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martedì 18 novembre 2014

Fiscalità e royalties petrolifere


SU FISCALITA' E ROYALTIES PETROLIFERE STOP ALLE MISTIFICAZIONI

Non si mischiano e non si sommano le mele con le pere. Bisognerebbe fare
altrettanto con royalties e tributi.

Procediamo con ordine, partendo dalle definizioni.
Con il termine ROYALTIES si indica il pagamento di un corrispettivo allo Stato per
poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali; esse sono quindi la remunerazione
di diritti ceduti a terzi.
Il loro ammontare viene calcolato applicando sul valore della produzione calcolato
su prezzi medi del mercato un'aliquota che varia in funzione del tipo di minerale
estratto (gas o petrolio) e dell'ubicazione della concessione (terra o mare): per
idrocarburi estratti sulla terra ferma il 10%; per il gas in mare il 7% e, infine, per il
petrolio off shore il 4%.
Sono inoltre previste quote annuali di produzione esenti da royalties.
Minerale Prodotto
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Ubicazione concessione
Quota annuale di produzione esente da royalties
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Aliquota royalty
Olio
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Terra
20.000 tonnellate
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10%
Olio
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Mare
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50.000 tonnellate
page2image51448 page2image51872 page2image52888 page2image53312
4%
page2image55680 page2image56104 page2image57120 page2image57544
Gas
Terra
25 milioni di metri cubi
10%
Gas
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Mare
page2image72792 page2image73216 page2image73800
80 milioni di metri cubi
page2image76608 page2image77032 page2image77456
7%
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I TRIBUTI, invece, possono consistere in imposte, tasse o contributi.
L' imposta è costituita dal versamento che l'ente pubblico esige dal contribuente per
far fronte ai costi finanziari della prestazione di servizi a favore della collettività.
La tassa viene pagata dal contribuente come controprestazione di un determinato
servizio reso da un ente pubblico (es.: tassa universitaria, ticket sanitario, ecc.).
Si hanno infine contributi allorché l'ente pubblico, nel prestare un servizio a favore
della collettività, arreca congiuntamente un vantaggio economico particolare,
obiettivamente determinabile, a un determinato individuo che si trova in una
particolare situazione rispetto al servizio pubblico reso operante (P. Armani, F.
Bulckaen, Scienza delle Finanze, Roma, Le Monnier, 1982).
Imposte, tasse e contributi hanno in comune l'elemento caratteristico della coattività
e non costituiscono un prezzo pagato dall'individuo o dalle imprese.

LE ROYALTIES, essendo un corrispettivo che le compagnie pagano allo Stato,
NON APPARTENGONO AD ALCUNA DELLE TRE CATEGORIE. Sono pertanto
estranee al concetto di pressione fiscale.
Cerchiamo di capire perché.
Gli idrocarburi fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c.). E'
lo Stato ad autorizzarne la ricerca ed è sempre lo Stato a concederne il diritto di
coltivazione dietro versamento di un corrispettivo che rappresenta per la
compagnia petrolifera un costo di produzione al pari di tutti gli altri costi legati, ad
esempio, alle attività di ricerca e di trivellazione, di depurazione, ecc..
In quanto costi le royalties sono deducibili fiscalmente, cosa che non sarebbe
consentito fare qualora venisse riconosciuta la loro natura di tributo.
Ad adiuvandum: che non siano inserite tra le voci nel Titolo I delle Entrate di
Bilancio di Previsione di Stato, Regioni e Comuni, e che siano calcolate sul valore
della produzione dovrebbe risultare sufficiente per fugare ogni residua perplessità
circa la loro natura extra-tributaria.
Le royalties, dunque, non rientrano nella misura del prelievo fiscale.

IL FISCO PRIVILEGIA LE IMPRESE OIL & GAS
Del resto, nel calcolo della pressione fiscale che grava su tutte le imprese che non
appartengono al settore Oil & Gas si considerano forse i costi di
approvvigionamento delle materie prime?
In Italia le royalties versate dalle imprese di estrazione varrebbero il 22% della
tassazione complessiva che si attesterebbe a sua volta nell'intorno del 65%
(Confindustria Chieti, Idrocarburi, Dati e Riflessioni su un Settore Strategico, Chieti,
2013).
Depurato di quel 22% delle royalties -che non hanno natura tributaria-, quel 65%
indicato da Confindustria Chieti scende drasticamente al 43%.
Si ricorda che in Italia il dato medio della pressione fiscale che grava sulle imprese
è del 68,3% (elaborazione de Il Sole 24 ORE su dati PwC, Kpmg, Ocse), 25,3 punti
percentuali in più rispetto ai "privilegiati" dell'Oil & Gas.
Questo vuol dire che in uno Stato rapace, che reclama tributi scandinavi in
cambio di servizi inefficienti, inadeguati e scadenti, esistono contribuenti
particolarmente tartassati che versano tasse, imposte e contributi in misura
maggiore rispetto alle imprese estrattive di gas e petrolio.
Inoltre, numerose amministrazioni locali (Pedaso, Porto Sant'Elpidio, Pineto, ecc.)
si sono viste costrette a percorrere i vari gradi di giudizio, con alterne fortune, per
reclamare il versamento delle somme dovute dalle compagnie petrolifere a titolo di
ICI per gli impianti off shore, malgrado la Corte di Cassazione abbia stabilito con
sentenza n. 13794 del 21 febbraio 2005 che "sull'intero territorio dello Stato, ivi
compreso il mare territoriale, convivono e si esercitano i poteri dello Stato
contestualmente ai poteri dell'ente regione e degli enti locali", riconoscendo
pertanto la capacità impositiva dell'ente locale anche sul mare territoriale.
Pochi eletti vorrebbero dunque far valere il principio del "pagare meno noi per far
pagare di più gli altri".

IL PAYOUT TIME DI UN PROGETTO DI ESTRAZIONE DI GAS NATURALE
Non solo. Quale altro settore della nostra acciaccata economia può vantare un
"payout time" (nelle attività di estrazione è il tempo necessario affinché il valore
della produzione di un pozzo copra per intero i costi perforazione, di
funzionamento, le tasse, ecc..) pari agli 8 mesi dichiarati da JKX Italia e cristallizzati
nel Decreto Ministeriale di concessione del titolo per la coltivazione di gas naturale
"Aglavizza"?
Restando nel campo delle attività lecite e, in particolare, nel settore "Energy" (es.:
impianti per la produzione di energia elettrica da fonte solare), si ragiona invece
nell'ordine di 6/7 anni contro gli 8 mesi di "Aglavizza", che nel frattempo potrebbero
essere diventati 10 a causa della diminuzione del prezzo del gas naturale.
Per una centrale a biomasse come quella ipotizzata a Bazzano, ben nota al think
tank aquilano di Confindustria Abruzzo, si viaggia su tempi ancora più lunghi. Forse
perché, tra le altre cose, i costi di approvvigionamento della biomassa
sopravanzano in valore le royalties petrolifere?

IL LIVELLO DELLE ROYALTIES
Difatti, l'altra nota dolens per le compagnie del petrolio e del gas è costituita dal
livello delle royalties in Italia, ritenute alte rispetto allo standard internazionale.
Il benchmark lo si fa, neanche a dirlo, sempre la Norvegia dove, in verità, a fronte
di royalties nulle, il prelievo da tassazione locale per le imprese estrattive è del
78% (Nomisma Energia, Tassazione della Produzione di Gas e Petrolio in Italia: un
confronto), contro il 43% dell'Italia.
Il dato relativo alla tassazione norvegese merita di essere contestualizzato: nel
Paese scandinavo il settore dell'energia è largamente presidiato dallo Stato
ed i proventi del petrolio confluiscono in un Fondo Pensioni Sovrano.
In Italia, invece, le compagnie versano allo Stato corrispettivi (royalties)
risibili soprattutto se rapportati ai quantitativi, limitati e definiti, che è
possibile estrarre dal sottosuolo con metodi convenzionali: sempre JKX Italia
stima la durata del ciclo di vita della concessione "Aglavizza" in massimo 15 anni.
A dare atto dell'esiguità delle royalties sono sia le stesse imprese del settore sia la
loro associazione più rappresentativa; in tempi non remoti, ad esempio, la stessa
Assomineraria (Gianni Bonati, Conferenza OMC, Ravenna, 2 aprile 2004):
"- i canoni superficiali uniformati e sicuramente modesti contribuiscono ad
incentivare gli operatori soprattutto nelle prime e più rischiose fasi della
prospezione e della ricerca (art. 18, D.lgs. 625/96);
- le royalties sulla produzione sono disciplinate in maniera armonizzata e
risultano certamente contenute in rapporto ad altre legislazioni ... omissis ...
- in varie circostanze l’Assomineraria ha prodotto risultati di studi dai quali
risulterebbe che in Italia i costi “industriali” di produzione degli idrocarburi a
testa pozzo, e cioè al netto delle royalties, si pongono nella parte inferiore del
“range” europeo e sono quindi abbastanza competitivi. Tale panorama non
viene sostanzialmente modificato se si tiene conto della fiscalità e, in
particolare, delle royalties".
Più recentemente si è espressa anche la canadese Cygam Energy Inc. che in
Italia controlla Vega Oil S.p.a. e che, con Petroceltic, può fregiarsi di Elsa nell'off-
shore abruzzese oltre che di numerosi titoli nella Po Valley (Italia Oggi, Italia
paradiso fiscale del petrolio, 1 luglio 2010):
"Italia paradiso fiscale del petrolio ... Mini royalty del 4%, franchigia sulla
produzione dei primi 300 mila barili all'anno (per singolo giacimento) ... una
produzione libera da royalties sui primi 822 al giorno, per singolo giacimento ... e
non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti".
A riprova del fatto che nulla è cambiato nel corso degli anni, Giuseppe Rigo,
Interim Presidente and Chief Executive Officer di Cygam Energy Inc., ha
ribadito i medesimi concetti il 17 luglio 2012, in occasione dell'Annual Information
Form fot the Year Ended, December 31, 2011:
"In Italy, for offshore exploration permits, the state royalty on oil production is
4% (which is at the low end of international oil and gas taxation and less than
Canada and the United States), with a provision that no royalties are paid on the

first 300,000 bbls of oil production per year, per field. This represents a royalty-free
production on the first 822 bbls of oil per day, per field. Offshore gas production is
subject to a 7% royalty, but the first 1,750 MMcf per year, per field (or
approximately 4.8 MMcf per day) are also royalty-free. Under the June 26, 2012,
Decree DL83/2012, which is subject to ratification by the Italian Government within
60 days, the current offshore royalty regime will be increased by an additional 3%.
For onshore permits, the state royalty on production of both oil and gas is a
maximum of 10%, with a provision that no royalties are paid on yearly production
less than 125,000 bbls of oil and 700 MMcf of gas, per field (or approximately 340
bbls/d and 1.9MMcf/d) .... and there are no restrictions on repatriation of
profits".

Quanto basta per chiudere un capitolo penosissimo e imbarazzante che,
considerate le serie difficoltà in cui versano famiglie ed imprese, non ha ragione di
esistere.

Enrico Gagliano - Coordinamento Nazionale No Triv

giovedì 1 maggio 2014

La Commissione europea rilancia le fonti fossili e frena le rinnovabili: un successo per le lobbies di gas e petrolio e una “Caporetto” per l’economia italiana

Lo scorso 9 aprile la Commissione Europea ha approvato le nuove “linee guida” sugli aiuti di Stato per il settore dell’energia e per l’ambiente (“Guidelines on State aid for environmental protection and energy 2014-2020”). L’atto varato dalla Commissione, frutto di un vero e proprio colpo di mano del Commissario spagnolo alla concorrenza Joaquín Almunia, si propone di esentare i settori produttivi maggiormente energivori ed inquinanti, spesso poco efficienti dal punto di vista energetico, dal contribuire al sostegno finanziario ai sistemi di incentivazione o di aiuto di Stato alle fonti rinnovabili, che andranno gradualmente a scomparire a partire dal 2016.
A beneficiare della misura, fortemente contrastata dal Comitato delle Regioni, saranno soprattutto i settori chimico, siderurgico, metallurgico, elettronico, petrolifero e del gas. Chi pagherà in loro vece? La risposta è contenuta nel titolo e nell’occhiello di un articolo pubblicato su La Stampa il 9 aprile scorso: “Commissione Ue esenta l’industria dal contributo a rinnovabili – Aiuti di Stato tedeschi estesi a tutti. Pagheranno i consumatori”. Chi perde e chi vince? A soccombere sono gli obiettivi di politica ambientale dell’Unione; a prevalere sono gli interessi delle potenti lobbies, che condizionano, fino a dettarle, le decisioni delle istituzioni europee. Su tutte, il cosiddetto “Gruppo Magritte”, in cui spiccano l’Enel e l’Eni.
Vediamo perché.
A partire dal 2016, e dopo aver testato le nuove procedure su una parte delle produzioni elettriche da fonte “green”, il prezzo dell’elettricità dovrà essere progressivamente garantito da meccanismi legati all’andamento del mercato. Con un’eccezione, però: in virtù dell’atto approvato dalla Commissione, le grandi utilities proprietarie di centrali termoelettriche, giovandosi della legalizzazione di quel meccanismo nient’affatto concorrenziale che va sotto il nome di capacity payment, vedranno riconoscersi sovvenzioni pubbliche in cambio di “sicurezza” per il sistema elettrico.
Una vera manna per le multinazionali (specie per quelle in perdita), i cui investimenti in impianti di produzione elettrica da fonti fossili tardano a “rientrare”, sia a causa del calo della domanda di energia determinato dalla crisi, sia perché costretti a far fronte alla concorrenza delle fonti rinnovabili (fotovoltaico in testa), che, con riferimento alla produzione di energia elettrica, hanno priorità di dispacciamento proprio nelle ore in cui si registrano i picchi di consumo.
La Commissione ha usato due pesi e due misure: amorevole e premurosa con i gruppi industriali dell’energia fossile e con la siderurgia made in Germany, per i quali l’atto ha effetto immediato e, di fatto, retroattivo; “matrigna” non solo con le fonti pulite e rinnovabili, ma anche e soprattutto con le imprese, che negli ultimi anni hanno scommesso sull’efficienza energetica per acquisire competitività sul mercato.
Sotto il profilo più squisitamente politico-giuridico, l’approvazione dell’atto da parte della Commissione presenta una seconda grave criticità: utilizzando il “cavallo di Troia” delle “linee guida”, che non necessitano di approvazione né del Parlamento né del Consiglio, e facendo leva sulle proprie prerogative di Autorità antitrust, i tecnocrati della Commissione hanno assunto decisioni, che incideranno pesantemente sulla politica ambientale, climatica ed energetica dell’Unione.
Il Parlamento continua, di fatto, ad essere espropriato della sua funzione legislativa, senza che il suo Presidente Schulz, oggi candidato del PSE alla Presidenza della Commissione, proferisca parola.
È tutto frutto del caso? Non proprio, visto che l’intera vicenda si sviluppa sull’asse Almunia-Schulz-Merkel.
A cantar vittoria è soprattutto la Germania, il cui Governo ha lungamente trattato con la Commissione affinché fosse fatto salvo il sistema degli aiuti di Stato alle industrie energivore, che la Merkel ha alimentato negli ultimi tre anni in strisciante violazione delle normative antidumping dell’UE e che ora viene di fatto legalizzato ex-post.
Per l’Italia è una disfatta politica, economica ed energetica in piena regola: sapientemente occultata dai protagonisti del nuovo corso renziano e relegata ai margini del dibattito in vista delle prossime elezioni europee.

ENZO DI SALVATORE
ENRICO GAGLIANO

giovedì 2 gennaio 2014

Lettera aperta in merito alla vicenda "BANCA TERCAS S.p.a."

Riceviamo e pubblichiamo.
Ogni dichiarazione ivi contenuta non è attribuibile al presente Blog ma solo all'Autore.



Con riferimento alla vicenda BANCA TERCAS S.p.a., oltre alle responsabilità, in via di accertamento, dei singoli, esistono responsabilità che potremmo definire “di sistema”.

La sentenza è sibillina e senza appello: la degenerazione dei partiti è causa delle tribolazioni di BANCA TERCAS non meno di quanto lo sia dei debiti milionari e delle inefficienze di Ruzzo, Teramo Ambiente, Cirsu, Arpa, ecc.. 
In questo caso, tuttavia, c’è da considerare un’aggravante: stravolgere le regole del sistema creditizio e piegarle ai desiderata degli “amici” significa condizionare pesantemente lo sviluppo economico e sociale di un Paese; significa condizionare la libertà di iniziativa economica o fare in modo che si svolga “ …. in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; interferire arbitrariamente e pesantemente nel meccanismo della libera competizione tra operatori economici; creare privilegi immotivati a favore di alcuni nei confronti di altri; premiare progetti industriali poco credibili ed impedire l’ingresso sul mercato di nuove imprese e la creazione di nuova occupazione; prendersi gioco dei risparmiatori e del risparmio, impedendo che questo “… acceda alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
Considerevole il numero di articoli della nostra Costituzione ridotti in macerie. Tradito lo spirito della nostra Carta Costituzionale. 

Ma torniamo alle "miserie" di casa nostra. BANCA TERCAS è controllata per il 65% del capitale sociale dalla FONDAZIONE TERCAS il cui Statuto, sia nella versione precedente del 2007 sia in quella in vigore dal 4/10/2013, prevede che il Consiglio di Amministrazione della Fondazione venga eletto dal Consiglio di Indirizzo.
La maggior parte dei componenti del Consiglio di Indirizzo, anche se formalmente nominata da altri, è sostanzialmente designata dai partiti politici per il tramite di alcuni enti territoriali.

Secondo la formulazione del 2007, confermata in quella del 2013, all’art. 13 lo Statuto della FONDAZIONE prevede infatti che:

==== omissis =======

- due membri sono espressione della comunità di Teramo e sono designati dal Sindaco del Comune di Teramo;
- un membro è espressione della comunità di Atri ed è designato dal Sindaco del Comune di Atri;
- un membro è espressione della comunità di Nereto ed è designato dal Sindaco del Comune di Nereto;
- un membro è designato dal Presidente della Provincia di Teramo;
- un membro è designato dal Presidente della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura della Provincia di Teramo;
- un membro è designato dal Rettore dell’Università degli Studi di Teramo;
- tre membri sono nominati direttamente dallo stesso Consiglio di Indirizzo.

Visti i rapporti di forza del tempo, era quasi scontato che fino al 2011 fosse il centrosinistra a detenere la maggioranza del Consiglio di indirizzo e a dettar legge anche nella nomine dei componenti del Consiglio di Amministrazione della Fondazione che a sua volta ha potere di vita o di morte sulla composizione del Consiglio di Amministrazione di BANCA TERCAS.

Schematizzando, finché il centrosinistra è stato in grado di conservare la maggioranza del Consiglio di Indirizzo della Fondazione, si è automaticamente assicurato il controllo del CdA della BANCA.
Dal 2011 in poi si è aperta invece una nuova fase in cui, cambiando i rapporti di forza all’interno del Consiglio di Indirizzo della Fondazione a causa del passaggio al centrodestra della guida politica della Provincia di Teramo, del Comune di Atri e di quello di Nereto, alla scadenza del mandato del “vecchio” CdA, la sostituzione dei componenti è stata improntata a differenti criteri “partitici” ma pur sempre nell’ottica della continuità spartitoria: oggi ad essere totalmente “nuovo” dell’ambiente Tercas è il solo Alessandro D’Ilario, assicuratore in Roseto degli Abruzzi.
Quanto al resto dei componenti, si tratta di volti già noti: oltre al Presidente, Prof. Mario Nuzzo, ritroviamo nel CdA della FONDAZIONE, promosso al rango di Vice Presidente, l’Avv. Vincenzo De Nardis, già membro del Consiglio di Indirizzo in quota centrodestra per il Comune di Teramo; così come Marino Iommarini e Raffaele Marinucci, entrambi in quota centrodestra in quanto precedentemente designati a far parte del Consiglio di Indirizzo dalle Amministrazioni Comunali di Atri e Nereto.
Ecco spiegato il meccanismo, perfettamente legittimo e previsto in Statuto, che dalla notte dei tempi ha consentito alle diverse fazioni di “scalare” e di mantenere il controllo della FONDAZIONE e, di conseguenza, anche della BANCA TERCAS, determinandone il bello ed il cattivo tempo.

Quanto siamo disposti a tollerare tutto questo? E' accettabile che le FONDAZIONI BANCARIE e, quindi, le loro banche, possano essere scalate e controllate dai partiti?
Come la recente storia economica del nostro Paese insegna (vedi, ad esempio, Monte dei Paschi) esistono responsabilità politiche che investono il sistema dei partiti su scala ben più ampia di quella regionale dove operano “appena” 4 fondazioni bancarie a fronte di altre 84, concentrate soprattutto nelle regioni del Centro-Nord d’Italia: tutti i tentativi di riforma delle Fondazioni Bancarie e del loro rapporto con il sistema creditizio hanno fin qui miseramente fallito e, a parte la stampa di settore, questo punto non compare tra le priorità di intervento delle forze politiche oggi rappresentate in Parlamento.
Né qualcuno chiede cosa ne sia stato, ad esempio, della previsione normativa riguardante l’istituzione di un’Authority sugli enti no-profit, fondazioni bancarie comprese.
Sicché, per l’immediato futuro, non vi sono elementi per essere particolarmente ottimisti.
Nel frattempo la magistratura riempie i buchi lasciati dalla politica.


Enrico Gagliano
Comitato abruzzese difesa beni couni