Nel discorso programmatico tenuto
in Senato, Matteo Renzi ha affermato che è giunto il tempo delle “scelte
radicali”. Alleggerire la macchina burocratica, riformare la giustizia,
ripensare profondamente il ruolo della seconda Camera ed anche le relazioni tra
tutti gli enti territoriali della Repubblica: questo è quanto chiedono i
cittadini, che, per definizione, sono sempre più “avanti” della classe politica
che siede in Parlamento.
Negli appalti pubblici – sostiene
Renzi – “lavorano più gli avvocati che i muratori”. E questo significa che
qualcosa non funziona: non è più sostenibile che “i tribunali amministrativi
regionali” debbano “discettare di tutto” e che “un provvedimento di un sindaco
(in alcuni casi, anche del Parlamento) è comunque costantemente rimesso in
discussione in una corsa ad ostacoli impressionante”.
Un brivido corre lungo la
schiena. Secondo Renzi tutto questo è necessario perché in Italia non vi è più certezza
del diritto. La domanda è: certezza del diritto del cittadino o degli
investitori stranieri, i quali ritengono che l’ordinamento giuridico italiano
sia un coacervo di norme buono soltanto ad ostacolare la realizzazione di progetti
faraonici? Il dubbio è legittimo vista l’insistenza di Renzi sulla questione
degli investimenti.
Ora, se, sulla base di date regole, gli atti amministrativi e
le leggi della Repubblica sono soggetti ad impugnazione dinanzi agli organi di
giustizia amministrativa (nel primo caso) e dinanzi alla Corte costituzionale
(nel secondo caso) non è certo perché si è inteso volutamente
organizzare in modo farraginoso la macchina della giustizia, ma perché quelle
regole sono dettate a garanzia dei diritti dei cittadini. È quindi del tutto
normale che – in ossequio al principio dello Stato di diritto – si debba poter “rimettere
in discussione” tanto il provvedimento di un Sindaco quanto una legge del
Parlamento dal punto di vista della loro legittimità. Nessuna decisione dei
pubblici poteri – per quanto esigenze di celerità lo impongano – può tollerare
scorciatoie, che facciano saltare il sistema di garanzia dei diritti. D’altra
parte perché meravigliarsi? Appena due mesi fa il Governo Letta ha pensato bene
di introdurre nel DDL sulla riforma del processo civile (collegato alla legge
di stabilità 2014) un articolo che prevede che “anche al fine di favorire lo
smaltimento dell’arretrato civile, il giudice possa definire i giudizi di primo
grado mediante dispositivo corredato dall’indicazione dei fatti e delle norme
che consentano di delimitare l’oggetto dell’accertamento, riconoscendo alle
parti il diritto di ottenere a richiesta e previa anticipazione del contributo
unificato, la motivazione del provvedimento da impugnare”. In pratica: per
conoscere le motivazioni di una sentenza occorre pagare. Previsione, questa, oltre che
di dubbia utilità ai fini della deflazione dei processi civili, palesemente
illegittima perché posta in violazione dell’art. 111 della Costituzione, ove si
stabilisce chiaramente che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere
motivati”, e dell’art. 24 della Costituzione, ove si riconosce che “tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi
legittimi” (non potendosi, infatti, valutare l’opportunità di una impugnazione
di una sentenza se non se ne conoscono le motivazioni).
È questa l’idea di certezza del
diritto che ha in mente Renzi?
In relazione alla proposta di
riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione Renzi afferma quanto
segue: “Oggi il procedimento legislativo è farraginoso: lo sapete meglio voi di
me. Oggi il numero dei parlamentari è eccessivo rispetto ai Paesi europei (…).
Oggi c’è la possibilità di superare l’attuale conformazione del Senato,
mantenendo fermi il no al voto di fiducia e il no al voto di bilancio e la
possibilità di svolgere la funzione senatoriale, non come incarico figlio di
un’elezione diretta e con un’indennità, ma, come nel modello tedesco,
attraverso l’assunzione di responsabilità dai territori, impreziosito
eventualmente - ci sono proposte in questo senso - da ulteriori figure
espressioni del mondo culturale, accademico ed universitario. Questo tipo di
proposta è il primo passo per recuperare la credibilità da parte dei cittadini
nei nostri confronti. Quello immediatamente successivo è superare il Titolo V
della Costituzione per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Il Titolo V oggi
ha la necessità di rivedere le competenze esclusive dello Stato e delle Regioni
e di introdurre la possibilità per le Regioni di legiferare in ogni materia che
non sia specificamente assegnata, ma contemporaneamente di introdurre una clausola
di intervento della legge statale anche in materie che siano esclusivamente
assegnate alla competenza regionale quando questo sia richiesto da esigenze di
unità economica e giuridica dell’ordinamento. Noi prendiamo atto che, in questi
anni, il ricorso alla Corte costituzionale, non dico che ha ingolfato la Corte,
perché sarebbe scarsamente rispettoso delle Istituzioni, ma ha comunque
provocato un eccesso di tensione tra le Regioni e lo Stato. Se noi oggi diciamo
che non possiamo sostituire e tornare ad un centralismo della burocrazia
statale, come ci siamo detti anche in occasione di questo intervento, è anche
altrettanto vero che abbiamo bisogno di chiedere alle donne e agli uomini che
guidano le Regioni e che ne fanno parte di prendere atto che è cambiato il
clima nei confronti delle Regioni. È cambiato il clima sicuramente per ciò che
è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai rimborsi elettorali, ma è
accaduto anche che, troppo spesso, la sovrapposizione di competenze dei Comuni,
delle Province, delle Regione e dello Stato centrale con la linea europea a
dare in qualche misura un ulteriore elemento di complicazione, ha reso
sostanzialmente ingovernabile il sistema istituzionale. Noi proponiamo che, fin
dal mese di marzo, la riforma del Senato parta del Senato e che la riforma del
Titolo V parta dalla Camera”.
Secondo Renzi, il nuovo Senato dovrebbe
comporsi di 108 rappresentanti degli Enti locali, 21 rappresentanti delle
Regioni e 21 alte personalità nominate dal Presidente della Repubblica (ma non
era stato abolito il Senato del Regno?). In questo modo, come si vede, le
Regioni (titolari di una competenza legislativa) sarebbero messe all’angolo dagli
Enti locali (titolari di funzioni amministrative). Quali siano poi le funzioni
di tale Camera – e cioè con quali poteri partecipi al procedimento legislativo
– non è dato sapere. Come se fosse un dettaglio trascurabile.
Si provi ora a saldare questa
brillante proposta con quella (concomitante) di revisione del Titolo V. La
riforma dell’assetto delle competenze legislative e amministrative che Renzi
vorrebbe effettuare andrebbe in ogni caso a vantaggio dello Stato: non solo
perché alcune nuove materie verrebbero ricondotte entro la competenza esclusiva
dello Stato (l’energia, il turismo, ecc.), ma anche perché su quelle assegnate
alle Regioni graverebbe in ogni tempo la minaccia della c.d. “clausola di
supremazia”, simile – si ritiene – a quella presente negli ordinamenti federali
e di cui già si discorreva nel disegno di legge di revisione costituzionale varato
a suo tempo dal Presidente del Consiglio Monti: in questo modo, lo Stato
avrebbe l’opportunità di decidere, di volta in volta, se la competenza
regionale su una data materia debba essere esercitata dal Consiglio regionale
oppure direttamente dal Parlamento.
Vero è che tale clausola ricorre
nei sistemi federali, ma in nessun caso essa sta a significare che lo Stato
centrale possa attrarre a sé una competenza legislativa degli Stati membri a
proprio piacimento. La “clausola di supremazia” è una norma di chiusura del
sistema, non una norma sul riparto delle competenze. E pertanto può essere
attivata solo a patto che si sia rispettato il riparto costituzionale delle
competenze.
È evidente che con il suo
pacchetto di riforme Renzi vorrebbe depotenziare il ruolo che le autonomie
territoriali attualmente godono entro il sistema costituzionale della
Repubblica. E certamente non perché sia “cambiato il clima nei confronti delle
Regioni”, anche “per ciò che è accaduto nel corso di questi anni in ordine ai
rimborsi elettorali” (questo argomento non ha pregio semplicemente perché non è
un argomento, dato che lo stesso potrebbe dirsi del Parlamento nazionale e, più
in generale, di tutti gli organi dello Stato), ma più semplicemente perché (soprattutto)
l’attività delle Regioni – intese come “macro Stati che pensano di poter
governare tutto” (parole dello stesso Renzi) – sarebbe d’intralcio all’operato
del governo del fare. Senza neppure che ci si chieda come mai la nostra
Costituzione ha inteso informare la struttura della Repubblica al principio del
decentramento politico-istituzionale.
Lo vorrei ricordare con le parole
che Carlo Esposito – esimio costituzionalista – espresse nel lontano 1954: “la
coesistenza nello Stato di questi centri di vita territoriale non costituisce,
nella nostra Costituzione, un mero espediente giuridico-amministrativo o un
utile strumento di buona legislazione ed amministrazione (…). Queste autonomie
non hanno rilievo solo per la organizzazione amministrativa, ma incidono in
profondità sulla struttura interiore dello Stato”, costituendo “per i cittadini
esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà”.
ENZO DI SALVATORE
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