giovedì 29 settembre 2011

Crisi dell’euro, crisi della politica

Non più di 20 giorni fa, Angela Merkel ha dichiarato: “Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa; la moneta unica è l’unica garanzia dell’unità europea”. Queste parole, pronunciate dalla Cancelliera tedesca dinanzi al Bundestag, offrono qualche spunto per riflettere sulle ragioni della crisi, che, da qualche tempo, colpisce tutti noi. Una crisi che, prima ancora di essere economica e finanziaria (almeno per i Paesi dell’Eurozona), è crisi della democrazia rappresentativa; disfacimento di un modello rimasto per cinquant’anni in bilico tra grandi speranze e cocenti delusioni. Come sta a provare - semmai ve ne fosse bisogno - la lettera inviata dalla BCE al Governo italiano il 5 agosto scorso e resa pubblica oggi dal Corriere della sera: un vero programma politico. Ma procediamo con ordine.
Nel 1946, nel celeberrimo discorso di Zurigo sulla “cortina di ferro che si stendeva sull’Europa da Trieste a Stettino”, Winston Churchill rilanciò l’idea della creazione degli Stati Uniti d’Europa. Poi, nei primi anni ’50, giunse il primo stop all’unificazione europea; quando, cioè, i sei membri delle Comunità europee di allora – in ragione dei timori nutriti dagli USA per la nascita di un terzo polo militare parallelo a quello della Nato – abbandonarono l’idea di dar vita alla CED (Comunità Europea di Difesa). Un progetto a dir poco ambizioso, che avrebbe sospinto l’Europa verso un processo di maggiore federalizzazione; un sistema indirizzato all’integrazione delle economie e alla nascita di una difesa comune; un blocco capace di giocare un ruolo di primo piano nella contesa mondiale tra Nato e Patto di Varsavia.
Non è un caso che negli USA tra le principali competenze della Federazione vi sia proprio quella della “difesa comune”; la quale, unitamente alla politica estera (oggi in Europa quasi inesistente o ancora carente), costituisce normalmente uno dei tratti peculiari del federalismo (classico).
L’idea di Pleven, federalista convinto, di dotare l’Europa di una difesa comune (costituita dagli eserciti degli Stati membri) non trovò sponde convincenti; ed anzi venne rigettata con forza dalla Francia e dalla Germania, con l’argomento che la CED avrebbe potuto inasprire i rapporti tra gli Stati durante la guerra fredda. Sarebbe stato meglio – si disse – procedere alla sola integrazione delle economie. Una scelta di cui oggi paghiamo l’alto prezzo.
L’incapacità della classe politica di allora di creare un soggetto autenticamente politico avrebbe portato nel ventennio successivo alla c.d. “crisi della sedia vuota”: da quel momento in poi, in ragione delle resistenze opposte dagli Stati membri – gelosi della propria sovranità – il processo di integrazione europea si sarebbe avvitato su se stesso.

In un libro del 1971, dal titolo “Europa Federazione incompiuta”, Walter Hallstein scriveva: “ma quali sono gli oggetti dell’unione politica? La politica di difesa e la politica estera comune sembrano accettate da tutti coloro che approvano l’idea fondamentale dell’unità politica ”.
Con queste poche parole Hallstein sottolineava come il principale ostacolo all’unificazione politica fosse il mantenimento in capo agli Stati membri della politica estera e della difesa. Parole davvero profetiche, visto che quarant’anni dopo la situazione è rimasta pressoché immutata.
Nell’affaire Libia, l’Europa, una volta ancora, si è frantumata in una miriade di posizioni; e così è stato ancor più recentemente, in merito al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in seno all’ONU.
In relazione all’intervento militare in Libia, si è visto come, senza voler indagare le dinamiche e gli interessi geo-economici ad esso sottesi, gli Stati membri abbiano percorso strade differenti. Se la Germania ha assunto posizioni iniziali di prudenza, la Francia è risultata essere la potenza maggiormente “interventista”, prima fra tutte a riconoscere il Consiglio nazionale provvisorio degli insorti. Al suo fianco la Gran Bretagna; mentre l’Italia, con buona pace degli accordi stretti con la Libia, ha, ad un tempo, sostenuto l’intervento militare fornendo le basi per le operazioni aeree e praticato una politica di ricercata equidistanza tra le parti, anche in ragione dei rapporti intrattenuti fino a quel momento con Gheddafi.
Sul caso OLP, le posizioni oscillano tra il no secco di GB e USA ed il possibilismo franco-tedesco, incline ad un riconoscimento di uno status non molto dissimile da quello goduto da Città del Vaticano: una presenza in seno all’ONU in qualità di Osservatore permanente.
Quello della politica estera e della difesa europea è il principale nodo da sciogliere; non certo l’unico. Perché l’arrivo del nuovo millennio ha portato con sé inediti problemi. In primo luogo l’allargamento dell’Unione europea a 27 Stati, giacché alle molte difficoltà esistenti in seno all’Europa dei 15 se ne sono aggiunte altre, determinate dalle differenze strutturali (economiche, politiche e giuridiche) proprie degli Stati ex satelliti dell’URSS. Sarebbe stato più prudente favorire un loro ingresso graduale nell’Unione europea. E forse – in luogo di una cooperazione rafforzata – sarebbe stato più saggio istituire una Federazione tra gli Stati membri di più lungo corso (sciogliendo in questo modo i nodi irrisolti dell’integrazione politica) e favorire, al contempo, un sistema di tipo confederativo per gli Stati candidati all’ingresso nell’Unione. Un’Europa a due velocità. Questa volta sì.

Ma i nodi irrisolti restano tali. E riguardano proprio la democrazia, cui si faceva cenno più sopra. Il Parlamento europeo, i cui membri sono eletti a suffragio universale e diretto, è dotato di scarsissimi poteri, solo in parte accresciuti dal recente Trattato di Lisbona. Non è un caso che detto Trattato abbia inteso rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali e, cioè, colmare – almeno in parte – il c.d. “deficit democratico”. Perché l’Unione europea resta – soprattutto agli occhi dei cittadini – un sistema di burocrati e tecnocrati, ove l’unico organo davvero rappresentativo non ha voce in capitolo in ordine alle politiche che l’Unione intende perseguire. Anche qui: un autentico soggetto politico (federale) dovrebbe porre al centro del suo sistema non tanto (o non solo) l’economia, ma (soprattutto) la politica. Il fallimento della Costituzione europea prova come questa strada sia assolutamente ardua da praticare. I referendum di Francia e Olanda hanno dimostrato quanto diffuso sia il sentimento antieuropeista; forse anche in ragione della distanza che corre tra la vita quotidiana del cittadino e le decisioni prese dalle Istituzioni dell’Unione. Un vuoto che il principio di sussidiarietà non può colmare se non in parte. Un senso di estraneità che apre a facili giustificazioni e che porta la classe politica nazionale sovente a dichiarare: “sono misure richieste dall’Europa”. Come se in Europa non ci fossimo anche noi. Come se vi fossero ancora aspetti della vita non colpiti dai provvedimenti dei tecnocrati dell’Unione. Anche per questo, forse, si auspica da più parti un ritorno al localismo.

Ad oggi, l’unica vera unificazione effettivamente realizzatasi è quella monetaria, grazie all’introduzione della moneta unica. L’euro, i suoi tassi, la politica monetaria, sono gestiti dalla Banca centrale europea, di proprietà delle banche nazionali, a loro volta di proprietà (spesso se non soprattutto) di privati. Ma una moneta che non sia accompagnata da una pianificazione industriale e commerciale comune è un mero strumento in balia delle fluttuazioni e degli scossoni dei mercati. Il progetto di moneta unica mirava a creare un polo economico forte da contrapporre al dollaro statunitense, capace di proliferare nel mondo con l’utilizzo – negli scambi commerciali anche tra Paesi extraeuropei – dell’euro in luogo del dollaro. Questo progetto, ambizioso quanto importante, è (ad oggi) naufragato sotto le ineliminabili contraddizioni sottese all’Unione europea. Non può, infatti, divenire egemone ed affermarsi una moneta gestita da tecnocrati, ove la guida politica risulti assente o debole, imbrigliata nella ricerca di estenuanti mediazioni tra gli Stati membri.
Capisaldi di un sistema statuale, o nel caso di specie federale, sarebbero la politica estera e la difesa comune, l’adozione di una Costituzione europea (vera e non di facciata), l’introduzione di un sistema che accordi al Parlamento europeo poteri decisionali sulle politiche dell’Unione (in materia infrastrutturale, economica, commerciale, sanitaria e previdenziale, ecc.). Un sistema cui al momento si cerca solo in parte di ovviare attraverso il ricorso alla procedura legislativa ordinaria (ex procedura di codecisione). Ma è solo un modo di temporeggiare, di prendere tempo. Perché presto l’Unione europea si troverà di fronte ad un bivio: accettare il fallimento di cui parla oggi Angela Merkel oppure adottare un sistema istituzionale, che sia autonomo politicamente ed anche autenticamente federale.


CARLO ALBERTO CIARALLI

venerdì 23 settembre 2011

A proposito del regolamento sulle videoregistrazioni approvato dal Comune di Casalbordino

Trovo particolarmente interessante il dibattito relativo alla possibilità di videoregistrare e diffondere le sedute del Consiglio comunale, così come d’ogni altra assemblea democratica.
Il Comune di Casalbordino, per mezzo dell’approvazione di uno specifico Regolamento, ha offerto uno spunto efficace per attualizzare il tema ed affrontarlo seriamente.
Sono completamente in sintonia con l’opinione del prof. Di Salvatore, il quale solleva delle criticità e dei problemi difficilmente superabili, in un’ottica di effettiva tutela delle libertà e dei diritti costituzionalmente garantiti.
Non condivido la decisione del T.A.R. del Veneto, peraltro irritualmente riportata tra le premesse dell'Atto consiliare, mentre ritengo più apprezzabili i pronunciamenti di altri Tribunali amministrativi, cui pure il prof. Di Salvatore ha fatto cenno.
Encomiabile lo sforzo di alcuni dei consiglieri più giovani di ottenere la più ampia diffusione dei lavori dell’Assemblea comunale, così com’è comprensibile la necessità avvertita dagli altri loro colleghi di tutelare la dignità dell’Organo.
Il punto è che entrambe le necessità potrebbero "coabitare" in un giusto regolamento, ove il rispetto dell’una non escluda necessariamente l’altra.
Il testo definitivamente approvato, invece, parrebbe sacrificare oltremodo la pubblicità dei lavori consiliari a scapito di un giusto diritto d’informazione e di un efficace controllo sulla "condotta politica" dei consiglieri.
L’elezione in seno ad un’assemblea importante, qual è il consiglio comunale, dovrebbe richiamare i consiglieri a prestare particolare attenzione alla circostanza che i cittadini hanno affidato loro il compito di gestire la "cosa pubblica" con la pretesa di controllare, passo per passo, l’operato degli amministratori: parametro indispensabile per poterli giudicare politicamente all'esito del mandato e, più in generale, per poter verificare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione, così come invocato dalla nostra Carta costituzionale (art. 97).
Ciò significa che i lavori dell’Assemblea andrebbero pubblicizzati il più possibile.
È pur vero che questo compito potrebbe essere assolto da un sistema di videoregistrazione gestito direttamente dal Comune (art. 1, comma 2 Reg.); con ciò scongiurando che vengano videoripresi i consiglieri non impegnati negli interventi (a tutela delle loro libertà e anche per non spettacolarizzare inutilmente gli eventuali confronti - o addirittura i possibili scontri - tra i diversi componenti dell’Assemblea), ma la formulazione del citato comma 2 dell’art. 1 rischia di mostrarlo particolarmente premuroso per il "maquillage" del consiglio e molto poco per l’effettiva pubblicità dei lavori.
La disposizione afferma che le riprese saranno effettuate direttamente dal personale comunale o da altro appositamente incaricato ed il Comune potrà (NON dovrà) diffonderle sul web o su rete televisiva. Ciò postula che, del tutto arbitrariamente, gli amministratori decideranno cosa rendere più fruibile e cosa meno, a seconda della convenienza.
Se, invero, un cittadino volesse giudicare cosa è avvenuto nel corso di una specifica seduta consiliare non diffusa via web o in TV, dovrebbe mettere in moto la macchinosa procedura d’accesso agli atti amministrativi per ottenere, a sue spese, copia dei filmati.
Ovviamente, tutto ciò limita drasticamente la fruibilità delle videoriprese.
Maldestra, infine, anche la formulazione dell’ultimo periodo del comma 2 del già citato articolo 1, il quale vieta "al consigliere comunale" di pubblicizzare sul proprio sito internet il materiale documentale ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni. Ovviamente, di questo non può che darsi un’interpretazione conforme alla legge. Per cui il consigliere non dovrebbe poter pubblicare soltanto gli atti che, per legge, sono segreti (quelli cioè evocati dall’ultimo periodo del comma 2 dell'art. 43 del TUEL, non anche quelli di cui al primo periodo del medesimo comma).
Stante l’ambiguità della disposizione, tuttavia, riterrei utile un chiarimento da parte del Consiglio.
Una interpretazione più restrittiva vanificherebbe non soltanto il diritto all’informazione, ma anche alla libertà del Consigliere di autodeterminarsi e svolgere il proprio dovere per mezzo degli strumenti che, nella propria autonomia, egli ritiene siano più opportuni ed efficaci.
Nessuno può limitare i diritti del consigliere, come garantiti dalla legge: neppure una deliberazione del Consiglio comunale.

ANDREA CERRONE

mercoledì 21 settembre 2011

Le riprese audiovisive in Consiglio comunale

1. Il 22 settembre prossimo, il Consiglio comunale di Casalbordino deciderà se adottare un “regolamento sulla disciplina delle audio/videoregistrazioni e trasmissione delle sedute pubbliche del Consiglio comunale”. La bozza di regolamento non è ovviamente disponibile. Ma nella seduta del 29 agosto scorso, il sindaco di Casalbordino ha avuto modo di affrontare l’argomento, distribuendo per l’occasione una “nota” e dandone pubblica lettura: la questione concerneva l’autorizzazione alla ripresa audio e video della seduta del Consiglio e la successiva pubblicazione su un blog da parte di un Consigliere comunale. A sostegno del diniego opposto alle riprese audio e video, il Sindaco si è richiamato ad una recente sentenza del TAR Veneto (16 marzo 2010, n. 826). Con questa pronuncia, il giudice amministrativo ha dato torto ad un Gruppo consiliare e ad un’Associazione del Comune di Stra (Venezia), che chiedevano di poter filmare le sedute del Consiglio comunale e di poterne divulgare successivamente le immagini.
Non è certo questa la sede per discutere nel dettaglio la pronuncia citata (o altre più recenti decisioni, che, in verità, giungono a conclusioni del tutto opposte a quelle del TAR Veneto: v. ordinanza del TAR Catania dell’8 luglio 2011); tuttavia, quella pronuncia, richiamata dal Sindaco di Casalbordino, mi dà l’occasione per svolgere alcune considerazioni sul tema.

2. Dal punto di vista costituzionale, la possibilità di effettuare riprese audiovisive (e di diffondere successivamente quanto filmato) si configura come un autentico diritto di libertà: quello di informare liberamente chiunque, come stabilito dall’art. 21 della Costituzione. Eventuali limiti al diritto di informazione non possono che promanare dalla Carta costituzionale. L’informazione, pertanto, è vietata nel caso in cui leda il buon costume o nell’ipotesi in cui violi le altre libertà fondamentali, tutelate anch’esse dalla Costituzione. Anche ammesso che la questione investa il diritto alla riservatezza – come sembra postulare il TAR – dovrebbe comunque ritenersi quanto segue: il diritto all’informazione è tutelato direttamente in Costituzione (art. 21 Cost.); il diritto alla privacy – almeno nei termini evocati dal TAR e dal Consiglio comunale di Casalbordino – è tutelato solo dalla legge. E poiché la Costituzione prevale gerarchicamente sulla legge, nel caso in cui dovesse profilarsi una ipotesi di conflitto tra i due diritti, la manifestazione del pensiero non potrebbe essere sacrificata sull’altare della privacy. Questo discorso non vale ovviamente per i casi in cui la riservatezza si accompagni all’esercizio di altre libertà costituzionali (quali ad es. la comunicazione e la corrispondenza o il domicilio).

3. È comunque sorprendente che nella sua sentenza il TAR Veneto non avverta mai la necessità di richiamarsi all’art. 21 della Costituzione. Se non un’unica volta; in una citazione, che, però, è presa di peso da un parere dell’Autorità Garante del 2002. Il giudice amministrativo, a dirla tutta, parrebbe mosso da tutt’altra preoccupazione: quella di verificare se la richiesta del Gruppo consiliare sia legittima dal punto di vista del diritto alla privacy, disciplinato (in vario modo) da più atti normativi. Parrebbe, lo si ripete. Giacché nella pronuncia la questione del trattamento dei dati personali delle persone fisiche tende a sovrapporsi continuamente ad altre questioni: ad esempio all’esigenza di garantire “l’intrinseco decoro dello stesso organo consiliare”, che non consentirebbe al consigliere di “tramutarsi sistematicamente in cineasta e riprendere i colleghi, a proprio piacimento, durante le sedute del Consiglio”, senza con ciò non scadere in una “riprovevole spettacolarizzazione della politica”. Come siamo messi.
Ma seguiamo pure la linea interpretativa del diritto alla privacy: si converrà che il problema lambisce solo in parte (e non principalmente) la questione della riservatezza, in quanto, per definizione, l’esercizio di una funzione pubblica mal si accorda con l’idea che la funzione stessa possa essere svolta in modo “riservato”. Qui il decoro dell’ente o la privacy del Consigliere c’entrano ben poco. E solo in casi eccezionali sarebbe, dunque, legittimo impedire che chiunque diffonda quanto pubblicamente si discute e decide in seno al Consiglio. Per esempio quando si affrontino questioni che involgono “dati sensibili” delle persone fisiche o giuridiche. Ciò non toglie, ovviamente, che il Sindaco possa vietare le riprese audiovisive, quando si tratti di garantire lo svolgimento pacifico dei lavori. Ma una volta che questo rischio non sussista – perché ad es. la ripresa è effettuata da postazione fissa, senza operatori, ecc. – ogni limitazione del diritto risulterebbe illegittima.

4. La soluzione che al problema danno il TAR Veneto e il Sindaco di Casalbordino non può essere condivisa. Essi infatti sembrano propensi a generalizzare il divieto attraverso le previsioni del regolamento comunale. Nella sentenza del giudice e nella nota del Sindaco si evocano in proposito diversi atti normativi; e, tra questi, il Testo Unico sugli Enti locali del 2000. Il quale, all’art. 10, stabilisce: “tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale sono pubblici, ad eccezione di quelli riservati per espressa indicazione di legge o per effetto di una temporanea motivata dichiarazione del Sindaco o del Presidente della provincia che ne vieta l’esibizione, conformemente a quanto previsto dal regolamento, in quanto la loro diffusione possa pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o delle imprese”.
Ebbene, se si ritenesse che il regolamento del Consiglio possa vietare in modo generalizzato la diffusione attraverso il web o la stampa di documenti, filmati, immagini, ecc., l’art. 10 sarebbe per certo illegittimo, pocihé solo la legge potrebbe recare una disciplina della libertà di informazione (e non il regolamento del Consiglio, che è un atto amministrativo). In questa prospettiva, allora, il TAR Veneto avrebbe dovuto procedere diversamente; ossia: sospendere il giudizio in corso e investire della questione la Corte costituzionale.

ENZO DI SALVATORE

giovedì 8 settembre 2011

La Regione Abruzzo e le IPAB: quando ridurre la spesa pubblica ha un costo

Nella seduta del primo settembre scorso, il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare dinanzi alla Corte costituzionale la legge n. 17/2011 della Regione Abruzzo. Con detta legge, approvata nel giugno di quest’anno, il Consiglio regionale si è proposto di riordinare il sistema delle IPAB (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza), dando con ciò seguito a quanto richiesto dal Legislatore statale negli anni 2000 e 2001. In questo modo, si è stabilito che le oltre 100 IPAB abruzzesi dovessero estinguersi oppure trasformarsi in ASP (Aziende Pubbliche di Servizi alla persona) o anche in “soggetti aventi personalità giuridica di diritto privato senza scopo di lucro”. Un obiettivo forse non del tutto incomprensibile, in quanto apertamente indirizzato a razionalizzare il settore dei servizi sociali e a ridurne la spesa pubblica. Il fatto singolare, però, è che nel suo ricorso il Governo sostiene che la legge della Regione violi i principi di coordinamento della finanza pubblica (la cui disciplina è dalla Costituzione riservata in via esclusiva allo Stato). Cioè, a dire: la legge della Regione, che ha per obiettivo il contenimento della spesa pubblica, si porrebbe in contrasto con i principi di contenimento della spesa pubblica.
In un’intervista rilasciata qualche giorno fa ad una emittente televisiva locale, l’Assessore regionale alle Politiche sociali Gatti ha, tuttavia, definito l’impugnazione del governo come “cautelativa” e solo relativa a “questioni di carattere tecnico”. Questa lettura della vicenda mi lascia piuttosto perplesso. Anzitutto perché l’impugnazione non ha in sé nulla di “cautelativo”, ma si configura come un autentico ricorso ai sensi dell’art. 127 della Costituzione. In secondo luogo, perché l’impugnazione non è sostenuta da censure di carattere “tecnico”, se con questa espressione si vuol intendere che la legge sia illegittima per vizi di forma o per trascurabili dettagli, che appassionano solo gli addetti ai lavori. La legge della Regione dispone, infatti: che le IPAB, in attesa di riordino, non possano procedere a nuove assunzioni … a meno che ciò non sia necessario; che le ASP, una volta costituite, siano tenute ad utilizzare il personale già in servizio presso le IPAB, senza possibilità di assumere altro personale … a meno che ciò non sia necessario; che qualora si debba procedere a nuove assunzioni, le ASP possano farlo “mediante specifiche selezioni” (con ciò violando non solo i principi di coordinamento della finanza pubblica, ma – secondo il Governo – anche il principio che impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso pubblico, ex art. 97 della Costituzione); che al Presidente (nominato dalla Giunta regionale su proposta dell’Assessore alle Politiche sociali) e a ciascun componente del Consiglio di amministrazione dell’azienda sia corrisposta un’indennità annua lorda: per quanto concerne il Presidente, per un importo non superiore “al venti per cento dell’indennità base spettante ai Direttori Generali delle Aziende USL dell’Abruzzo”; per quanto riguarda i consiglieri, per un importo “pari al sessanta per cento di quella spettante al Presidente”.
Non proprio un dettaglio, come si vede. Soprattutto in considerazione del fatto che la legge dello Stato vuole che “la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione”, sia “onorifica” e che possa dar luogo solo al rimborso delle spese sostenute. O, tutt’al più, alla corresponsione di un gettone di presenza, che non superi i 30 euro a seduta giornaliera.

ENZO DI SALVATORE