice dell’Ambiente, esso stabilisce non solo che sia vietata l’attività di ricerca degli idrocarburi liquidi e gassosi all’interno delle aree marine e costiere, ma anche che “al di fuori delle medesime aree, le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione alla procedura di valutazione di impatto ambientale (…) sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività”. Su queste basi, l’Amministrazione regionale sarebbe, dunque, tenuta a verificare se detta disciplina si applichi a talune delle istanze presentate, in quanto esse potrebbero concernere un’area del territorio regionale nella quale insista un’area marina e costiera protetta. È questo, ad esempio, il caso dell’istanza denominata “Villa Mazzarosa”, che lambisce parte del territorio interessata dalla presenza del Parco marino Torre del Cerrano.

Quanto alla legge n. 48 del 2010, occorre ricordare come questa trovi applicazione ad ogni tipo di attività petrolifera e, dunque, anche alla ricerca degli idrocarburi liquidi. Anche in questo caso, per le ragioni che si sono esposte più sopra, l’applicazione della legge rende per certo oziosa la domanda circa la verifica di assoggettabilità a VIA della ricerca degli idrocarburi, posto che, in ragione del suo tenore letterale, la normativa regionale pare presupporre che il Comitato di coordinamento regionale – VIA effettui in ogni caso la valutazione di impatto ambientale.

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La legge regionale n. 48 del 2010 impone che il Comitato di coordinamento regionale – VIA, nell’effettuare la valutazione di impatto ambientale, debba muovere dalla presunzione di incompatibilità della ricerca effettuata: una incompatibilità che, in relazione a talune aree del territorio regionale (aree naturali protette, aree sottoposte a vincoli dei beni ambientali, SIC, ecc.), è da ritenere assoluta, posto che per le altre aree il Comitato è tenuto, invece, a valutare, di volta in volta, la compatibilità delle attività petrolifere con il territorio regionale. Dimostrazione, quest’ultima, che, nel silenzio dei rapporti ambientali presentati dalle compagnie, graverebbe tutta sul Comitato e che non potrebbe certo risolversi in una mera clausola di stile, dovendo esso dar puntualmente conto della effettiva interazione dei progetti con le problematiche sismiche ed idrogeologiche e con le esigenze di protezione e valorizzazione della produzione agricola.

Questa disciplina particolarmente restrittiva dell’attività di ricerca degli idrocarburi liquidi e la stessa previsione della obbligatorietà per la Regione di sottoporre a valutazione di impatto ambientale i progetti presentati non potrebbero dirsi in contrasto né con quanto previsto dal Codice dell’Ambiente, né con quanto la Corte costituzionale da tempo va sostenendo (ex plurimis, sent. 407/2002), atteso che sarebbe in facoltà della Regione accordare all’ambiente una tutela più rigorosa di quella apprestata dallo Stato, quando detta esigenza si connetta ad una materia di competenza regionale.

[1] V. legge n. 239 del 2004, come modificata dalla legge n. 99 del 2009: “Il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma (…) consente lo svolgimento di attività di prospezione consistente in rilievi geologici, geofisici e geochimici, eseguiti con qualunque metodo o mezzo, e ogni altra operazione volta al rinvenimento di giacimenti, escluse le perforazioni dei pozzi esplorativi”.

[2] In conformità a quanto stabilito dall’art. 6 del Codice dell’Ambiente, tali progetti andrebbero, infatti, sottoposti a “Valutazione ambientale strategica” (VAS), dal momento che sembrerebbero risolversi in un autentico “piano” o “programma” di carattere più ampio.


ENZO DI SALVATORE


Cercare gas (e petrolio) nelle Province di Pescara e Teramo

1. Su “Il Centro” di sabato 26 novembre si dà notizia di quattro nuove richieste di concessioni, avanzate da due compagnie petrolifere, per le “estrazioni di gas” nel territorio delle Province di Pescara e Teramo. Questa notizia mi pare imprecisa per più ragioni: anzitutto, perché non si tratta di “nuove” richieste, ma di richieste che risalgono al 2005 e al 2006; in secondo luogo, perché esse non hanno ad oggetto il rilascio di una “concessione” (di “estrazione” del gas), bensì il rilascio di un “permesso di ricerca”; in terzo luogo, perché il permesso di ricerca non ha ad oggetto solo gli idrocarburi “gassosi”, ma anche quelli “liquidi”, ossia: il petrolio. Certo, nei rapporti ambientali presentati alla Regione Abruzzo, e sui quali dovrà esprimersi il Comitato di coordinamento regionale – VIA, le compagnie petrolifere dichiarano di voler cercare gas. Ma questa volontà, manifestata attraverso l’intestazione dei rapporti presentati, si scontra con l’ambiguità di alcune espressioni, che ricorrono tra le pagine dei rapporti medesimi. Prendiamo, ad esempio, quello redatto dalla società “Medoilgas”. A pag. 4 si legge: “In questa sede si vuole sottolineare che un’istanza di permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi viene presentata al fine di poter iniziare un’attività di esplorazione, ottenendo dalle Autorità una sorta di “esclusività” dell’area per un periodo di sei anni”; a pag. 52, ancora: “L’area oggetto di questo rapporto (Fig. 1 e All. 1), relativa all’Istanza di Permesso di Ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi denominato Villa Carbone, è localizzata nella Regione Abruzzo, interamente in provincia di Teramo”. Quisquilie, si dirà. Non credo. Dal sito del Ministero dello sviluppo economico – Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche è possibile prendere visione degli estratti delle richieste, pubblicati a suo tempo sul Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse (BUIG). Nel caso dell’istanza denominata “Cipressi”, concernente le Province di Pescara e Teramo, il BUIG non specifica affatto se si tratti di permesso di ricerca del gas o di ricerca del petrolio, in quanto in esso si parla genericamente di “ricerca di idrocarburi”. Tuttavia, nella successiva “Comunicazione di avvio del procedimento” del 20 gennaio 2006, l’Ufficio F3 della (allora) “Direzione generale per l’energia e le risorse minerarie” del Ministero delle Attività produttive scrive: “si comunica che in data 16 gennaio 2006 questa Amministrazione ha avviato il procedimento amministrativo in ordine all’istanza di permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi “CIPRESSI” in territorio delle Province di Teramo e Pescara”. Perché, dunque, questa confusione? Perché c’è un punto che non dovrebbe sfuggire e che, invece, ai più sfugge. E cioè: che non esistono richieste per la sola ricerca del gas e richieste per la sola ricerca del petrolio. Sul BUIG risultano pubblicati solo gli estratti delle istanze che le compagnie presentano per la ricerca degli idrocarburi, non già le istanze nella loro interezza. Ma sarebbe sufficiente procurarsi il “modulo di presentazione di una istanza di permesso di ricerca”, che il Ministero mette a disposizione delle compagnie petrolifere, per capire che ogni richiesta comprende tanto la ricerca del gas, quanto quella del petrolio. Sul modulo, infatti, compare già prestampata la seguente dicitura: “La società (…) chiede (…) che le venga accordato il permesso esclusivo di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi convenzionalmente denominato …”. Le compagnie, dunque, non devono far nulla. Se non completare quanto già previsto per loro dal Ministero.

2. Ma se così è, la questione dei permessi di ricerca si fa più complicata. La Regione Abruzzo rende noto che “chiunque può presentare in forma scritta istanze, osservazioni e pareri sull’opera entro 45 giorni a far data dalla pubblicazione dell’avviso sul BURA” (11 novembre 2011). Questo avviso pubblico ha ad oggetto unicamente il gas, non il petrolio. Dunque: i cittadini sono invitati a dire quel che pensano sui progetti di ricerca del gas e non anche quel che penserebbero se sapessero che la ricerca ha ad oggetto persino il petrolio. In secondo luogo, e ciò costituisce un passaggio assai delicato della questione, il fatto che la ricerca abbia ad oggetto anche gli idrocarburi liquidi fa sì che si applichi automaticamente la legge sul petrolio varata dalla Regione Abruzzo nel novembre dello scorso anno (legge n. 48 del 2010). Questa legge, infatti, trova applicazione ad ogni tipo di attività petrolifera e, dunque, anche alla ricerca degli idrocarburi liquidi. Ciò comporta che il Comitato di coordinamento regionale – VIA, nell’effettuare la valutazione di impatto ambientale, debba muovere dalla presunzione di incompatibilità della ricerca: una incompatibilità che investe talune parti del territorio regionale e che sarebbe da ritenere assoluta, posto che per le altre aree – come per quelle agricole – il Comitato è tenuto, invece, a valutare, di volta in volta, la loro compatibilità con le attività petrolifere. Dimostrazione, questa, che, nel silenzio dei rapporti ambientali presentati dalle compagnie, graverebbe tutta sul Comitato e che non potrebbe certo risolversi in una mera clausola di stile.

ENZO DI SALVATORE



Il riordino dell’Istituto zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise: una normativa a due piazze?

La proposta di legge di riordino dell’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Abruzzo e del Molise, presentata in Consiglio regionale da Venturoni (PDL), è stata aspramente criticata da alcuni esponenti dell’opposizione. Claudio Ruffini e Giuseppe Di Luca (PD) hanno osservato come essa sia “diversa” da quella approvata di recente dalla Regione Molise (legge n. 27/2011) e, dunque, del tutto “inapplicabile”. Per esempio in ordine al numero dei componenti del collegio dei revisori: tre secondo la legge molisana; cinque secondo quella abruzzese. O, ancora, in relazione alla durata in carica del Direttore generale: cinque anni al massimo per il Molise; cinque anni, con possibilità di rinnovo fino al settantesimo anno di età, per l’Abruzzo. Ma a leggere attentamente i due testi, di divergenze ve ne sarebbero comunque altre. Come quella che concerne la nomina dello stesso Direttore: da parte del Ministro della salute, d’intesa con i Presidenti delle due Regioni, secondo la legge approvata dal Molise; da parte del Ministro della salute, sentiti i Presidenti delle due Regioni, secondo il progetto di Venturoni. O come quella relativa al Consiglio di amministrazione, il cui Presidente dovrebbe essere nominato d’intesa con il Presidente della Regione Abruzzo, secondo quel che dispone la legge del Molise, e, invece, eletto dal Consiglio di amministrazione, secondo quanto vorrebbe la Regione Abruzzo.

Ad onor del vero, le critiche mosse non colgono appieno nel segno. Se il problema viene sollevato nei termini posti dai consiglieri Ruffini e Di Luca deve concludersi che abbia torto la Regione Molise e ragione Venturoni. La legge molisana e quella proposta da Venturoni, infatti, hanno una struttura completamente differente: quella molisana si compone di 7 articoli; quella abruzzese ne conta 6 e, però, diversamente da quella del Molise, reca in allegato – come parte integrante della legge – l’accordo stretto tra le due Regioni sul funzionamento dell’Istituto. Le divergenze che vi sono non corrono tra la legge abruzzese (in sé) e quella approvata dal Molise, ma tra il contenuto dell’accordo, riportato in calce alla legge abruzzese, e la legge molisana. Quindi, a meno di non ritenere che Venturoni abbia unilateralmente modificato quanto concordato con il Molise, deve concludersi che sia la legge molisana e non quella abruzzese a violare l’accordo.

I dubbi che la proposta di Venturoni solleva concernono, invece, la struttura della legge che si vorrebbe licenziare, e cioè la decisione di integrare in essa l’accordo stretto con il Molise. A mio parere, ciò violerebbe la Costituzione per i seguenti motivi: 1) al suo art. 1 si legge: “L’accordo allegato alla presente legge può essere modificato solo con leggi regionali sulla base di accordi tra la Regione Abruzzo e la Regione Molise, previa intesa con il Ministero della salute”. Così statuendo, la proposta di Venturoni finirebbe per attribuire alla legge regionale una natura del tutto particolare, e cioè atipica, perché la doterebbe di una efficacia diversa da quella che le altre leggi regionali normalmente hanno. Questa ipotesi, infatti, non può dirsi coperta da quanto prevede la Costituzione all’art. 117, ove si dice che la legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il miglior esercizio delle proprie funzioni. La legge regionale considerata dall’art. 117 Cost. non ha, infatti, natura particolare, costituendo essa solo la forma che l’intesa con un’altra Regione deve rivestire; 2) la proposta di Venturoni viola il limite territoriale che la Regione è tenuta a rispettare. Essa non può pretendere di stabilire quel che il Molise deve fare, come ad esempio adottare i provvedimenti ad essa spettanti, approvare con atto di Giunta l’istituzione di nuove strutture territoriali, ecc. Previsioni analoghe, si dirà, ricorrono anche in altre leggi regionali, come ad esempio in quella della Lombardia (legge n. 26 del 2000). Ma questo non toglie che leggi di questo tipo siano illegittime; e, in senso contrario, non varrebbe neppure invocare la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 122/2011), con cui si è dichiarata solo in parte l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo sull’Istituto zooprofilattico (n. 13/2010), magari sostenendo che la Corte abbia taciuto su norme di analogo tenore: non era questo quel che il Governo lamentava nel suo ricorso.
A voler essere rigorosi, la disciplina legislativa dell’Istituto (fermo restando ovviamente l’accordo) non potrebbe che promanare da una sola delle due Regioni: quella dove lo stesso Istituto ha la sua sede legale. Del resto, mi pare sia questo ciò che la legge dello Stato (d.lgs. n. 270/1993) lascia implicitamente intendere, quando dice, ad esempio, che “il Consiglio di amministrazione è designato dalla Regione dove l’istituto ha la sede legale, di concerto con le altre regioni interessate”. Ma se proprio si vuol insistere con il proposito di arrivare ad avere una normativa “a due piazze”, si abbandoni almeno l’idea di integrare nel testo di legge l’accordo stretto con il Molise. Sarebbe sufficiente guardare a quanto si è fatto in Piemonte nel 2005: pochi articoli di legge, con cui si è approvato l’accordo e si sono definite le competenze del Consiglio regionale. Mentre tutto il resto continua a trovare sede nel patto siglato con la Liguria e la Valle d’Aosta.

ENZO DI SALVATORE


Le riprese audiovisive in Consiglio comunale

1. Il 22 settembre prossimo, il Consiglio comunale di Casalbordino deciderà se adottare un “regolamento sulla disciplina delle audio/videoregistrazioni e trasmissione delle sedute pubbliche del Consiglio comunale”. La bozza di regolamento non è ovviamente disponibile. Ma nella seduta del 29 agosto scorso, il sindaco di Casalbordino ha avuto modo di affrontare l’argomento, distribuendo per l’occasione una “nota” e dandone pubblica lettura: la questione concerneva l’autorizzazione alla ripresa audio e video della seduta del Consiglio e la successiva pubblicazione su un blog da parte di un Consigliere comunale. A sostegno del diniego opposto alle riprese audio e video, il Sindaco si è richiamato ad una recente sentenza del TAR Veneto (16 marzo 2010, n. 826). Con questa pronuncia, il giudice amministrativo ha dato torto ad un Gruppo consiliare e ad un’Associazione del Comune di Stra (Venezia), che chiedevano di poter filmare le sedute del Consiglio comunale e di poterne divulgare successivamente le immagini.
Non è certo questa la sede per discutere nel dettaglio la pronuncia citata (o altre più recenti decisioni, che, in verità, giungono a conclusioni del tutto opposte a quelle del TAR Veneto: v. ordinanza del TAR Catania dell’8 luglio 2011); tuttavia, quella pronuncia, richiamata dal Sindaco di Casalbordino, mi dà l’occasione per svolgere alcune considerazioni sul tema.

2. Dal punto di vista costituzionale, la possibilità di effettuare riprese audiovisive (e di diffondere successivamente quanto filmato) si configura come un autentico diritto di libertà: quello di informare liberamente chiunque, come stabilito dall’art. 21 della Costituzione. Eventuali limiti al diritto di informazione non possono che promanare dalla Carta costituzionale. L’informazione, pertanto, è vietata nel caso in cui leda il buon costume o nell’ipotesi in cui violi le altre libertà fondamentali, tutelate anch’esse dalla Costituzione. Anche ammesso che la questione investa il diritto alla riservatezza – come sembra postulare il TAR – dovrebbe comunque ritenersi quanto segue: il diritto all’informazione è tutelato direttamente in Costituzione (art. 21 Cost.); il diritto alla privacy – almeno nei termini evocati dal TAR e dal Consiglio comunale di Casalbordino – è tutelato solo dalla legge. E poiché la Costituzione prevale gerarchicamente sulla legge, nel caso in cui dovesse profilarsi una ipotesi di conflitto tra i due diritti, la manifestazione del pensiero non potrebbe essere sacrificata sull’altare della privacy. Questo discorso non vale ovviamente per i casi in cui la riservatezza si accompagni all’esercizio di altre libertà costituzionali (quali ad es. la comunicazione e la corrispondenza o il domicilio).

3. È comunque sorprendente che nella sua sentenza il TAR Veneto non avverta mai la necessità di richiamarsi all’art. 21 della Costituzione. Se non un’unica volta; in una citazione, che, però, è presa di peso da un parere dell’Autorità Garante del 2002. Il giudice amministrativo, a dirla tutta, parrebbe mosso da tutt’altra preoccupazione: quella di verificare se la richiesta del Gruppo consiliare sia legittima dal punto di vista del diritto alla privacy, disciplinato (in vario modo) da più atti normativi. Parrebbe, lo si ripete. Giacché nella pronuncia la questione del trattamento dei dati personali delle persone fisiche tende a sovrapporsi continuamente ad altre questioni: ad esempio all’esigenza di garantire “l’intrinseco decoro dello stesso organo consiliare”, che non consentirebbe al consigliere di “tramutarsi sistematicamente in cineasta e riprendere i colleghi, a proprio piacimento, durante le sedute del Consiglio”, senza con ciò non scadere in una “riprovevole spettacolarizzazione della politica”. Come siamo messi.
Ma seguiamo pure la linea interpretativa del diritto alla privacy: si converrà che il problema lambisce solo in parte (e non principalmente) la questione della riservatezza, in quanto, per definizione, l’esercizio di una funzione pubblica mal si accorda con l’idea che la funzione stessa possa essere svolta in modo “riservato”. Qui il decoro dell’ente o la privacy del Consigliere c’entrano ben poco. E solo in casi eccezionali sarebbe, dunque, legittimo impedire che chiunque diffonda quanto pubblicamente si discute e decide in seno al Consiglio. Per esempio quando si trattino questioni che involgono “dati sensibili” delle persone fisiche o giuridiche. Ciò non toglie, ovviamente, che il Sindaco possa vietare le riprese audiovisive, quando si tratti di garantire lo svolgimento pacifico dei lavori. Ma una volta che questo rischio non sussista – perché ad es. la ripresa è effettuata da postazione fissa, senza operatori, ecc. – ogni limitazione del diritto risulterebbe illegittima.

4. La soluzione che al problema danno il TAR Veneto e il Sindaco di Casalbordino non può essere condivisa. Essi infatti sembrano propensi a generalizzare il divieto attraverso le previsioni del regolamento comunale. Nella sentenza del giudice e nella nota del Sindaco si evocano in proposito diversi atti normativi; e, tra questi, il Testo Unico sugli Enti locali del 2000. Il quale, all’art. 10, stabilisce: “tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale sono pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea motivata dichiarazione del Sindaco o del Presidente della provincia che ne vieta l’esibizione, conformemente a quanto previsto dal regolamento, in quanto la loro diffusione possa pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese”.
Ebbene, se si ritenesse che il regolamento del Consiglio possa vietare in modo generalizzato la diffusione attraverso il web o la stampa di documenti, filmati, immagini, ecc., l’art. 10 sarebbe per certo illegittimo, pocihé solo la legge potrebbe recare una disciplina della libertà di informazione (e non il regolamento del Consiglio, che è un atto amministrativo). In questa prospettiva, allora, il TAR Veneto avrebbe dovuto procedere diversamente; ossia: sospendere il giudizio in corso e investire della questione la Corte costituzionale.

ENZO DI SALVATORE


Un referendum sul Parco della Costa teatina?

Il Senatore Fabrizio Di Stefano propone che sull’istituzione del Parco della Costa teatina si tenga un referendum. Meglio detto: che si tengano “consultazioni popolari nei territori coinvolti dall’eventuale costituzione del Parco”, al fine di “capire effettivamente cosa vogliono i cittadini”.
Eppure il Ministero dell’ambiente è stato chiaro: il nodo da sciogliere non riguarda il se, ma il come. E cioè, non se istituire il Parco, ma come istituirlo. Per questo, con spirito di collaborazione, ha chiesto che la Regione e gli Enti locali avanzassero una proposta concreta, che portasse chiarezza sui confini e sulla classificazione delle aree da tutelare. Parlare, dunque, di referendum in questo preciso momento storico, non ha alcun senso: non è questo ciò che chiede il Ministero e non è, del resto, questo ciò che chiede la legge dello Stato. Certo, forse sarebbe stata cosa opportuna investire della questione i cittadini, lasciando che si esprimessero liberamente sulla bontà della proposta avanzata. Ma opportuno non vuol dire legittimo. Nel 2002, la Corte costituzionale ha affermato che, al fine di pervenire a soluzioni condivise, l’iter di istituzione del Parco può essere organizzato “in modo che trovino espressione punti di vista regionali e locali”; salvo poi precisare che “sarebbe contraddittorio, rispetto al carattere nazionale dell’interesse ambientale e naturalistico da proteggere, ritenere che sia costituzionalmente dovuto l’assenso o l’intesa regionali o locali dotati di forza giuridicamente condizionanti”. Questo orientamento della Corte – piaccia o no – avrebbe, dunque, posto dubbi di legittimità costituzionale persino se il Senatore Di Stefano, anziché uscire dall’aula del Senato, avesse provato a correggere l’emendamento presentato lo scorso febbraio dal collega Legnini, prevedendo che l’istituzione del Parco fosse preceduta da “consultazioni popolari”. Pertanto, qualora si decidesse di “capire effettivamente cosa vogliono i cittadini”, dovrebbe aversi anche la bontà di spiegare loro che non si tratterebbe di un autentico referendum, bensì solo di un sondaggio d’opinione. A meno che, si intende, il Senatore Di Stefano non decida di battere una strada differente, presentando in Parlamento una proposta di legge, che cancelli con un tratto di penna definitivamente il Parco della Costa teatina.

ENZO DI SALVATORE


La Regione Abruzzo e le IPAB: quando ridurre la spesa pubblica ha un costo
Nella seduta del primo settembre scorso, il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare dinanzi alla Corte costituzionale la legge n. 17/2011 della Regione Abruzzo. Con detta legge, approvata nel giugno di quest’anno, il Consiglio regionale si è proposto di riordinare il sistema delle IPAB (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza), dando con ciò seguito a quanto richiesto dal Legislatore statale negli anni 2000 e 2001. In questo modo, si è stabilito che le oltre 100 IPAB abruzzesi dovessero estinguersi oppure trasformarsi in ASP (Aziende Pubbliche di Servizi alla persona) o anche in “soggetti aventi personalità giuridica di diritto privato senza scopo di lucro”. Un obiettivo forse non del tutto incomprensibile, in quanto apertamente indirizzato a razionalizzare il settore dei servizi sociali e a ridurne la spesa pubblica. Il fatto singolare, però, è che nel suo ricorso il Governo sostiene che la legge della Regione violi i principi di coordinamento della finanza pubblica (la cui disciplina è dalla Costituzione riservata in via esclusiva allo Stato). Cioè, a dire: la legge della Regione, che ha per obiettivo il contenimento della spesa pubblica, si porrebbe in contrasto con i principi di contenimento della spesa pubblica.
In un’intervista rilasciata qualche giorno fa ad una emittente televisiva locale, l’Assessore regionale alle Politiche sociali Gatti ha, tuttavia, definito l’impugnazione del governo come “cautelativa” e solo relativa a “questioni di carattere tecnico”. Questa lettura della vicenda mi lascia piuttosto perplesso. Anzitutto perché l’impugnazione non ha in sé nulla di “cautelativo”, ma si configura come un autentico ricorso ai sensi dell’art. 127 della Costituzione. In secondo luogo, perché l’impugnazione non è sostenuta da censure di carattere “tecnico”, se con questa espressione si vuol intendere che la legge sia illegittima per vizi di forma o per trascurabili dettagli, che appassionano solo gli addetti ai lavori. La legge della Regione dispone, infatti: che le IPAB, in attesa di riordino, non possano procedere a nuove assunzioni … a meno che ciò non sia necessario; che le ASP, una volta costituite, siano tenute ad utilizzare il personale già in servizio presso le IPAB, senza possibilità di assumere altro personale … a meno che ciò non sia necessario; che qualora si debba procedere a nuove assunzioni, le ASP possano farlo “mediante specifiche selezioni” (con ciò violando non solo i principi di coordinamento della finanza pubblica, ma – secondo il Governo – anche il principio che impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso pubblico, ex art. 97 della Costituzione); che al Presidente (nominato dalla Giunta regionale su proposta dell’Assessore alle Politiche sociali) e a ciascun componente del Consiglio di amministrazione dell’azienda sia corrisposta un’indennità annua lorda: per quanto concerne il Presidente, per un importo non superiore “al venti per cento dell’indennità base spettante ai Direttori Generali delle Aziende USL dell’Abruzzo”; per quanto riguarda i consiglieri, per un importo “pari al sessanta per cento di quella spettante al Presidente”.
Non proprio un dettaglio, come si vede. Soprattutto in considerazione del fatto che la legge dello Stato vuole che “la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione”, sia “onorifica” e che possa dar luogo solo al rimborso delle spese sostenute. O, tutt’al più, alla corresponsione di un gettone di presenza, che non superi i 30 euro a seduta giornaliera.

ENZO DI SALVATORE


La democrazia (improvvisamente) e il Parco della Costa teatina

1. Su Il Centro di oggi si legge che degli otto Comuni direttamente interessati dall’istituzione del Parco quattro hanno ritenuto di doversi esprimere negativamente (San Vito, Rocca San Giovanni, Torino di Sangro, Casalbordino) e solo tre positivamente (Fossacesia, Vasto, San Salvo). Il Comune di Ortona, invece, sarebbe “indeciso”. Nel caso di Torino di Sangro, il Comune avrebbe addirittura chiamato a raccolta i propri cittadini, chiedendo loro cosa ne pensassero del Parco. Risultato: dei circa 3.000 residenti, solo 777 avrebbero accolto l’invito del Sindaco e di questi ben 738 avrebbero manifestato il proprio dissenso. C’è chi ha sottolineato l’irritualità con cui si è esercitato il diritto di voto (un sì o un no annotato su un registro consultabile da chiunque); e chi, invece, ha osservato come il voto espresso non sia in alcun modo rappresentativo dell’opinione della maggior parte degli abitanti di Torino di Sangro.
La domanda che, tuttavia, mi porrei è la seguente: perché si è deciso che gli Enti locali e/o i loro cittadini si esprimessero sul Parco? La legge dello Stato, infatti, prevede tutt’altro: la decisione in ordine all’istituzione e alla delimitazione provvisoria del Parco spetta allo Stato. E così anche la sua delimitazione e la sua concreta istituzione, sebbene per quest’ultimo passaggio sia previsto che lo Stato stringa un’intesa con la Regione. Qualcuno senz’altro penserà che aver voluto seguire un procedimento differente da quello prescritto dalla legge non sia comunque un fatto da biasimare: acquisire il voto dei cittadini o il parere degli enti locali territorialmente interessati dall’istituzione del Parco è comunque espressione del principio democratico. Come dire: un atto giuridicamente non dovuto, ma politicamente voluto; cioè: opportuno. Forse. Ma quest’opinione non mi convince del tutto e provo a spiegarne il perché.

2. La Costituzione attribuisce in via esclusiva allo Stato la competenza in materia di tutela dell’ambiente. Come è facile intuire – e come la Corte costituzionale ha sottolineato più volte – la riserva in capo allo Stato di tale competenza si collega alla circostanza che l’ambiente non è un bene frazionabile, ossia territorialmente divisibile, ma un bene comune. Quindi se volessimo essere ancor più rispettosi del principio democratico, trattandosi (a maggior ragione) di un Parco nazionale, dovremmo ammettere che sulla sua istituzione debba pronunciarsi l’intero corpo elettorale italiano.

3. Si potrebbe ovviamente obiettare che questo discorso sia assolutamente astratto, in quanto, di fatto, i benefici o gli inconvenienti che sempre discendono dall’istituzione di un Parco ricadrebbero unicamente sulla popolazione residente sul suo territorio. E che in ragione di questo sarebbe giusto che si esprimano soltanto i Comuni interessati o tutt’al più i suoi abitanti. Ammesso (e non concesso) che sia così – e cioè che coloro che hanno deciso di investire della questione direttamente o indirettamente la popolazione locale siano i più convinti sostenitori della democrazia ad ogni costo – ci si dovrebbe chiedere come mai iniziative di questo tipo non siano caldeggiate anche in altre occasioni: come mai, ad esempio, nessuno chiede agli abitanti dei Comuni della Costa teatina di esprimersi sul rilascio delle concessioni petrolifere in terraferma e in mare? In questo e in altri cento casi, i benefici o gli inconvenienti di una decisione siffatta non ricadrebbero egualmente sulla popolazione ivi residente?

4. La democrazia è un paradiso in terra solo se maneggiata con cura. Altrimenti diventa uno strumento del diavolo. La Storia lo sta a testimoniare; essa prova, cioè, come la democrazia sia stata spesso utilizzata per neutralizzare la stessa democrazia. E ciò potrebbe essere ripetuto anche a proposito dell’istituzione del Parco della Costa teatina. Anche in questo caso, infatti, il ricorso alla democrazia finisce per mettere capo esattamente al suo contrario: se entro il 30 settembre il Parco non verrà istituito, lo Stato nominerà un Commissario ad acta; il quale provvederà direttamente, e senza consultazione di alcuno, alla sua perimetrazione e istituzione. Un atto, dunque, che non avrebbe in sé nulla di democratico, in quanto dall’iter di istituzione del Parco verrebbe estromessa la stessa Regione, che – almeno fino al 30 settembre – rappresenta pur sempre l’unico legittimo baluardo a presidio della democrazia: non è forse chiamata dalla legge a stringere un’intesa con il Governo?

5. Ma se così è, si potrebbe anche insinuare il dubbio che il ricorso alla democrazia – rectius: il ricorso al parere dei Comuni o al voto dei cittadini – serva a ben altro: a che arrivi presto il 30 settembre oppure a che la Regione – unica formalmente legittimata a pronunciarsi nel procedimento di istituzione del Parco – non debba esprimersi sul punto. E cioè: che non debba assumersi la responsabilità di una scelta politica, che dietro l’istituzione del Parco sempre si cela. Eppure anche un ragazzino sa che non può esserci democrazia (rappresentativa) senza responsabilità.

ENZO DI SALVATORE



Il Consiglio comunale di Casalbordino delibera sulla proposta di perimetrazione del Parco nazionale della Costa teatina

Il 29 agosto scorso, il Consiglio comunale di Casalbordino (CH) ha espresso parere negativo sulla proposta di perimetrazione del “Parco della Costa teatina”, “così come formulata dalla Giunta regionale – Direzione Parchi Territorio Ambiente Energia e dal Ministero dell’Ambiente”.
Ciò che più colpisce della delibera è che tra quanto in essa si premette e quanto, invece, si conclude non vi è coerenza alcuna: da un lato, si sciorina una ricostruzione della disciplina dei Parchi, presa di peso da una decisione della Corte costituzionale del 2002, con cui il giudice delle leggi ha dichiarato che lo Stato ben può estromettere Regioni ed Enti locali dal procedimento di istituzione del Parco; dall’altro, si conclude che “in caso di autoritaria istituzione del Parco nazionale della Costa Teatina”, “si dà mandato a ricorrere per l’eccezione di incostituzionalità della norma per presunto abuso della sua funzione da parte del Parlamento, con l’attribuzione ad aree evidentemente prive legalmente, perché non supportate di valutazione tecnico-scientifico, di valore ambientale e naturalistico di importanza nazionale della qualificazione di parco nazionale, nonché di presunto illegittimo procedimento successivo istitutivo”.
Sorvolo sul fatto che il Comune minacci di ricorrere alla Corte costituzionale “per l’eccezione di incostituzionalità della norma” (in che modo?) e provo comunque a spiegare perché la delibera sarebbe priva di significato giuridico.

L’istituzione di un Parco nazionale spetta allo Stato. L’art. 117, comma 2, della Costituzione attribuisce in via esclusiva ad esso la potestà legislativa in materia di tutela dell’ambiente. La Regione non ha competenza in proposito, a meno che la tutela ambientale non sia connessa con un’altra materia di competenza regionale, come – tanto per fare un esempio – l’agricoltura. Ciò vuol dire che nel disciplinare la materia agricoltura, la Regione può sì recare una (parziale) disciplina dell’ambiente, ma nel far questo non può abbassare lo standard di tutela fissato dalle leggi dello Stato. All’art. 2 della legge n. 394 del 1991 (legge quadro sulle aree protette) si legge: “I parchi nazionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni fisiche geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l’intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future”. Difficile sarebbe affermare che l’istituzione del Parco della Costa teatina non soddisfi tali requisiti. E difficile sarebbe anche sostenere – come si sostiene nella delibera – che il Parlamento abusi (o abbia abusato) della sua funzione nell’attribuire “ad aree evidentemente prive legalmente, perché non supportate di valutazione tecnico-scientifico, di valore ambientale e naturalistico di importanza nazionale della qualificazione di parco nazionale”: quei requisiti sono fissati da una legge del Parlamento, non dalla Costituzione; se il Parlamento vuole, può sempre disattenderli con altra legge.

L’art. 8, comma 3, della legge n. 10 del 2001 (disposizioni in campo ambientale) ha emendato la legge n. 394 del 1991, stabilendo che: “Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, d’intesa con la regione interessata, è istituito il Parco nazionale «Costa teatina». Il Ministro dell’ambiente procede ai sensi dell’articolo 34, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394, entro centottanta giorni a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge. L’istituzione ed il funzionamento del Parco nazionale «Costa teatina» sono finanziati nei limiti massimi di spesa di lire 1.000 milioni a decorrere dall’anno 2001”.
A seguito di questa modifica, la Regione Abruzzo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte. Nel suo ricorso essa ha sostenuto che l’art. 8 della legge istituisse il Parco della Costa teatina “senza una partecipazione della Regione stessa” e che, pertanto, violasse “il principio di leale cooperazione. ”Ma la Corte – come si accennava più sopra – ha dato torto alla Regione ed ha precisato che quella doglianza si basasse su “un’inesatta valutazione dei termini normativi della questione” (sent. n. 422 del 2002). “La norma impugnata” – sottolinea la Corte – “non istituisce, propriamente, il Parco nazionale in questione ma ne prevede l’istituzione a opera di un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’ambiente, d’intesa con la Regione. Essa promuove un procedimento e, al tempo stesso, fornisce la base legale del provvedimento istitutivo del Parco, con il quale il procedimento stesso è destinato a concludersi”. L’istituzione di un Parco nazionale coinvolge senz’altro le competenze dello Stato e della Regione, ad un tempo; ma “la decisione iniziale che attiva le procedure in vista della creazione di uno specifico parco nazionale (decisione che prelude ma non è ancora, come detto, la “istituzione”), attenendo alla cura di un interesse non frazionabile Regione per Regione”, spetta unicamente dello Stato. Questa decisione – continua la Corte – “può essere organizzata in modo che trovino espressione punti di vista regionali e locali, quale integrazione degli elementi valutativi a disposizione dell’istanza nazionale decidente e contributi in vista di soluzioni condivise”. “Può essere organizzata”, si badi, non deve.
Questo passaggio è puntualmente ricordato anche dal Consiglio comunale nella sua delibera. Quello che però il Consiglio omette di ricordare è che la sentenza della Corte così prosegue: “sarebbe tuttavia contraddittorio, rispetto al carattere nazionale dell’interesse ambientale e naturalistico da proteggere, ritenere che sia costituzionalmente dovuto l’assenso o l’intesa regionali o locali dotati di forza giuridicamente condizionante”.
In altre parole, nella sua pronuncia la Corte ha cura di precisare quel che nella delibera del Consiglio comunale non si precisa affatto, e cioè: che l’istituzione del Parco avviene attraverso più fasi; e che per comprendere quali competenze possiedano al riguardo la Regione e gli Enti locali occorrerebbe considerare ciascuna singola fase in cui si snoda l’intero iter istitutivo del Parco:
- La decisione in ordine alla istituzione di un Parco nazionale spetta unicamente allo Stato. È il Parlamento che con legge vi provvede;
- La delimitazione provvisoria del Parco che si intende istituire è affidata al Ministro dell’ambiente; il quale si avvale degli elementi conoscitivi e tecnico-scientifici che lo Stato e le Regioni hanno a disposizione;
- Le misure di salvaguardia, che siano necessarie alla conservazione dello stato dei luoghi, sono adottate dal Ministro dell’ambiente, sentiti la Regione e gli Enti locali;
- La delimitazione in via definitiva del Parco è stabilita con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’ambiente e sentita la Regione;
- Il Parco è istituito con Decreto del Presidente della Repubblica, previa intesa con la Regione. Poiché il Decreto del Presidente della Repubblica costituisce, per così dire, solo la forma che l’atto ministeriale deve rivestire, l’intesa è in questo caso stretta tra il Ministro dell’ambiente e la Regione.

L’art. 2 della legge n. 93 del 2011, di conversione del decreto-legge n. 225 del 2010, ha stabilito che entro il 30 settembre 2011 sia istituito il Parco nazionale della Costa teatina:
“3-bis. In ragione della straordinaria necessità e urgenza connessa alle necessità di tutela ambientale, di tutela del paesaggio e di protezione dai rischi idrogeologici, le disposizioni di cui all’art. 8, comma 3, della legge 23 marzo, n. 93, si attuano entro il 30 settembre 2011. Trascorso inutilmente tale termine, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro i successivi trenta giorni, si procede alla nomina di un commissario ad acta che provvede alla predisposizione e attuazione di ogni intervento necessario.
3-ter. All’attuazione delle disposizioni di cui al comma 3-bis si provvede nei limiti delle risorse di cui all’articolo 8, comma 3, della legge 23 marzo 2001, n. 93, allo scopo appostate”.
Sebbene questa previsione legislativa non sia affatto chiara – in quanto l’utilizzo della locuzione “le disposizioni di cui all’art. 8, comma 3, della legge 23 marzo, n. 93” lascerebbe intendere che entro il 30 settembre 2011 debba perfezionarsi l’iter di istituzione del Parco e, cioè, giungersi finanche all’adozione del decreto del Presidente della Repubblica – quello che non si comprende è su che cosa il Consiglio comunale di Casalbordino abbia ritenuto di doversi “legittimamente” pronunciare. Con la sua delibera, esso dà “parere non favorevole alla proposta di perimetrazione” del Parco e si duole, ad un tempo, di “non poter legittimamente deliberare su una proposta alternativa di perimetrazione e zonazione”.
La conclusione da trarre sarebbe, in verità, un’altra: la delibera del Consiglio comunale di Casalbordino si configura come un atto solo informale; un atto, forse, politicamente opportuno in tempi di democrazia partecipativa, ma del tutto privo di significato giuridico.

ENZO DI SALVATORE



A proposito dell’approvazione con legge regionale del calendario venatorio

La Regione Abruzzo si prepara a varare il nuovo calendario venatorio. Anche quest’anno, come l’anno scorso, esso verrà adottato con legge del Consiglio anziché con atto amministrativo della Giunta. Una scelta siffatta è stata, invero, stigmatizzata dal Governo nazionale, che nell’agosto dello scorso anno ha impugnato la legge regionale n. 39 del 2010 dinanzi alla Corte costituzionale. Nella delibera del Consiglio dei Ministri si legge che “la scelta di procedere all’adozione del calendario venatorio con legge regionale, anziché in via amministrativa con delibera di Giunta regionale”, contrasta: 1) con le disposizioni regionali stesse, ed in particolare con l’articolo 43, comma 2, della legge regionale 10/2004”; 2) con le disposizioni della legge 157/1992, con la quale lo Stato ha definito i criteri minimi generali di tutela della fauna selvatica”.

1) Il Governo ha osservato che la legge regionale n. 10 del 2004 riserva alla sola Giunta la competenza all’approvazione del calendario. Per questa ragione, il Consiglio non potrebbe esercitare con legge quella competenza. Se lo facesse (come in effetti ha fatto), la legge adottata sarebbe illegittima per contrasto con la legge precedente.
Questo argomento non ha pregio. Dal punto di vista giuridico, infatti, non si può sostenere che il contrasto tra due leggi regionali ponga problemi di legittimità costituzionale, in quanto è nella natura delle cose che il Consiglio possa abrogare una sua legge adottata in precedenza. Si potrebbe, però, obiettare che la legge n. 39 del 2010 perseguirebbe un fine diverso, poiché, configurandosi come una legge a “termine”, si proporrebbe solo di “derogare” e non anche di “abrogare” la normativa recata dalla legge n. 10 del 2004. Pur tuttavia, nella legge n. 39 si stabilisce che le norme regionali precedenti continuino a trovare applicazione solo in quanto non contrastino con essa. Il che vuol dire, appunto, abrogare quelle norme e non sospenderne l’efficacia per il periodo 2010/2011. Di tutto questo, comunque, deve essersi reso conto anche il Governo, visto che tra quanto deliberato inizialmente dal Consiglio dei Ministri e quanto poi depositato presso la Cancelleria della Corte non v’è corrispondenza: nel ricorso presentato, infatti, non si fa più cenno a detta questione.

2) Secondo il Governo, la scelta di approvare con legge il calendario venatorio viola quanto previsto dalla legge n. 157 del 1992, che all’art. 18, comma 2, stabilisce che parte della disciplina recata dallo Stato può essere derogata dalla Regione solo previo parere dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (ISPRA). La questione mi pare fondata. La previsione nella legge dello Stato della previa acquisizione del parere dell’ISPRA postula, infatti, che il procedimento da seguire sia quello amministrativo e non quello legislativo, perché, diversamente – come si è sottolineato nel ricorso – “sarebbe pregiudicato l’esito della verifica tecnica affidata all’ISPRA sullo stato delle specie interessate”. In buona sostanza, se il Consiglio derogasse con legge alla disciplina normativa dello Stato, il parere negativo dell’ISPRA risulterebbe vanificato. Ed è esattamente ciò che è accaduto l’anno scorso.

Considerazioni non molto dissimili potrebbero, in verità, essere estese anche alla valutazione di incidenza, che il Comitato di coordinamento regionale – VIA è chiamato ad effettuare il 2 agosto prossimo: quando, cioè, si esprimerà sulla bontà del calendario venatorio predisposto dalla Regione Abruzzo per il 2011/2012 (su un testo, si badi, del tutto differente da quello sul quale poi voterà il Consiglio regionale!). Mentre, infatti, il giudizio del Comitato sarà parte di un iter amministrativo, che dovrebbe metter capo all’atto di approvazione del calendario, la legge varata dal Consiglio si collocherà fuori da detto iter. In questo modo, il parere reso non si configurerà come atto endoprocedimentale, ma come atto autonomo rispetto alla legge, posto che se lo si intendesse come interno al procedimento legislativo, la legge adottata finirebbe per essere condizionata dal parere del Comitato (ed esprimerebbe, in questo modo, una “forza” del tutto peculiare e, cioè, “atipica”!).
Ora, poniamo il caso che il Comitato dia parere positivo all’adozione del calendario e che sulla base di detto parere il Consiglio adotti la legge. E poniamo anche il caso che l’atto del Comitato sia impugnato davanti al TAR e che il giudice amministrativo in seguito lo annulli. A questo punto, la legge resterebbe comunque legittimamente adottata e l’annullamento del parere del Comitato – proprio in quanto atto autonomo rispetto alla legge – servirebbe a ben poco. Ma se così fosse, a che pro stabilire – in questo e in altri analoghi casi – che taluni progetti debbano conseguire la valutazione di incidenza o quella di impatto ambientale?
Quel che c’è di vero è che la scelta di approvare con legge e non con delibera della Giunta il calendario venatorio – scelta che la Regione vorrebbe anche quest’anno confermare – appare dettata unicamente dalla “necessità” di evitare che l’atto della Giunta possa essere oggetto di ricorso amministrativo. Giacché, una volta approvato il calendario con legge regionale, l’unico ricorso ammissibile sarebbe quello dinanzi alla Corte costituzionale e non certo quello davanti al TAR.
Con buona pace, ovviamente, delle associazioni ambientaliste e di tutti coloro che potrebbero avere ancora a cuore il destino della nostra Regione.

ENZO DI SALVATORE


La Regione Abruzzo vuol rivedere il suo Statuto

È trascorso poco più di un decennio da quando il Parlamento italiano ha deciso di modificare il Titolo V della Costituzione, consentendo – tra le altre cose – che le Regioni italiane si dotassero di una nuova forma di governo: il Presidente della Regione, salvo che lo Statuto non disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Una volta eletto, egli procede alla nomina degli assessori. E se la carica di Presidente della Regione viene meno, gli assessori rassegnano le dimissioni e il Consiglio regionale si scioglie.

Questo modello, com’è noto, è stato recepito anche dalla Regione Abruzzo, che nello Statuto riscritto nel 2006 ha deciso di far eleggere il Presidente della Regione direttamente dai cittadini e non più dal Consiglio regionale. È notizia di questi giorni, tuttavia, che il Consiglio regionale abruzzese intenda discutere una proposta di revisione dello Statuto, volta ad introdurre nell’ordinamento regionale la c.d. “questione di fiducia”. Di cosa si tratta?

La questione di fiducia è un istituto tipico del diritto parlamentare, cui il Governo nazionale ricorre ogni qual volta ritenga che l’approvazione di un certo atto da parte del Parlamento sia assolutamente imprescindibile per il proseguimento della propria attività politica: qualora il Parlamento non dovesse approvare l’atto posto in votazione dal Governo, questo si dimetterà. Poiché il ricorso alla questione di fiducia comporta che l’atto debba essere votato senza possibilità di apportarvi modifiche, esso risulta essere, nei fatti, uno strumento decisivo a disposizione dell’Esecutivo, al fine di superare l’ostruzionismo manifestato dalle opposizioni in Parlamento.

Ebbene, la proposta di disciplinare nello Statuto regionale abruzzese la questione di fiducia desta più di una perplessità.

Per quanto concerne la legittimità di una scelta siffatta, è da dire che il significato profondo di questo istituto può essere colto solo a patto di riflettere intorno al tipo di rapporto che in ambito statale corre tra il Governo e il Parlamento. Sul piano nazionale, infatti, il Governo non può svolgere la propria attività senza che abbia prima ottenuto la fiducia di entrambe le Camere. Lo stabilisce la Carta costituzionale all’art. 94. Nel caso della Regione Abruzzo, invece, il Presidente e la Giunta non devono ottenere alcuna fiducia da parte del Consiglio, in quanto la legittimazione all’esercizio dell’attività politica dell’esecutivo regionale promana direttamente dal voto popolare.

L’art. 123 della Costituzione prevede che “ciascuna Regione ha un proprio Statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo”. Se si considera, poi, quel che stabilisce in altra sua parte la Costituzione, si scopre che in essa vengono elencati in modo puntuale i casi di cessazione dalla carica del Presidente: approvazione di una mozione di sfiducia, rimozione, impedimento permanente, morte e dimissioni volontarie del Presidente (art. 126).

Si osserverà: ma è la stessa Costituzione che, in modo del tutto singolare, considera tra le cause di cessazione della carica del Presidente l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Consiglio; seppur implicitamente, essa parrebbe, con ciò, ammettere che il rapporto tra il Presidente e il Consiglio possa, quindi, essere di tipo fiduciario. Nemmeno per sogno; e del resto la stessa Corte costituzionale ha escluso una lettura di questo tipo, quando nel 2006 ha bocciato lo Statuto della Regione Abruzzo, proprio nella parte in cui pretendeva di condizionare l’entrata in carica della Giunta al voto di fiducia espresso dal Consiglio. Allora si dirà: ma anche altre Regioni hanno disciplinato nel proprio Statuto la questione di fiducia. E quando lo hanno fatto, il Governo non ha impugnato, per questa parte, lo Statuto dinanzi alla Corte costituzionale. Certo. Ma questo non toglie che una previsione siffatta potrebbe essere comunque illegittima, posto che se si introducesse la questione di fiducia nello Statuto si andrebbe ad incidere esattamente sulla natura del rapporto che deve correre tra il Presidente e la Giunta, da un lato, e il Consiglio, dall’altro: in tal caso, l’effetto che si ricollegherebbe alla questione di fiducia sarebbe esattamente quello di verificare se tra i due organi della Regione sussista ancora … la fiducia! Il che – per la Regione che avesse optato per l’elezione diretta del Presidente – sarebbe evidentemente un controsenso.

Vero è che anche in assenza di una espressa disciplina della questione di fiducia da parte dello Statuto, al Presidente della Regione non sarebbe comunque impedito di rassegnare le proprie dimissioni qualora il Consiglio non dovesse approvare una legge nel senso da egli voluto. Ma è pur vero che in questa evenienza si ricadrebbe nell’ipotesi di “dimissioni volontarie” già considerata dall’art. 126 della Costituzione.

A queste perplessità, altre, tuttavia, se ne aggiungono. Sottrarre al Consiglio la funzione di rappresentanza della comunità regionale e concentrarla nelle mani del solo Presidente espone, infatti, la Regione al rischio paradossale di versare in una situazione di subalternità rispetto alle decisioni assunte dal Governo nazionale. Taluni commentatori hanno, in verità, sottolineato come, a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, il rafforzamento della posizione del Presidente della Regione abbia di fatto inciso sulle relazioni intrattenute con gli organi dello Stato centrale. Secondo questa opinione, il Presidente della Regione, forte dell’investitura popolare, si ergerebbe a principale difensore dei peculiari interessi che emergerebbero dalla comunità regionale; per questo – si è concluso – egli esprimerebbe un maggior grado di indipendenza rispetto alle posizioni assunte dal Governo nazionale. In tal senso andrebbero, ad esempio, lette le vicende che hanno portato i Governatori del Piemonte e del Veneto ad opporsi alla distribuzione sul proprio territorio di alcuni farmaci abortivi. Ora, può darsi che in questa opinione vi sia molto di vero; pur tuttavia ritengo che un epilogo di questo tipo si colleghi più ad una valutazione soggettiva, che ad una serie di circostanze obiettive. Per le ragioni più disparate, non si può, infatti, escludere che un Presidente e la sua maggioranza possano ritenere più conveniente assumere una posizione remissiva ed accettare di buon grado quanto chiesto o anche solo desiderato dal Governo nazionale. Le modalità sarebbero le più disparate: essi potrebbero decidere di non impugnare una legge dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, quando questa leda in modo manifesto una competenza della Regione; escludere di resistere in giudizio, quando sia il Governo ad impugnare una legge della Regione dinanzi alla Corte; ritenere di dover sottoporre all’approvazione del Consiglio una legge ideata e scritta per i cittadini della Regione direttamente dal Governo, com’è accaduto per l’Abruzzo con la legge sul petrolio e come forse accadrà con la legge sul servizio idrico integrato: in entrambi i casi, infatti, il Governo nazionale ha condizionato il ritiro del ricorso di legittimità costituzionale all’approvazione da parte del Consiglio di un testo di legge, elaborato direttamente a Roma.

Ora, si provi a pensare a quel che accadrebbe se si introducesse nello Statuto della Regione la questione di fiducia: il Consiglio regionale approverebbe una legge; il Governo la impugnerebbe, promettendo, tuttavia, di rinunciare al ricorso qualora la Regione approvasse una legge scritta direttamente a Palazzo Chigi. Quindi la Giunta presenterebbe al Consiglio regionale un nuovo disegno di legge, corrispondente in tutto e per tutto a quella voluta dal Governo. E su di esso porrebbe la questione di fiducia. A quel punto, il Consiglio regionale si troverebbe a dover approvare quel testo senza possibilità di introdurre emendamenti: prendere o lasciare. Nel caso in cui la proposta non fosse approvata, il Presidente e gli assessori sarebbero costretti a dimettersi e i consiglieri tornerebbero a casa.


ENZO DI SALVATORE

(28 giugno 2011)

Parco nazionale della Costa teatina e svantaggi per l’agricoltura: un falso problema

Il 27 maggio scorso, presso San Vito Chietino, si è tenuto un convegno dal titolo “Parco della Costa Teatina: Gestione del Territorio e delle Aree agricole”. Il dibattito verteva intorno alla seguente questione: quali conseguenze avrà sul territorio teatino e, nello specifico, sull’agricoltura l’istituzione del Parco. In effetti, gli interventi che si sono susseguiti hanno dato larga prova di come la preoccupazione principale degli organizzatori e dei politici si concentrasse esattamente su detto problema. Come se si trattasse di un problema. Anzi: del problema. Sarebbe sufficiente tornare a guardare il video di quell’incontro: per gli illustri ospiti intervenuti non si avrebbero benefici dall’istituzione del Parco, ma solo gratuiti svantaggi per l’agricoltura.

Chi desiderasse produrre olio di oliva in una zona del territorio teatino, che la legge dello Stato vorrebbe con stravaganza tutelare nella sua integrità, dovrebbe desistere dal suo proposito: “se c’è un frantoio in zona A” – ha dichiarato l’assessore all’agricoltura Febbo – “il frantoio deve andar via”. Di qui l’invito ad aderire alla proposta avanzata dalla Provincia di Chieti: far coincidere il futuro Parco con le aree del territorio già protette dalla legge regionale n. 5 del 2007 ovvero contenerne l’esistenza entro i confini delle seguenti sei riserve: Punta Aderci (Vasto); Lecceta (Torino di Sangro); Grotta delle Farfalle (Rocca San Giovanni e San Vito Chietino); Ripari di Giobbe (Ortona) e Marina di Vasto. Gli ambientalisti che hanno partecipato all’incontro hanno vivamente protestato, chiedendo ad alta voce che le informazioni elargite fossero più corrette: nelle riserve istituite dalla legge regionale – ha ricordato Fabrizia Arduini del WWF – non sarebbe comunque possibile costruire frantoi. Ma questo argomento non deve aver convinto il pubblico presente al dibattito. Vediamo, allora, cosa stabilisce la legge dello Stato. L’art. 12 della legge n. 394 del 1991 disciplina il “Piano del Parco”. Approvato dal Consiglio direttivo ed adottato dalla Regione, esso suddivide il territorio del Parco in base al diverso grado di protezione dell’ambiente: a) aree integrali; b) aree generali orientate; c) aree di protezione; d) aree di promozione economica e sociale. Eccezion fatta per le aree integrali, ove non sarebbe possibile esercitare alcun tipo di attività, in riferimento alle altre tre la legge non pare porre particolari impedimenti all’esercizio delle attività agricole. Soprattutto in quelle classificate come c) e d). Se così è, chi temesse per il futuro dell’agricoltura teatina non potrebbe, dunque, sostenere che il problema principale del Parco sia quello della sua estensione e che, in ragione di ciò, il suo territorio vada ridotto e fatto coincidere con le riserve già esistenti. Da questo punto di vista, il problema sarebbe semmai quello della classificazione del territorio. Un problema, tuttavia, superabile. E per questo, appunto, un falso problema. Ma su che cosa, invece, inciderebbe la minore o maggiore estensione del territorio del Parco? Essenzialmente su due attività: quella edilizia e quella petrolifera. Sull’edilizia per più ragioni: perché, ad esempio, nelle aree classificate come b) non sarebbe possibile “costruire nuove opere edilizie, ampliare costruzioni esistenti ed eseguire costruzioni”; perché, ancora, il piano del Parco avrebbe effetto di dichiarazione di pubblico interesse e sostituirebbe ad ogni livello i piani paesistici, quelli territoriali o urbanistici, così come ogni altro strumento di pianificazione. Quanto alle attività petrolifere, l’istituzione del Parco renderebbe immediatamente applicabile il decreto legislativo n. 128 del 2010, fortemente voluto dal ministro Prestigiacomo a seguito del disastro occorso nel Golfo del Messico; il quale, per un verso, impedirebbe di esercitare quelle attività entro il territorio del Parco (a prescindere dal tipo di classificazione adottata); e per altro verso, estenderebbe il divieto all’esercizio delle stesse fino a 12 miglia marine. Conseguenze, come si vede, senz’altro positive per l’agricoltura. Per carità: si può legittimamente pensare che cemento e petrolio siano il futuro della Costa teatina e che per questo vada salutata con favore la proposta elaborata dalla Provincia di Chieti. Si abbia, però, almeno la cortesia di spiegare agli agricoltori che l’istituzione del Parco non arrecherà alcun danno alla loro attività.

Mi sembra un fatto senz’altro positivo che i cittadini abruzzesi, molisani e pugliesi reagiscano con forza alla minaccia di trivellazione selvaggia del nostro mare. A ragione, essi manifestano e si oppongono al rilascio dei permessi, delle autorizzazioni e delle concessioni, mentre la classe politica locale e nazionale fa spallucce, si allontana definitivamente dal problema: sembra quasi non sia affar suo. Quando decisi di scrivere Abruzzo color petrolio non lo feci con l’intento di ripercorrere le tappe della vicenda petrolifera abruzzese, allo scopo di raccontare attraverso una analisi retrospettiva tutto quel che fino ad allora era accaduto sul piano legislativo. Il mio proposito era un altro: denunciare l’esistenza di un quadro normativo nazionale e regionale assolutamente ambiguo ed indicare un percorso possibile, compatibile sia con le prescrizioni del diritto costituzionale sia con quelle del diritto europeo. In questo senso, il libro voleva essere un punto di partenza per la discussione, non certo un punto di arrivo. A distanza di pochi mesi dalla sua uscita mi trovo, tuttavia, a dover constatare che quell’invito è caduto nel vuoto. I cittadini manifestano in spiaggia, non davanti al Parlamento. E la classe politica non li sostiene né in spiaggia, né in Parlamento. Provo a riassumere la sostanza di questo discorso (e mi scuso della citazione). Nel libro, a pag. 20, scrivevo: “Puntualmente, ogni qual volta provo a convincere me stesso e gli altri della necessità di un intervento legislativo in materia da parte della Regione, c’è sempre qualcuno che mi oppone che le leggi vivono nell’alto dei cieli, mentre su questa terra la questione principale atterrebbe al Centro Oli di Ortona e più in generale alle diverse concessioni rilasciate (...). Niente di più inesatto. I due piani sono senz’altro connessi e meritano entrambi attenzione; pur tuttavia essi reclamano azioni completamente differenti. (...). Del resto, anche qualora si riuscisse ad ottenere la revoca di un atto di concessione o di autorizzazione, essa riguarderebbe pur sempre un caso specifico e mai la generalità dei casi”. Con questo intendevo sottolineare una cosa molto semplice: contrastare attraverso ricorsi amministrativi le diverse concessioni rilasciate è senz’altro opportuno, ma non sufficiente. Il rilascio di un permesso, di una autorizzazione o di una concessione avviene, infatti, sulla base di una legge. Tra l’atto legislativo e l’atto amministrativo vi è, per così dire, un necessario rapporto di causa ed effetto. Va bene tentare di debellare l’effetto, ma occorre agire anche sulla causa. Se ci limitiamo a combattere l’effetto e non la causa, non andremo molto lontano: talvolta ci troveremo a gioire del fatto che una concessione verrà negata; talaltra ci dispereremo perché una concessione sarà rilasciata. Su questo punto, però, ho maturato una mia personale convinzione: occorre effettuare un salto di qualità. La classe politica abruzzese ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. E da essa non c’è da attendersi più nulla. Non è stata in condizione di approvare una legge che risolvesse in modo decente il problema degli idrocarburi in terraferma, figuriamoci se è in condizione ora di risolvere la questione del petrolio in mare: ammesso (e non concesso) che la Regione non abbia competenza al riguardo, credo che il suo tempo sia ormai scaduto e che il problema debba essere affrontato altrove. Mi spiego. Lo Stato italiano è pur sempre libero di disporre come meglio crede del proprio territorio; è libero, cioè, di decidere se aprire o chiudere parti del proprio territorio all’esercizio delle attività petrolifere (v. art. 2, Direttiva 94/22/CE). È chiaro, tuttavia, che qualora dovesse decidere di aprire una parte del proprio territorio a dette attività, non potrebbe poi vietare che sulla stessa si eserciti la libertà di iniziativa economica delle società petrolifere (italiane e straniere). Una soluzione, dunque, ci sarebbe. Al di là di quanto si sta già lodevolmente facendo, sarebbe auspicabile che l’azione dei cittadini si indirizzasse: verso il Governo, al fine di chiedere che esso dichiari in sede europea di voler chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere (rectius: il proprio mare territoriale); verso il Parlamento, affinché approvi una nuova legge, con cui si rechi una disciplina più trasparente della materia e si faccia divieto di esercitare quelle attività nell’Adriatico, posto che una limitazione della libertà di iniziativa economica appare possibile solo per legge e solo alle condizioni stabilite dall’art. 41 della Costituzione. Un obiettivo ambizioso, certo; ma non impossibile da raggiungere.

(23 giugno 2011)

ENZO DI SALVATORE