lunedì 24 febbraio 2014

Matteo Renzi e le riforme necessarie

Nel discorso programmatico tenuto in Senato, Matteo Renzi ha affermato che è giunto il tempo delle “scelte radicali”. Alleggerire la macchina burocratica, riformare la giustizia, ripensare profondamente il ruolo della seconda Camera ed anche le relazioni tra tutti gli enti territoriali della Repubblica: questo è quanto chiedono i cittadini, che, per definizione, sono sempre più “avanti” della classe politica che siede in Parlamento.
Negli appalti pubblici – sostiene Renzi – “lavorano più gli avvocati che i muratori”. E questo significa che qualcosa non funziona: non è più sostenibile che “i tribunali amministrativi regionali” debbano “discettare di tutto” e che “un provvedimento di un sindaco (in alcuni casi, anche del Parlamento) è comunque costantemente rimesso in discussione in una corsa ad ostacoli impressionante”.
Un brivido corre lungo la schiena. Secondo Renzi tutto questo è necessario perché in Italia non vi è più certezza del diritto. La domanda è: certezza del diritto del cittadino o degli investitori stranieri, i quali ritengono che l’ordinamento giuridico italiano sia un coacervo di norme buono soltanto ad ostacolare la realizzazione di progetti faraonici? Il dubbio è legittimo vista l’insistenza di Renzi sulla questione degli investimenti.
Ora, se, sulla base di date regole, gli atti amministrativi e le leggi della Repubblica sono soggetti ad impugnazione dinanzi agli organi di giustizia amministrativa (nel primo caso) e dinanzi alla Corte costituzionale (nel secondo caso) non è certo perché si è inteso volutamente organizzare in modo farraginoso la macchina della giustizia, ma perché quelle regole sono dettate a garanzia dei diritti dei cittadini. È quindi del tutto normale che – in ossequio al principio dello Stato di diritto – si debba poter “rimettere in discussione” tanto il provvedimento di un Sindaco quanto una legge del Parlamento dal punto di vista della loro legittimità. Nessuna decisione dei pubblici poteri – per quanto esigenze di celerità lo impongano – può tollerare scorciatoie, che facciano saltare il sistema di garanzia dei diritti. D’altra parte perché meravigliarsi? Appena due mesi fa il Governo Letta ha pensato bene di introdurre nel DDL sulla riforma del processo civile (collegato alla legge di stabilità 2014) un articolo che prevede che “anche al fine di favorire lo smaltimento dell’arretrato civile, il giudice possa definire i giudizi di primo grado mediante dispositivo corredato dall’indicazione dei fatti e delle norme che consentano di delimitare l’oggetto dell’accertamento, riconoscendo alle parti il diritto di ottenere a richiesta e previa anticipazione del contributo unificato, la motivazione del provvedimento da impugnare”. In pratica: per conoscere le motivazioni di una sentenza occorre pagare. Previsione, questa, oltre che di dubbia utilità ai fini della deflazione dei processi civili, palesemente illegittima perché posta in violazione dell’art. 111 della Costituzione, ove si stabilisce chiaramente che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, e dell’art. 24 della Costituzione, ove si riconosce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” (non potendosi, infatti, valutare l’opportunità di una impugnazione di una sentenza se non se ne conoscono le motivazioni).
È questa l’idea di certezza del diritto che ha in mente Renzi?
In relazione alla proposta di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione Renzi afferma quanto segue: “Oggi il procedimento legislativo è farraginoso: lo sapete meglio voi di me. Oggi il numero dei parlamentari è eccessivo rispetto ai Paesi europei (…). Oggi c’è la possibilità di superare l’attuale conformazione del Senato, mantenendo fermi il no al voto di fiducia e il no al voto di bilancio e la possibilità di svolgere la funzione senatoriale, non come incarico figlio di un’elezione diretta e con un’indennità, ma, come nel modello tedesco, attraverso l’assunzione di responsabilità dai territori, impreziosito eventualmente - ci sono proposte in questo senso - da ulteriori figure espressioni del mondo culturale, accademico ed universitario. Questo tipo di proposta è il primo passo per recuperare la credibilità da parte dei cittadini nei nostri confronti. Quello immediatamente successivo è superare il Titolo V della Costituzione per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Il Titolo V oggi ha la necessità di rivedere le competenze esclusive dello Stato e delle Regioni e di introdurre la possibilità per le Regioni di legiferare in ogni materia che non sia specificamente assegnata, ma contemporaneamente di introdurre una clausola di intervento della legge statale anche in materie che siano esclusivamente assegnate alla competenza regionale quando questo sia richiesto da esigenze di unità economica e giuridica dell’ordinamento. Noi prendiamo atto che, in questi anni, il ricorso alla Corte costituzionale, non dico che ha ingolfato la Corte, perché sarebbe scarsamente rispettoso delle Istituzioni, ma ha comunque provocato un eccesso di tensione tra le Regioni e lo Stato. Se noi oggi diciamo che non possiamo sostituire e tornare ad un centralismo della burocrazia statale, come ci siamo detti anche in occasione di questo intervento, è anche altrettanto vero che abbiamo bisogno di chiedere alle donne e agli uomini che guidano le Regioni e che ne fanno parte di prendere atto che è cambiato il clima nei confronti delle Regioni. È cambiato il clima sicuramente per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali, ma è accaduto anche che, troppo spesso, la sovrapposizione di competenze dei Comuni, delle Province, delle Regione e dello Stato centrale con la linea europea a dare in qualche misura un ulteriore elemento di complicazione, ha reso sostanzialmente ingovernabile il sistema istituzionale. Noi proponiamo che, fin dal mese di marzo, la riforma del Senato parta del Senato e che la riforma del Titolo V parta dalla Camera”.
Secondo Renzi, il nuovo Senato dovrebbe comporsi di 108 rappresentanti degli Enti locali, 21 rappresentanti delle Regioni e 21 alte personalità nominate dal Presidente della Repubblica (ma non era stato abolito il Senato del Regno?). In questo modo, come si vede, le Regioni (titolari di una competenza legislativa) sarebbero messe all’angolo dagli Enti locali (titolari di funzioni amministrative). Quali siano poi le funzioni di tale Camera – e cioè con quali poteri partecipi al procedimento legislativo – non è dato sapere. Come se fosse un dettaglio trascurabile.
Si provi ora a saldare questa brillante proposta con quella (concomitante) di revisione del Titolo V. La riforma dell’assetto delle competenze legislative e amministrative che Renzi vorrebbe effettuare andrebbe in ogni caso a vantaggio dello Stato: non solo perché alcune nuove materie verrebbero ricondotte entro la competenza esclusiva dello Stato (l’energia, il turismo, ecc.), ma anche perché su quelle assegnate alle Regioni graverebbe in ogni tempo la minaccia della c.d. “clausola di supremazia”, simile – si ritiene – a quella presente negli ordinamenti federali e di cui già si discorreva nel disegno di legge di revisione costituzionale varato a suo tempo dal Presidente del Consiglio Monti: in questo modo, lo Stato avrebbe l’opportunità di decidere, di volta in volta, se la competenza regionale su una data materia debba essere esercitata dal Consiglio regionale oppure direttamente dal Parlamento.
Vero è che tale clausola ricorre nei sistemi federali, ma in nessun caso essa sta a significare che lo Stato centrale possa attrarre a sé una competenza legislativa degli Stati membri a proprio piacimento. La “clausola di supremazia” è una norma di chiusura del sistema, non una norma sul riparto delle competenze. E pertanto può essere attivata solo a patto che si sia rispettato il riparto costituzionale delle competenze.
È evidente che con il suo pacchetto di riforme Renzi vorrebbe depotenziare il ruolo che le autonomie territoriali attualmente godono entro il sistema costituzionale della Repubblica. E certamente non perché sia “cambiato il clima nei confronti delle Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché (soprattutto) l’attività delle Regioni – intese come “macro Stati che pensano di poter governare tutto” (parole dello stesso Renzi) – sarebbe d’intralcio all’operato del governo del fare. Senza neppure che ci si chieda come mai la nostra Costituzione ha inteso informare la struttura della Repubblica al principio del decentramento politico-istituzionale.
Lo vorrei ricordare con le parole che Carlo Esposito – esimio costituzionalista – espresse nel lontano 1954: “la coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce, nella nostra Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un utile strumento di buona legislazione ed amministrazione (…). Queste autonomie non hanno rilievo solo per la organizzazione amministrativa, ma incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato”, costituendo “per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà”.

ENZO DI SALVATORE


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