Negli ultimi mesi, il Parlamento inglese è stato impegnato a discutere l’approvazione di un documento di fondamentale importanza per l’assetto dei rapporti tra Regno Unito e Unione Europea: lo European Union Act, che è giunto alla fase finale ricevendo il Royal Assent il 19 luglio 2011, dopo mesi di “ping-pong” tra le due Camere.
L’ultima decisione del Parlamento in materia risale allo European Communities Act del 1972, che introdusse nel sistema giuridico inglese un principio importantissimo: quello della diretta applicabilità del diritto comunitario. L’art. 2 dell’ECA recita: “tutti i diritti, poteri, responsabilità e restrizioni derivanti dai Trattati e tutti i rimedi e le procedura di volta in volta previsti dai Trattati sono, senza necessità di ulteriore promulgazione, efficaci nel Regno Unito e devono essere quindi riconosciuti e applicati”. Indiscussa è la rilevanza di una simile disposizione in un ordinamento giuridico come quello inglese caratterizzato dall’assenza di una Costituzione scritta.
L’adesione della Gran Bretagna al Trattato di Roma è avvenuta proprio attraverso questa legge di recepimento, emanata dal Parlamento al fine specifico di incorporare il Trattato stesso. Ma poiché si tratta di una legge che non ha uno status diverso da quello di ogni altra legge, risulterebbe anch’essa soggetta alla dottrina dell’abrogazione implicita, in forza della quale una legge successiva contenente disposizioni che si pongono in contrasto con una legge anteriore abroga implicitamente quest’ultima. Di opinione diversa è Lord Justice Laws, il quale in occasione del caso Thoburn v. Sunderland City Council - conosciuto anche come “caso dei martiri del sistema metrico” - avanza un’illuminante teoria: secondo Laws, esiste nell’ordinamento giuridico inglese una gerarchia di fonti normative, per cui le leggi che riguardano il rapporto giuridico tra cittadino e Stato o i diritti costituzionali fondamentali, costituiscono una categoria speciale e superiore di leggi (distinte dalle leggi ordinarie), definite “highest laws”, che non possono essere abrogate dal Parlamento e quindi sono immuni anche dalla teoria dell’abrogazione implicita. In questa categoria rietrano la Magna Charta, il Bill of Rights del 1689, l’Act of Union, il Reform Acts. Lo European Communities Act appartiene certamente a questa famiglia: ha inglobato l’intero corpus di diritti e doveri comunitari e ha avuto effetti profondi su tutte le dimensioni della vita quotidiana. L’ECA è, in forza del common law, una legge costituzionale.
Il Regno Unito fa quindi un passo indietro con lo European Union Act 2011.
Il punto nodale della legge è la previsione del ricorso a un referendum popolare nell’ipotesi di proposta di trasferimento di poteri e competenze dalla Gran Bretagna all’Unione Europea attraverso la creazione di un nuovo Trattato o la modifica dei Trattati esistenti. Si mira sostanzialmente a rafforzare le procedure di accettazione o ratifica delle decisioni dell’UE: questo vuol dire che il Governo non potrà trasferire poteri senza il consenso pubblico.
Molti in Gran Bretagna si sono sentiti tagliati fuori dal processo di sviluppo comunitario e dalle decisioni prese in tale ambito in loro nome. Lo EU Act contribuirà, secondo il Governo, a ricostruire la fiducia e a riavvicinare le persone alle decisioni involgenti i rapporti comunitari.
L’Act include anche una discussa Section 18 che ribadisce il preesistente principio per il quale il Parlamento è assoluto e sovrano (“what a sovereign Parliament can do, a sovereign Parliament can always undo”) e che la norma comunitaria produce effetti nel Regno Unito solo in virtù di una legge parlamentare che riconosca ad essa applicabilità ed efficacia diretta.
Il Governo all’inizio aveva sottolineato questo principio e affermato che la Section 18 doveva essere inclusa nel progetto di legge (bill) per affrontare il problema della futura erosione del principio di sovranità parlamentare da parte delle courts. Ma alcuni deputati conservatori hanno notato che l’affermazione del Governo - in base alla quale l’Act rafforza il principio di common law per cui la legge europea produce effetti in Gran Bretagna solo attraverso la volontà del Parlamento e solo in virtù di un atto del Parlamento - contraddice la vera essenza del common law. A questo riguardo, il deputato Bernard Jenkin ha asserito che “the common law is a judge-made law. The judges are its authors and its guardian. They may change it whenever they see fit”. Il Governo dovrebbe coinvolgere più attivamente i giudici sulla base della logica considerazione che, se il Parlamento è sovrano in forza di una decisione delle courts, queste potrebbero facilmente cambiare idea.
La così definita “sovereignty clause” riflette quindi la natura dualistica del modello costituzionale proprio del Regno Unito in base al quale non è accordato alcuno status speciale ai Trattati: i diritti e i doveri in essi contenuti producono effetti nell’ordinamento interno solo attraverso la promulgazione di un’apposita legge che dia ad essi efficacia, sebbene i Trattati dell’UE e le sentenze delle Corti europee prevedano che talune disposizioni dei Trattati, strumenti giuridici e talune sentenze debbano avere applicazione o effetto diretto all’interno di tutti gli Stati membri.
È importante sottolineare che la Section 18 è una clausola declaratoria di una posizione giuridica esistente: i diritti e le obbligazioni assunti dal Regno Unito al momento dell’ingresso nell’Unione Europea rimangono intatti e non c’è pertanto un’alterazione del preesistente rapporto tra fonte comunitaria e legge inglese. In particolare, non viene meno il principio di supremazia del diritto europeo, sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia prima dell’ingresso del Regno Unito nella Comunità Europea (vedi sentenza n. 6/64 Costa v. ENEL); il Parlamento ha accettato questo principio promulgando lo European Communities Act del 1972. Nella sua opinione a proposito del caso R v. Secretary of State for Transport, ex p. Factortame (No. 2), Lord Bridge afferma: “secondo quanto stabilito dalla legge del 1972, è sempre stato chiaro che le courts britanniche, all’esito del giudizio, dovessero ignorare le norme di diritto nazionale che risultassero in contrasto con qualsiasi norma del diritto comunitario direttamente applicabile; ugualmente, quando le decisioni della Corte di Giustizia hanno riguardato settori della legislazione britannica, il Parlamento ha sempre lealmente accettato l’obbligo di apportare modifiche rapide e appropriate”.
Queste affermazioni evidenziano i limiti intrinseci della clausola 18 di fronte a due diverse rivendicazioni di sovranità, una nazionale e l’altra sovranazionale.
In realtà, l’idea di una sovereignty clause nel contesto delle relazioni con l’Unione Europea non è nuova. Una simile proposta fu avanzata durante il processo di approvazione dello European Communities Act 1972. Il Governo di allora si oppose a quest’idea e chiese il rigetto della clausola stessa.
Ora non resta che vedere quali saranno le conseguenze dell’Act nel contesto dell’Unione. Certo è che la diatriba tra Euroscettici più incalliti e Pro-Europeans non è destinata a dissolversi.
ELEONORA CHIERICI
(Londra, 27 luglio 2011)
(Londra, 27 luglio 2011)
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