giovedì 28 luglio 2011

Potere e giustizia nell’opera di Gabriel García Márquez

1. Se si ritiene che il potere vada studiato analizzando “le forme regolate e legittime nel loro centro, in quelli che possono essere i loro meccanismi generali ed i loro effetti costanti” (M. Foucault), deve anche convenirsi che l’opera letteraria di Márquez resti in via di principio estranea ad ogni rappresentazione del potere. Se si ammette, al contrario, che il potere debba essere spiegato nella sua dimensione ascendente, “a partire dalle tecniche e dalle tattiche della dominazione”, e cioè osservando come esso circoli a prescindere dalle “produzioni ideologiche” (M. Foucault), allora può anche concludersi che l’intera opera di Márquez altro non sia che un’unica e incessante riflessione sul potere; la cui altilenante “credenza nella legittimità” appare in condizione di aprire alla coesistenza di due differenti e spesso confliggenti modelli: quello tradizionale e quello carismatico (M. Weber).

L’ambiguità delle convinzioni dell’obbediente, che si riflette nei meccanismi e nella coesistenza dei tipi di potere, è un habitus mentale ed è figlia dell’impossibilità di conciliare la solidarietà con la solitudine: “la solitudine” – afferma Márquez – “si presenta come l’opposto della solidarietà … e questo è il punto che acquista già quasi un carattere politico e che perciò trovo interessante”. Si tratta di una solitudine “collettiva” e non “metafisica”, “lirica” e “individuale”, “la quale tuttavia proprio per il fatto di essere tale, marca l’individuo uno per uno” (G. G. Márquez). Essa è “inabilità associativa, indifferenza e indolenza”; dappocaggine e inettitudine; distorsione della realtà e fuga (C. Segre).

Se sul piano più propriamente politico l’assenza di solidarietà tronca qualsiasi “possibilità di sviluppo” della storia e favorisce “l’azione degli sfruttatori prima, degli imperialisti e dei dittatori locali dopo” (C. Segre), è pur vero che, involontariamente e inconsapevolmente, è proprio il tratto anarchico di ogni solitudine a soggiogare e piegare il potere, condannandolo per sempre ad una funesta dimenticanza. È quel che accade ad esempio ne La mala ora, ove il potere dell’alcade, inviato a Macondo con “l’ordine di sottomettere il paese ad ogni costo”, si infrange contro il mistero delle pasquinate: ogni mattina contro i muri del paese vengono affissi manifestini, che svelano i retroscena più vergognosi della vita privata degli abitanti. Si tratta di avvenimenti già largamente noti, certo; ma le pubbliche accuse gridate acuiscono giorno per giorno il dramma e disorientano l’autorità, fiaccandone il potere. “Voglio che tu tiri le carte” – chiede l’alcade a Cassandra – “per vedere se si può sapere chi combina tutto questo casino”. E Cassandra, confessando d’aver già interrogato il passato, rivela: “È tutto il paese e nessuno”. Così, in un pomeriggio qualunque, “inconsapevole della invisibile ragnatela che il tempo gli stava tessendo tutt’attorno”, all’alcade sarebbe stata sufficiente “un’istantanea esplosione di chiaroveggenza” per comprendere “chi fosse il sottomesso e chi il soggiogatore”; di comprendere, cioè, che la verità del potere sta, in fondo, nella possibilità che esso si faccia comunicazione. Il verbo potere – si potrebbe dire parafrasando Roland Barthes – “non esiste all’infinito (se non per artifizio metalinguistico): il soggetto e l’oggetto formano un tutt’unico con la parola che viene proferita”. Nel dialogo che sorregge il rapporto autorità-libertà il dominante “finge d’ignorare il fondamento d’essere e di comunicazione che sostiene la sua disperazione e il suo orgoglio”: egli “vuole essere solo per sé, ma, di fatto, cerca d’essere riconosciuto signore da qualcuno” (M. Merleau-Ponty). E il potere, allora, muore di fronte alla negazione della possibilità di tale riconoscimento e non sempre nell’urto con la negazione del riconoscimento stesso ovvero quando se ne ponga in discussione la legittimità dell’esercizio: “è il mio linguaggio, ultimo appiglio della mia esistenza, che viene negato, non la mia domanda”; per la domanda, posso aspettare, rinnovarla, formularla in altro modo; ma, se vengo privato del potere di domandare, io sono come morto per sempre” (R. Barthes).

2. La solitudine collettiva è fondamento e limite del potere politico. Nei Paesi dell’America latina, alla liberazione dal dominio spagnolo e portoghese corrispose l’ascesa al potere dei caudillos, di avventurieri ambiziosi “che con magniloquenza andavano proclamando princìpi democratici” (R. M. McIver). La maggior parte della popolazione era vissuta fino ad allora in una specie di “feudalesimo arretrato”, in quanto le condizioni economiche erano sfavorevoli, l’analfabetismo dilagante e il ceto medio del tutto inesistente. Essa, in breve, non aveva alcuna “filosofia di vita” da contrapporre alla “tradizione autoritaria” pregressa. I caudillos, d’altra parte, erano per lo più “generali di eserciti «rivoluzionari», uomini usciti dalla classe latifondista, senza alcuna idea dei metodi democratici” (R. M. McIver), facilmente inclini a smarrire il senso della propria “missione” e a trasformarsi in “opportunisti”. Tale stato di cose finì per creare uno spazio incolmabile tra la sfera della libertà e quella dell’autorità. Un divario che consentì al dittatore di esercitare retrivamente il proprio potere allo scopo di “ammassare ricchezze” (R. M. McIver); che emarginò il popolo dalla scena politica, gettando il Paese in un nuovo e terribile feudalesimo; che favorì l’impossibilità della comunicazione e l’incomprensione del sociale; e che alla lunga rese persino effimero e solo il potere.

Non è un caso che sia proprio la solitudine del potere ad attraversare in filigrana le vicende narrate da Márquez. Quella solitudine che lambisce i ricordi del colonnello, il quale, dopo aver preso parte alla guerra civile compiendo imprese memorabili, attende ora inutilmente l’arrivo della pensione, consumandosi lentamente nella speranza che il suo gallo vinca la battaglia; che guida tristemente Simón Bolívar nel suo ultimo viaggio lungo il fiume Magdalena, e che lo fa rabbrividire di fronte alla inattesa rivelazione “che la folle corsa fra i suoi mali e i suoi sogni arrivava in quel momento alla meta finale”; che veglia ancora sulle giornate del dittatore centenario, il quale, chiuso in un palazzo immenso e triste e pieno di vacche, si sente ora “oltraggiato e sminuito dall’inclemenza della morte di fronte alla maestà del potere”.

3. Se si sostiene che l’opera di Márquez si lasci agevolmente imprigionare entro la corrente letteraria del c.d. “realismo magico”, deve anche ammettersi che sia assolutamente paradossale tentare di rinvenire in essa una data concezione della giustizia e che sia finanche superfluo interrogarsi sulle specifiche connessioni che questa presenti con le forme di esercizio del potere. È

evidente, infatti, che se i romanzi e i racconti di Márquez costituissero solo un’opera di falsificazione della realtà, anche la giustizia si configurerebbe solo come un accidente della storia narrata o, nei migliori dei casi, come un fatto incosciente e strumentale alla illustrazione dei personaggi e dei luoghi descritti. Come ha ricordato lo stesso Márquez, però, tutte le sue opere “corrispondono a una realtà geografica e storica”, che “non hanno a che fare con il realismo magico e tutte le cose che si sono dette”. In tale contesto, il problema della giustizia e del potere trascina con sé anzitutto quello del metodo ossia delle strategie euristiche utilizzabili nell’indagine, e la cui validità si appoggia su un’elementare considerazione: l’America latina non è l’Europa. La sua realtà quotidiana “è piena di cose straordinarie” e, “a differenza di ciò che pensano gli europei, (essa) «non si esaurisce nel prezzo dei pomodori o delle uova»”. “L’immagine di un mondo selvaggio e innocente”, che le rivoluzioni degli uomini hanno trasformato, ossia guarito o distrutto per sempre, è un’idea tutta occidentale (B. Arpaia); una verità accettabile solo postulando il “principio della serie temporale secondo la legge della causalità” (I. Kant) e plausibile solo aderendo ad un processo dimostrativo, che, facendo leva sull’intuizione chiara ed evidente delle cose, sulla composizione analitica e sulla ricostruzione sintetica, intenda “far tabula rasa del passato” (G. De Ruggiero). Per tale ragione, in Márquez la giustizia e il potere si presentano come fenomeni reali, ma non del tutto razionalizzabili; fatti persino semplici eppure non completamente decifrabili. E l’impossibilità di razionalizzare e decifrare i fenomeni rende anche sterile la lezione illuminista. Inutile la distinzione tra pubblico e privato. Superfluo ogni sforzo volto a separare il terreno dal divino e goffo ogni tentativo che voglia dimostrare come tra il dialogo dei vivi con i morti e dei morti con Dio possa esservi soluzione di continuità. Tutto questo, infine, giustifica una rappresentazione degli eventi che dà respiro alla simultaneità dei punti di vista e che predilige il ricorso ad un tipo di scrittura, la quale, scomponendo e ricomponendo la narrazione, insiste prepotentemente sull’iperbole, sull’analessi, sullo slittamento temporale (C. Segre).

4. Si è sottolineato come nei romanzi di Márquez “gli eventi non sono mai rappresentati con pretese di oggettività, ma anzi accettando senza riserve le amplificazioni e le stilizzazioni di chi in essi è implicato o ad essi è interessato” (C. Segre). In Cronaca di una morte annunciata, lo scrittore prende senz’altro nota degli accadimenti; registra quanto i protagonisti hanno da raccontare; acconsente a che tutte le voci interagiscano tra loro. Ciò nonostante, però, nel lasciar emergere lentamente ogni singola verità, egli finisce per puntare il dito contro qualcosa di preciso. Santiago Nasar è accusato di aver deflorato Ángela Vicario, promessa sposa a Bayardo San Román. I fratelli di Ángela si preparano alla vendetta, attendono Santiago Nasar nella piazza principale del paese e sotto gli occhi della popolazione attonita e inerme consumano il delitto.

Ebbene, se la storia è scontata, altrettanto non può dirsi del senso ultimo di rinuncia e di desolazione che dalle sue pieghe traspare. Sul banco degli imputati non siede l’ignaro Santiago Nasar, ma gli abitanti del villaggio, che con il proprio ambiguo comportamento non hanno contribuito certo a far chiarezza sulla turpe azione commessa dall’accusato. Parlando, essi hanno impedito che la verità venisse a galla; tacendo, essi hanno reso possibile l’assassinio. In altre parole, sembrerebbe che per lo scrittore disonore, colpa e delitto costituiscano i tratti essenziali di un mistero che la collettività – e il romanzo con essa – intende fermamente preservare, anziché risolvere (B. Arpaia). Un mistero “politico” che presenta radici scoperte e si alimenta di quella “solitudine collettiva” di cui si è già discorso. Un mistero giuridico che è reale e che proprio per questo sa porsi a fondamento e limite di una giustizia tutta particolare.

ENZO DI SALVATORE

Nessun commento:

Posta un commento