L’epurazione di Corradino Mineo dalla Commissione Affari
Costituzionali è solo l’ultimo segnale del modo in cui il Governo intende
procedere alla revisione costituzionale: con la tracotanza di chi non ammette
critiche e osservazioni, né esterne né interne.
Se è già un’anomalia politica che sia il Governo e non il Parlamento
a incaricarsi della revisione costituzionale, è allarmante il fatto che siano
già due i senatori sostituiti in Commissione perché pretendevano di discutere
il testo che l’Esecutivo intende evidentemente blindare.
Ancor più gravi le reazioni della ministra Boschi e del premier Renzi
all’autosospensione di altri 13 senatori seguita all’epurazione di Mauro e
Mineo: non si accettano veti e si procederà comunque senza di loro.
Ma in che cosa consistono queste sbandierate RIFORME, presentate dai
media come uno scatolone vuoto, e che Renzi continua a garantire ai partner
internazionali da quando è diventato premier? Si tratta in buona sostanza, come
spieghiamo nel testo che segue, di un depotenziamento delle Regioni e del
Senato a vantaggio del Governo, o meglio dell’attuale “governo del fare”; un
vero “cavallo di Troia” per consentire i tanto invocati “investimenti
stranieri”, ossia la realizzazione in Italia di progetti che minacciano i
nostri territori, a cominciare da quelli petroliferi, su cui negli ultimi tempi
è partita un’offensiva mediatica, e impedire che i territori possano avere voce
sulla realizzazione di “infrastrutture strategiche”, denominazione sotto la
quale si potranno far rientrare dalla finestra progetti di “grandi opere” che
enti territoriali e cittadini hanno cacciato dalla porta.
*****
Il disegno di legge di revisione
della Costituzione presentato dal
Governo Renzi interviene su due questioni principali: il bicameralismo e
l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni.
Quello che il Governo si propone di fare è privare la Seconda Camera
della possibilità di accordare e revocare la fiducia al Governo, nonché di
votare il bilancio dello Stato, e concentrare, essenzialmente, l’attività
legislativa nelle mani della sola Camera dei deputati, posto che in futuro il Senato
potrà proporre sì modifiche ai progetti di legge, ma la Camera dei deputati
potrà sempre non conformarsi ai suggerimenti da esso elaborati.
Evocare un ruolo di garanzia e
controllo per la Seconda Camera – come auspica Stefano Rodotà – al fine di scongiurare che il Senato sia
“condannato all’irrilevanza” – evidentemente non basta. La riforma della
Seconda Camera e la riforma del Titolo V della Costituzione sono, infatti, tra
loro strettamente collegate: alla
perdita di competenza che le Regioni subirebbero non si individua alcun serio
rimedio, atteso che una loro effettiva partecipazione alla legislazione
dello Stato in seno al Senato sarebbe di ben poco rilievo.
In questa prospettiva,
inaccettabile è, allora, la riforma
dell’assetto delle competenze legislative proposto dal Governo, in quanto
essa andrebbe in ogni caso a vantaggio
dello Stato, decisore unico delle sorti dell’ordinamento locale, dei beni
culturali e paesaggistici, delle norme generali sulle attività culturali, del
turismo, della produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia,
delle norme generali sul governo del territorio, delle infrastrutture
strategiche, solo per fornire alcuni esempi.
La ragione che si intravede
dietro la proposta avanzata è quella di impedire
che le Regioni possano legiferare su tali materie. Con buona pace di talune
garanzie che la Corte costituzionale aveva individuato proprio in favore delle
autonomie territoriali.
Basti pensare alla materia energetica.
Sebbene la riforma costituzionale
del 2001 abbia attribuito l’energia alla competenza concorrente dello Stato e
della Regione, la Corte costituzionale ha da tempo sostenuto che lo Stato possa
sì disciplinare per intero la materia in presenza di interessi di carattere
unitario, ma a condizione che alle Regioni sia lasciata la possibilità di
esprimersi sulle scelte energetiche effettuate a Roma attraverso lo strumento
dell’intesa. L’intesa della Regione, infatti, si configura come una sorta di
compensazione per la “perdita” di competenza dovuta alla decisione dello Stato
di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica. Con il disegno di
legge di revisione costituzionale questa (implicita) garanzia verrà, invece,
meno. In questo modo, i progetti
energetici potrebbero non richiedere più l’assenso della Regione. Si pensi
alla miriade di progetti petroliferi che il Governo ha in serbo di realizzare
in Basilicata, in Abruzzo o in Campania: in questi e in altri casi lo Stato
farà sicuramente da sé.
A ciò si aggiunga che il disegno
di legge licenziato dal Governo stabilisce che persino sulle materie lasciate
alla competenza delle Regioni lo Stato possa intervenire in ogni tempo, quando
lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o la tutela dell’unità economica
della Repubblica o la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali
di interesse nazionale. In questo modo, nessuna
delle materie di competenza regionale resterà immune dall’intervento statale.
Quello che, in verità, il Governo si propone di fare è depotenziare il ruolo che le autonomie territoriali godono entro il
sistema costituzionale della Repubblica. E certamente non già perché – come
ha affermato il Presidente Renzi – sia “cambiato il clima nei confronti delle
Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai
rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è
un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più
in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché l’attività delle Regioni – intese come “macro
Stati che pensano di poter governare tutto” (parole dello stesso Renzi) –
sarebbe d’intralcio all’operato del “governo del fare”.
Proposito, questo, reso ancor più
grave dal fatto che – come si apprende in questi giorni dai quotidiani – il Governo sarebbe alla spasmodica ricerca
di una convergenza sul testo da parte delle forze politiche di opposizione, al
fine di evitare che sulla revisione deliberata possa poi richiedersi il
referendum costituzionale.
Il livello della discussione
pubblica è sconfortante: nessuno sembra
chiedersi più come mai la nostra Costituzione ha inteso informare la struttura
della Repubblica al principio del decentramento politico-istituzionale. Noi
lo vorremmo ricordare con le parole che Carlo
Esposito – esimio Maestro del diritto costituzionale – ebbe a pronunciare
nel lontano 1954: “la coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce, nella nostra
Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un utile strumento
di buona legislazione ed amministrazione”. Essi “incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato” e
costituiscono “per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia
di democrazia e di libertà”.
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