giovedì 27 novembre 2014

Il “Protocollo d’intesa per l’area di Gela”

Il “Protocollo d’intesa per l’area di Gela”, sottoscritto a Roma il 6 novembre scorso tra l’ENI, il Ministero dello sviluppo economico, la Regione Siciliana, il Comune di Gela, Confindustria Sicilia, ed alcuni sindacati, mira a realizzare una (parziale) riconversione dell’area industriale di Gela, al fine di consolidare (anche) la vocazione manifatturiera della stessa. La riconversione e il risanamento ambientale vengono tuttavia subordinati all’impegno, da parte della Regione Siciliana, a consentire l’avvio di nuove attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi sull’intero territorio siciliano e persino “nell’offshore adiacente” (come possa la Regione impegnarsi anche in ordine alle attività offshore resta un mistero). A tal fine, non solo si chiede alla Regione di procedere alla semplificazione dei procedimenti amministrativi (dunque: di impegnarsi a modificare la legge regionale n. 14 del 2000), ma si rivendica anche il diritto di esercitare quelle attività in regime di sostanziale monopolio (o oligopolio), posto che nel protocollo si legge chiaramente che le attività petrolifere saranno esercitate direttamente da ENI (o da società riconducibili ad ENI) ovvero da società aventi la sede legale nel territorio siciliano. Appare evidente che si è di fronte ad un accordo restrittivo della concorrenza, come tale vietato dall’Unione europea. D’altra parte, la direttiva 94/22/CE, che disciplina la materia, prescrive agli Stati membri di garantire che non vi siano discriminazioni tra le società petrolifere per quanto riguarda l’accesso alle attività; e dispone che la superficie di ciascuna area data in concessione debba essere determinata in modo da non eccedere quanto giustificato dall’esercizio ottimale delle attività medesime sotto il profilo tecnico ed economico. Essa chiarisce, inoltre, che “le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che conferiscono ad un unico ente il diritto di ottenere autorizzazioni in un’area geografica specifica, compresa nel territorio di uno Stato membro, sono abolite dagli Stati membri interessati prima del 1° gennaio 1997”.


Enzo Di Salvatore

mercoledì 19 novembre 2014

Oltre Genova: dall’appello dei genitori liguri alla nuova responsabilità

Una settimana fa, il 12 novembre, a seguito della seconda delle tre devastanti alluvioni in Liguria in poco più di trenta giorni, è stato indirizzato al prefetto di Genova Fiamma Spena, in qualità di rappresentante del governo nella Provincia, l’appello sottoscritto da un gruppo regionale spontaneo di genitori perché l’autorità si faccia loro portavoce presso l’organo esecutivo e venga posto in essere un piano d’azione di interventi di tutela e messa in sicurezza del territorio, nonché di definitivo rinnovamento degli edifici scolastici.
Un appello che, nell’immediatezza della forma, è una più che mai chiara invocazione alla programmazione e pianificazione di improrogabili misure strutturali di “lungo respiro”.
Un richiamo affinché si proceda all’adozione di risolutivi provvedimenti tesi a ricondurre il concetto d’allerta nel naturale canone dell’eccezionalità e venga riconsegnato “il territorio” ad una indispensabile normalità contestuale; ma anche un monito alla stessa classe politica miopie che, sul dissesto idrogeologico, celebra la retorica della necessità dell’agire in prevenzione mentre “sblocca” urgenti attività d’intervento pertinente e nuove opere “strategiche” di cementificazione nazionale.
Sosteneva lucidamente, meno di una settimana fa, l’europarlamentare Barbara Spinelli che “Mettere in sicurezza il territorio significa finanziare un piano di opere diffuse, partendo dai Piani di gestione del rischio di Alluvione – prescritti fra l’altro dalla Direttiva 2007/60/CE – così da uscire dalla logica della perenne emergenza, dei piani straordinari, dei commissari speciali, delle procedure in deroga e del regolare malaffare”.
A lei ha fatto eco la geologia che, nel rievocare le conseguenze dell’edificazione selvaggia, del grado del dissesto e l’entità della dimensione di rischio, si è espressa con giudizi ancor più grevi: “In una normale evoluzione del territorio i versanti franano, i fiumi scorrono ed esondano. Ma una pericolosità si trasforma in rischio quando noi interferiamo con esso […] Non abbiamo mai considerato l’evoluzione del territorio come fatto normale. Abbiamo pensato di [dover] essere noi […] ad agire su di lui […] ed oggi ne paghiamo le conseguenze” [cfr. G.V. Graziano, in wisesociety.it, 13.11.2014].
Sulla medesima traccia le dichiarazioni rilasciate in settimana su «La Stampa» da Fabio Luino, dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Cnr, quando sulla specificità ligure ha sostenuto che “la Liguria si potrebbe salvare solo abbattendo ciò che è stato costruito nel posto sbagliato”. Una considerazione certamente da stato terminale, che contempla, quale unica soluzione, in uno slancio d’estrema razionalità forse ed assolutamente fuori da improbabili fatalismi, il necessario ripristino coatto delle condizioni di “normalità” fisica dei territori.
Il dato inequivocabile è, comunque, quello espresso dai numeri complessivi raccolti nelle analisi sul rischio idrogeologico, con 28 milioni di italiani dimoranti in territori ad elevato o medio pericolo, 1 milione e 260 mila edifici (dei quali oltre 6000 scolastici); 6633 comuni sugli 8071 totali [dal Report del Ministero Ambiente 2008], la quasi totalità – tra il 98 ed il 100% – degli stessi sono sotto minaccia di frane o alluvioni in 10 Regioni e, con una superficie pari a quasi 30.000 Kmq, il 9.8% dell’intero territorio nazionale è ad alta criticità idrogeologica. [dal Rapporto Ecosistema-Rischio 2013, della Protezione Civile].
Ciò che galleggia esanime su questo flusso ininterrotto d’acqua e di fango pare essere lo stesso Paese, o parte dei suoi resti, dopo mezzo secolo di previsioni autorizzatorie irresponsabili e il dilagante abusivismo edilizio.
La stessa irresponsabilità, con la quale si è “condizionato” il territorio con impermeabilizzazioni diffuse, cementificazione intensiva, scelte volumetriche troppo spesso irragionevoli, in una degenerata compartecipazione al consumo del suolo tra “interessi” pubblici e privati, offre, in termini più generali e nell’immagine delle odierne frane e voragini, la “metafora minacciosa di un paese che sta crollando a livello politico, economico e sociale” [Mumelter, in Internazionale.it, 17.11.2014].
In questo senso l’appello dei genitori liguri pare essere molto più di un richiamo alla tragica contemporaneità, quindi; è una invocazione a nuova “responsabilità”, esprime una tensione ideale che travalica lo spazio ed il tempo presente e si universalizza, mettendo in luce quella “essenziale dimensione interpersonale e dialogale dell’esperienza etica”, “la convinzione che la libertà umana è tenuta a rispondere delle proprie decisioni […] alle generazioni che verranno e le cui condizioni di vita materiali e culturali dipenderanno da comportamenti posti da noi, qui, adesso” [C.M. Martini, Non temiamo la Storia, Milano-Casale Monferrato, 1992].


Stefano Pulcini

martedì 18 novembre 2014

Fiscalità e royalties petrolifere


SU FISCALITA' E ROYALTIES PETROLIFERE STOP ALLE MISTIFICAZIONI

Non si mischiano e non si sommano le mele con le pere. Bisognerebbe fare
altrettanto con royalties e tributi.

Procediamo con ordine, partendo dalle definizioni.
Con il termine ROYALTIES si indica il pagamento di un corrispettivo allo Stato per
poter sfruttare un dato bene ai fini commerciali; esse sono quindi la remunerazione
di diritti ceduti a terzi.
Il loro ammontare viene calcolato applicando sul valore della produzione calcolato
su prezzi medi del mercato un'aliquota che varia in funzione del tipo di minerale
estratto (gas o petrolio) e dell'ubicazione della concessione (terra o mare): per
idrocarburi estratti sulla terra ferma il 10%; per il gas in mare il 7% e, infine, per il
petrolio off shore il 4%.
Sono inoltre previste quote annuali di produzione esenti da royalties.
Minerale Prodotto
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Ubicazione concessione
Quota annuale di produzione esente da royalties
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Aliquota royalty
Olio
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Terra
20.000 tonnellate
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10%
Olio
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Mare
page2image48080 page2image48504 page2image49088 page2image49512
50.000 tonnellate
page2image51448 page2image51872 page2image52888 page2image53312
4%
page2image55680 page2image56104 page2image57120 page2image57544
Gas
Terra
25 milioni di metri cubi
10%
Gas
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Mare
page2image72792 page2image73216 page2image73800
80 milioni di metri cubi
page2image76608 page2image77032 page2image77456
7%
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I TRIBUTI, invece, possono consistere in imposte, tasse o contributi.
L' imposta è costituita dal versamento che l'ente pubblico esige dal contribuente per
far fronte ai costi finanziari della prestazione di servizi a favore della collettività.
La tassa viene pagata dal contribuente come controprestazione di un determinato
servizio reso da un ente pubblico (es.: tassa universitaria, ticket sanitario, ecc.).
Si hanno infine contributi allorché l'ente pubblico, nel prestare un servizio a favore
della collettività, arreca congiuntamente un vantaggio economico particolare,
obiettivamente determinabile, a un determinato individuo che si trova in una
particolare situazione rispetto al servizio pubblico reso operante (P. Armani, F.
Bulckaen, Scienza delle Finanze, Roma, Le Monnier, 1982).
Imposte, tasse e contributi hanno in comune l'elemento caratteristico della coattività
e non costituiscono un prezzo pagato dall'individuo o dalle imprese.

LE ROYALTIES, essendo un corrispettivo che le compagnie pagano allo Stato,
NON APPARTENGONO AD ALCUNA DELLE TRE CATEGORIE. Sono pertanto
estranee al concetto di pressione fiscale.
Cerchiamo di capire perché.
Gli idrocarburi fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c.). E'
lo Stato ad autorizzarne la ricerca ed è sempre lo Stato a concederne il diritto di
coltivazione dietro versamento di un corrispettivo che rappresenta per la
compagnia petrolifera un costo di produzione al pari di tutti gli altri costi legati, ad
esempio, alle attività di ricerca e di trivellazione, di depurazione, ecc..
In quanto costi le royalties sono deducibili fiscalmente, cosa che non sarebbe
consentito fare qualora venisse riconosciuta la loro natura di tributo.
Ad adiuvandum: che non siano inserite tra le voci nel Titolo I delle Entrate di
Bilancio di Previsione di Stato, Regioni e Comuni, e che siano calcolate sul valore
della produzione dovrebbe risultare sufficiente per fugare ogni residua perplessità
circa la loro natura extra-tributaria.
Le royalties, dunque, non rientrano nella misura del prelievo fiscale.

IL FISCO PRIVILEGIA LE IMPRESE OIL & GAS
Del resto, nel calcolo della pressione fiscale che grava su tutte le imprese che non
appartengono al settore Oil & Gas si considerano forse i costi di
approvvigionamento delle materie prime?
In Italia le royalties versate dalle imprese di estrazione varrebbero il 22% della
tassazione complessiva che si attesterebbe a sua volta nell'intorno del 65%
(Confindustria Chieti, Idrocarburi, Dati e Riflessioni su un Settore Strategico, Chieti,
2013).
Depurato di quel 22% delle royalties -che non hanno natura tributaria-, quel 65%
indicato da Confindustria Chieti scende drasticamente al 43%.
Si ricorda che in Italia il dato medio della pressione fiscale che grava sulle imprese
è del 68,3% (elaborazione de Il Sole 24 ORE su dati PwC, Kpmg, Ocse), 25,3 punti
percentuali in più rispetto ai "privilegiati" dell'Oil & Gas.
Questo vuol dire che in uno Stato rapace, che reclama tributi scandinavi in
cambio di servizi inefficienti, inadeguati e scadenti, esistono contribuenti
particolarmente tartassati che versano tasse, imposte e contributi in misura
maggiore rispetto alle imprese estrattive di gas e petrolio.
Inoltre, numerose amministrazioni locali (Pedaso, Porto Sant'Elpidio, Pineto, ecc.)
si sono viste costrette a percorrere i vari gradi di giudizio, con alterne fortune, per
reclamare il versamento delle somme dovute dalle compagnie petrolifere a titolo di
ICI per gli impianti off shore, malgrado la Corte di Cassazione abbia stabilito con
sentenza n. 13794 del 21 febbraio 2005 che "sull'intero territorio dello Stato, ivi
compreso il mare territoriale, convivono e si esercitano i poteri dello Stato
contestualmente ai poteri dell'ente regione e degli enti locali", riconoscendo
pertanto la capacità impositiva dell'ente locale anche sul mare territoriale.
Pochi eletti vorrebbero dunque far valere il principio del "pagare meno noi per far
pagare di più gli altri".

IL PAYOUT TIME DI UN PROGETTO DI ESTRAZIONE DI GAS NATURALE
Non solo. Quale altro settore della nostra acciaccata economia può vantare un
"payout time" (nelle attività di estrazione è il tempo necessario affinché il valore
della produzione di un pozzo copra per intero i costi perforazione, di
funzionamento, le tasse, ecc..) pari agli 8 mesi dichiarati da JKX Italia e cristallizzati
nel Decreto Ministeriale di concessione del titolo per la coltivazione di gas naturale
"Aglavizza"?
Restando nel campo delle attività lecite e, in particolare, nel settore "Energy" (es.:
impianti per la produzione di energia elettrica da fonte solare), si ragiona invece
nell'ordine di 6/7 anni contro gli 8 mesi di "Aglavizza", che nel frattempo potrebbero
essere diventati 10 a causa della diminuzione del prezzo del gas naturale.
Per una centrale a biomasse come quella ipotizzata a Bazzano, ben nota al think
tank aquilano di Confindustria Abruzzo, si viaggia su tempi ancora più lunghi. Forse
perché, tra le altre cose, i costi di approvvigionamento della biomassa
sopravanzano in valore le royalties petrolifere?

IL LIVELLO DELLE ROYALTIES
Difatti, l'altra nota dolens per le compagnie del petrolio e del gas è costituita dal
livello delle royalties in Italia, ritenute alte rispetto allo standard internazionale.
Il benchmark lo si fa, neanche a dirlo, sempre la Norvegia dove, in verità, a fronte
di royalties nulle, il prelievo da tassazione locale per le imprese estrattive è del
78% (Nomisma Energia, Tassazione della Produzione di Gas e Petrolio in Italia: un
confronto), contro il 43% dell'Italia.
Il dato relativo alla tassazione norvegese merita di essere contestualizzato: nel
Paese scandinavo il settore dell'energia è largamente presidiato dallo Stato
ed i proventi del petrolio confluiscono in un Fondo Pensioni Sovrano.
In Italia, invece, le compagnie versano allo Stato corrispettivi (royalties)
risibili soprattutto se rapportati ai quantitativi, limitati e definiti, che è
possibile estrarre dal sottosuolo con metodi convenzionali: sempre JKX Italia
stima la durata del ciclo di vita della concessione "Aglavizza" in massimo 15 anni.
A dare atto dell'esiguità delle royalties sono sia le stesse imprese del settore sia la
loro associazione più rappresentativa; in tempi non remoti, ad esempio, la stessa
Assomineraria (Gianni Bonati, Conferenza OMC, Ravenna, 2 aprile 2004):
"- i canoni superficiali uniformati e sicuramente modesti contribuiscono ad
incentivare gli operatori soprattutto nelle prime e più rischiose fasi della
prospezione e della ricerca (art. 18, D.lgs. 625/96);
- le royalties sulla produzione sono disciplinate in maniera armonizzata e
risultano certamente contenute in rapporto ad altre legislazioni ... omissis ...
- in varie circostanze l’Assomineraria ha prodotto risultati di studi dai quali
risulterebbe che in Italia i costi “industriali” di produzione degli idrocarburi a
testa pozzo, e cioè al netto delle royalties, si pongono nella parte inferiore del
“range” europeo e sono quindi abbastanza competitivi. Tale panorama non
viene sostanzialmente modificato se si tiene conto della fiscalità e, in
particolare, delle royalties".
Più recentemente si è espressa anche la canadese Cygam Energy Inc. che in
Italia controlla Vega Oil S.p.a. e che, con Petroceltic, può fregiarsi di Elsa nell'off-
shore abruzzese oltre che di numerosi titoli nella Po Valley (Italia Oggi, Italia
paradiso fiscale del petrolio, 1 luglio 2010):
"Italia paradiso fiscale del petrolio ... Mini royalty del 4%, franchigia sulla
produzione dei primi 300 mila barili all'anno (per singolo giacimento) ... una
produzione libera da royalties sui primi 822 al giorno, per singolo giacimento ... e
non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti".
A riprova del fatto che nulla è cambiato nel corso degli anni, Giuseppe Rigo,
Interim Presidente and Chief Executive Officer di Cygam Energy Inc., ha
ribadito i medesimi concetti il 17 luglio 2012, in occasione dell'Annual Information
Form fot the Year Ended, December 31, 2011:
"In Italy, for offshore exploration permits, the state royalty on oil production is
4% (which is at the low end of international oil and gas taxation and less than
Canada and the United States), with a provision that no royalties are paid on the

first 300,000 bbls of oil production per year, per field. This represents a royalty-free
production on the first 822 bbls of oil per day, per field. Offshore gas production is
subject to a 7% royalty, but the first 1,750 MMcf per year, per field (or
approximately 4.8 MMcf per day) are also royalty-free. Under the June 26, 2012,
Decree DL83/2012, which is subject to ratification by the Italian Government within
60 days, the current offshore royalty regime will be increased by an additional 3%.
For onshore permits, the state royalty on production of both oil and gas is a
maximum of 10%, with a provision that no royalties are paid on yearly production
less than 125,000 bbls of oil and 700 MMcf of gas, per field (or approximately 340
bbls/d and 1.9MMcf/d) .... and there are no restrictions on repatriation of
profits".

Quanto basta per chiudere un capitolo penosissimo e imbarazzante che,
considerate le serie difficoltà in cui versano famiglie ed imprese, non ha ragione di
esistere.

Enrico Gagliano - Coordinamento Nazionale No Triv