giovedì 12 giugno 2014

La revisione costituzionale del Governo Renzi: come uccidere la democrazia in Italia

L’epurazione di Corradino Mineo dalla Commissione Affari Costituzionali è solo l’ultimo segnale del modo in cui il Governo intende procedere alla revisione costituzionale: con la tracotanza di chi non ammette critiche e osservazioni, né esterne né interne.
Se è già un’anomalia politica che sia il Governo e non il Parlamento a incaricarsi della revisione costituzionale, è allarmante il fatto che siano già due i senatori sostituiti in Commissione perché pretendevano di discutere il testo che l’Esecutivo intende evidentemente blindare.
Ancor più gravi le reazioni della ministra Boschi e del premier Renzi all’autosospensione di altri 13 senatori seguita all’epurazione di Mauro e Mineo: non si accettano veti e si procederà comunque senza di loro.
Ma in che cosa consistono queste sbandierate RIFORME, presentate dai media come uno scatolone vuoto, e che Renzi continua a garantire ai partner internazionali da quando è diventato premier? Si tratta in buona sostanza, come spieghiamo nel testo che segue, di un depotenziamento delle Regioni e del Senato a vantaggio del Governo, o meglio dell’attuale “governo del fare”; un vero “cavallo di Troia” per consentire i tanto invocati “investimenti stranieri”, ossia la realizzazione in Italia di progetti che minacciano i nostri territori, a cominciare da quelli petroliferi, su cui negli ultimi tempi è partita un’offensiva mediatica, e impedire che i territori possano avere voce sulla realizzazione di “infrastrutture strategiche”, denominazione sotto la quale si potranno far rientrare dalla finestra progetti di “grandi opere” che enti territoriali e cittadini hanno cacciato dalla porta.

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Il disegno di legge di revisione della Costituzione  presentato dal Governo Renzi interviene su due questioni principali: il bicameralismo e l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni.
Quello che il Governo si propone di fare è privare la Seconda Camera della possibilità di accordare e revocare la fiducia al Governo, nonché di votare il bilancio dello Stato, e concentrare, essenzialmente, l’attività legislativa nelle mani della sola Camera dei deputati, posto che in futuro il Senato potrà proporre sì modifiche ai progetti di legge, ma la Camera dei deputati potrà sempre non conformarsi ai suggerimenti da esso elaborati.
Evocare un ruolo di garanzia e controllo per la Seconda Camera – come auspica Stefano Rodotà – al fine di scongiurare che il Senato sia “condannato all’irrilevanza” – evidentemente non basta. La riforma della Seconda Camera e la riforma del Titolo V della Costituzione sono, infatti, tra loro strettamente collegate: alla perdita di competenza che le Regioni subirebbero non si individua alcun serio rimedio, atteso che una loro effettiva partecipazione alla legislazione dello Stato in seno al Senato sarebbe di ben poco rilievo.
In questa prospettiva, inaccettabile è, allora, la riforma dell’assetto delle competenze legislative proposto dal Governo, in quanto essa andrebbe in ogni caso a vantaggio dello Stato, decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni culturali e paesaggistici, delle norme generali sulle attività culturali, del turismo, della produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia, delle norme generali sul governo del territorio, delle infrastrutture strategiche, solo per fornire alcuni esempi.
La ragione che si intravede dietro la proposta avanzata è quella di impedire che le Regioni possano legiferare su tali materie. Con buona pace di talune garanzie che la Corte costituzionale aveva individuato proprio in favore delle autonomie territoriali.
Basti pensare alla materia energetica.
Sebbene la riforma costituzionale del 2001 abbia attribuito l’energia alla competenza concorrente dello Stato e della Regione, la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa sì disciplinare per intero la materia in presenza di interessi di carattere unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento dell’intesa. L’intesa della Regione, infatti, si configura come una sorta di compensazione per la “perdita” di competenza dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Con il disegno di legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece, meno. In questo modo, i progetti energetici potrebbero non richiedere più l’assenso della Regione. Si pensi alla miriade di progetti petroliferi che il Governo ha in serbo di realizzare in Basilicata, in Abruzzo o in Campania: in questi e in altri casi lo Stato farà sicuramente da sé.
A ciò si aggiunga che il disegno di legge licenziato dal Governo stabilisce che persino sulle materie lasciate alla competenza delle Regioni lo Stato possa intervenire in ogni tempo, quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o la tutela dell’unità economica della Repubblica o la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale. In questo modo, nessuna delle materie di competenza regionale resterà immune dall’intervento statale.
Quello che, in verità, il Governo si propone di fare è depotenziare il ruolo che le autonomie territoriali godono entro il sistema costituzionale della Repubblica. E certamente non già perché – come ha affermato il Presidente Renzi – sia “cambiato il clima nei confronti delle Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché  l’attività delle Regioni – intese come “macro Stati che pensano di poter governare tutto” (parole dello stesso Renzi) – sarebbe d’intralcio all’operato del “governo del fare”.
Proposito, questo, reso ancor più grave dal fatto che – come si apprende in questi giorni dai quotidiani – il Governo sarebbe alla spasmodica ricerca di una convergenza sul testo da parte delle forze politiche di opposizione, al fine di evitare che sulla revisione deliberata possa poi richiedersi il referendum costituzionale.
Il livello della discussione pubblica è sconfortante: nessuno sembra chiedersi più come mai la nostra Costituzione ha inteso informare la struttura della Repubblica al principio del decentramento politico-istituzionale. Noi lo vorremmo ricordare con le parole che Carlo Esposito – esimio Maestro del diritto costituzionale – ebbe a pronunciare nel lontano 1954: “la coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce, nella nostra Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un utile strumento di buona legislazione ed amministrazione”. Essi “incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato” e costituiscono “per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà”.


Anna Lucia Bonanni, Enzo Di Salvatore, Domenico Finiguerra, Domenico Gattuso, Roberto Mancini, Ivano Marescotti, Teresa Masciopinto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Gigi Richetto

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