Non più di 20 giorni fa, Angela Merkel ha dichiarato: “Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa; la moneta unica è l’unica garanzia dell’unità europea”. Queste parole, pronunciate dalla Cancelliera tedesca dinanzi al Bundestag, offrono qualche spunto per riflettere sulle ragioni della crisi, che, da qualche tempo, colpisce tutti noi. Una crisi che, prima ancora di essere economica e finanziaria (almeno per i Paesi dell’Eurozona), è crisi della democrazia rappresentativa; disfacimento di un modello rimasto per cinquant’anni in bilico tra grandi speranze e cocenti delusioni. Come sta a provare - semmai ve ne fosse bisogno - la lettera inviata dalla BCE al Governo italiano il 5 agosto scorso e resa pubblica oggi dal Corriere della sera: un vero programma politico. Ma procediamo con ordine.
Nel 1946, nel celeberrimo discorso di Zurigo sulla “cortina di ferro che si stendeva sull’Europa da Trieste a Stettino”, Winston Churchill rilanciò l’idea della creazione degli Stati Uniti d’Europa. Poi, nei primi anni ’50, giunse il primo stop all’unificazione europea; quando, cioè, i sei membri delle Comunità europee di allora – in ragione dei timori nutriti dagli USA per la nascita di un terzo polo militare parallelo a quello della Nato – abbandonarono l’idea di dar vita alla CED (Comunità Europea di Difesa). Un progetto a dir poco ambizioso, che avrebbe sospinto l’Europa verso un processo di maggiore federalizzazione; un sistema indirizzato all’integrazione delle economie e alla nascita di una difesa comune; un blocco capace di giocare un ruolo di primo piano nella contesa mondiale tra Nato e Patto di Varsavia.
Non è un caso che negli USA tra le principali competenze della Federazione vi sia proprio quella della “difesa comune”; la quale, unitamente alla politica estera (oggi in Europa quasi inesistente o ancora carente), costituisce normalmente uno dei tratti peculiari del federalismo (classico).
L’idea di Pleven, federalista convinto, di dotare l’Europa di una difesa comune (costituita dagli eserciti degli Stati membri) non trovò sponde convincenti; ed anzi venne rigettata con forza dalla Francia e dalla Germania, con l’argomento che la CED avrebbe potuto inasprire i rapporti tra gli Stati durante la guerra fredda. Sarebbe stato meglio – si disse – procedere alla sola integrazione delle economie. Una scelta di cui oggi paghiamo l’alto prezzo.
L’incapacità della classe politica di allora di creare un soggetto autenticamente politico avrebbe portato nel ventennio successivo alla c.d. “crisi della sedia vuota”: da quel momento in poi, in ragione delle resistenze opposte dagli Stati membri – gelosi della propria sovranità – il processo di integrazione europea si sarebbe avvitato su se stesso.
In un libro del 1971, dal titolo “Europa Federazione incompiuta”, Walter Hallstein scriveva: “ma quali sono gli oggetti dell’unione politica? La politica di difesa e la politica estera comune sembrano accettate da tutti coloro che approvano l’idea fondamentale dell’unità politica ”.
Con queste poche parole Hallstein sottolineava come il principale ostacolo all’unificazione politica fosse il mantenimento in capo agli Stati membri della politica estera e della difesa. Parole davvero profetiche, visto che quarant’anni dopo la situazione è rimasta pressoché immutata.
Nell’affaire Libia, l’Europa, una volta ancora, si è frantumata in una miriade di posizioni; e così è stato ancor più recentemente, in merito al riconoscimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in seno all’ONU.
In relazione all’intervento militare in Libia, si è visto come, senza voler indagare le dinamiche e gli interessi geo-economici ad esso sottesi, gli Stati membri abbiano percorso strade differenti. Se la Germania ha assunto posizioni iniziali di prudenza, la Francia è risultata essere la potenza maggiormente “interventista”, prima fra tutte a riconoscere il Consiglio nazionale provvisorio degli insorti. Al suo fianco la Gran Bretagna; mentre l’Italia, con buona pace degli accordi stretti con la Libia, ha, ad un tempo, sostenuto l’intervento militare fornendo le basi per le operazioni aeree e praticato una politica di ricercata equidistanza tra le parti, anche in ragione dei rapporti intrattenuti fino a quel momento con Gheddafi.
Sul caso OLP, le posizioni oscillano tra il no secco di GB e USA ed il possibilismo franco-tedesco, incline ad un riconoscimento di uno status non molto dissimile da quello goduto da Città del Vaticano: una presenza in seno all’ONU in qualità di Osservatore permanente.
Quello della politica estera e della difesa europea è il principale nodo da sciogliere; non certo l’unico. Perché l’arrivo del nuovo millennio ha portato con sé inediti problemi. In primo luogo l’allargamento dell’Unione europea a 27 Stati, giacché alle molte difficoltà esistenti in seno all’Europa dei 15 se ne sono aggiunte altre, determinate dalle differenze strutturali (economiche, politiche e giuridiche) proprie degli Stati ex satelliti dell’URSS. Sarebbe stato più prudente favorire un loro ingresso graduale nell’Unione europea. E forse – in luogo di una cooperazione rafforzata – sarebbe stato più saggio istituire una Federazione tra gli Stati membri di più lungo corso (sciogliendo in questo modo i nodi irrisolti dell’integrazione politica) e favorire, al contempo, un sistema di tipo confederativo per gli Stati candidati all’ingresso nell’Unione. Un’Europa a due velocità. Questa volta sì.
Ma i nodi irrisolti restano tali. E riguardano proprio la democrazia, cui si faceva cenno più sopra. Il Parlamento europeo, i cui membri sono eletti a suffragio universale e diretto, è dotato di scarsissimi poteri, solo in parte accresciuti dal recente Trattato di Lisbona. Non è un caso che detto Trattato abbia inteso rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali e, cioè, colmare – almeno in parte – il c.d. “deficit democratico”. Perché l’Unione europea resta – soprattutto agli occhi dei cittadini – un sistema di burocrati e tecnocrati, ove l’unico organo davvero rappresentativo non ha voce in capitolo in ordine alle politiche che l’Unione intende perseguire. Anche qui: un autentico soggetto politico (federale) dovrebbe porre al centro del suo sistema non tanto (o non solo) l’economia, ma (soprattutto) la politica. Il fallimento della Costituzione europea prova come questa strada sia assolutamente ardua da praticare. I referendum di Francia e Olanda hanno dimostrato quanto diffuso sia il sentimento antieuropeista; forse anche in ragione della distanza che corre tra la vita quotidiana del cittadino e le decisioni prese dalle Istituzioni dell’Unione. Un vuoto che il principio di sussidiarietà non può colmare se non in parte. Un senso di estraneità che apre a facili giustificazioni e che porta la classe politica nazionale sovente a dichiarare: “sono misure richieste dall’Europa”. Come se in Europa non ci fossimo anche noi. Come se vi fossero ancora aspetti della vita non colpiti dai provvedimenti dei tecnocrati dell’Unione. Anche per questo, forse, si auspica da più parti un ritorno al localismo.
Ad oggi, l’unica vera unificazione effettivamente realizzatasi è quella monetaria, grazie all’introduzione della moneta unica. L’euro, i suoi tassi, la politica monetaria, sono gestiti dalla Banca centrale europea, di proprietà delle banche nazionali, a loro volta di proprietà (spesso se non soprattutto) di privati. Ma una moneta che non sia accompagnata da una pianificazione industriale e commerciale comune è un mero strumento in balia delle fluttuazioni e degli scossoni dei mercati. Il progetto di moneta unica mirava a creare un polo economico forte da contrapporre al dollaro statunitense, capace di proliferare nel mondo con l’utilizzo – negli scambi commerciali anche tra Paesi extraeuropei – dell’euro in luogo del dollaro. Questo progetto, ambizioso quanto importante, è (ad oggi) naufragato sotto le ineliminabili contraddizioni sottese all’Unione europea. Non può, infatti, divenire egemone ed affermarsi una moneta gestita da tecnocrati, ove la guida politica risulti assente o debole, imbrigliata nella ricerca di estenuanti mediazioni tra gli Stati membri.
Capisaldi di un sistema statuale, o nel caso di specie federale, sarebbero la politica estera e la difesa comune, l’adozione di una Costituzione europea (vera e non di facciata), l’introduzione di un sistema che accordi al Parlamento europeo poteri decisionali sulle politiche dell’Unione (in materia infrastrutturale, economica, commerciale, sanitaria e previdenziale, ecc.). Un sistema cui al momento si cerca solo in parte di ovviare attraverso il ricorso alla procedura legislativa ordinaria (ex procedura di codecisione). Ma è solo un modo di temporeggiare, di prendere tempo. Perché presto l’Unione europea si troverà di fronte ad un bivio: accettare il fallimento di cui parla oggi Angela Merkel oppure adottare un sistema istituzionale, che sia autonomo politicamente ed anche autenticamente federale.
CARLO ALBERTO CIARALLI