mercoledì 13 luglio 2011

Il caso Sayn-Wittgenstein: ordine pubblico e identità costituzionale dello Stato membro

(osservazione a Corte giust., sent. 22 dicembre 2010, causa C-208/09, Ilonka Sayn-Wittgenstein c. Landeshauptmann von Wien)


1. La pronuncia della Corte di giustizia che qui si annota è originata da una questione pregiudiziale posta dal Verwaltungsgerichtshof austriaco, con cui si chiedeva se l’art. 21 TFUE, relativo alla libera circolazione delle persone, fosse d’ostacolo al rifiuto, espresso da una normativa nazionale, di riconoscere un cognome attribuito in un altro Stato membro ad un figlio adottivo (adulto). Nel caso di specie, si trattava di comprendere se la signora Ilonka Sayn-Wittgenstein, cittadina austriaca residente in Germania, potesse conservare il cognome nella forma “Fürstin von Sayn-Wittgenstein”. A tal riguardo, nella causa principale con cui si era chiesto l’annullamento del decreto del Landeshauptmann di Vienna, che aveva rettificato il cognome della cittadina austriaca (eliminando dallo stesso le parole “Fürstin von”), la signora Sayn-Wittgenstein aveva osservato: che “il mancato riconoscimento degli effetti giuridici dell’adozione riguardo al nome” costituisse “un ostacolo alla libera circolazione delle persone”, essendo, in questo modo, costretta a portare cognomi differenti nei diversi Stati membri; che non potesse legittimamente invocarsi il limite dell’ordine pubblico, mancandone i presupposti (necessità ed urgenza di farvi ricorso e sufficiente collegamento con lo Stato membro interessato); che una modifica del cognome, nei termini stabiliti dal decreto dell’autorità austriaca, costituisse una violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare, come garantito dall’art. 8 della CEDU. Di contro, il Landeshauptmann di Vienna aveva sostenuto che non dovesse procedersi ad una disapplicazione della legge sull’abolizione della nobiltà del 1919, poiché, in ragione del rinvio effettuato dall’art. 149, comma 1, della Costituzione austriaca (Bundesverfassungsgesetz), essa aveva acquisito “valore costituzionale”: se si fosse proceduto ad una disapplicazione di detta legge, ne sarebbe derivata “una grave violazione dei valori fondamentali sui quali poggia l’ordinamento giuridico austriaco”.

2. Con il suo rinvio, il giudice austriaco chiedeva, dunque, alla Corte di giustizia se ragioni di ordine costituzionale potessero autorizzare uno Stato membro a non riconoscere in tutti i suoi elementi il nome ottenuto da uno dei suoi cittadini per effetto di una adozione in un altro Stato membro. Nella sua pronuncia, la Corte non nega che detto rifiuto costituisca effettivamente una restrizione delle libertà riconosciute dall’art. 21 TFUE ad ogni cittadino dell’Unione. Pur tuttavia, essa ritiene di dover verificare se, nel caso di specie, sussistano ragioni tali da giustificare una legittima restrizione alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE. A tal fine, e sulla base delle diverse osservazioni presentate, essa giunge a considerare: da un lato, la libertà del cittadino UE; dall’altro, il limite dell’ordine pubblico e quello dell’identità costituzionale dello Stato membro.
Ebbene, il problema che qui preme porre in luce concerne esattamente i termini di tale rapporto, giacché, a ben vedere, esso involge due questioni tra loro non perfettamente sovrapponibili, e cioè: il c.d. ordine pubblico materiale, espresso dal concreto interesse sotteso ad una previsione costituzionale (cui si ricollegano le misure adottate dalle autorità nazionali), e il c.d. ordine pubblico ideale, che riassumendosi nella formula della “identità costituzionale” dello Stato membro, esprimerebbe, almeno secondo la concezione fatta propria dal Governo austriaco, un nucleo di principi e/o di valori costituzionali non derogabili (su questa distinzione v. per tutti L. PALADIN, Ordine pubblico, in Nss.D.I., XII, Torino, 1965, 130 ss.; A. PACE, Il concetto di ordine pubblico nella Costituzione italiana, in Arch. giur., 1963, 111 ss.).
Ed infatti, mentre il giudice europeo ritiene che la nozione di ordine pubblico, quale deroga ad una libertà fondamentale, “deve essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle Istituzioni dell’Unione europea” (e il ricorso ad essa può giustificarsi “solo in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività”) (cfr. Corte giust., sent. 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, in Racc., 2004, I-9609, punto 30; ma sulla nozione di “ordine pubblico” v. già Corte giust., sent. 4 dicembre 1974, causa 41/74, Yvonne van Duyn, in Racc., 1974, 1337 ss., punto 18; Corte giust., sent. 28 ottobre 1975, causa 36/75, Rutili, in Racc., 1975, punti 26 ss.; in dottrina v. F. ANGELINI, Ordine pubblico nel diritto comunitario, in Dig. Disc. Pubbl. – Aggiornamento, Torino, 2005, 503 ss.; amplius ID., Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea, Padova, 2007), il Governo nazionale fa valere che “le disposizioni in questione nella causa principale mirano a salvaguardare l’identità costituzionale della Repubblica austriaca” ovvero: “una decisione a carattere fondamentale del legislatore costituente a favore di una formale parità di trattamento di tutti i cittadini dinanzi alla legge, volta a far sì che nessun cittadino austriaco possa acquisire prestigio particolare attraverso aggiunte al nome sotto forma di titoli nobiliari, onorificenze e dignità, la cui unica funzione sia quella di distinguere la persona che se ne fregia, e che non abbiano nessun legame con la sua professione o i suoi studi”. In quest’ottica, pertanto, una restrizione alla libertà riconosciuta dal Trattato si giustificherebbe “alla luce della storia e dei valori fondamentali della Repubblica austriaca”.
Questa prospettiva, invero, non è del tutto inedita, in quanto, com’è noto, è stata da tempo accolta da talune Corti costituzionali (come quella italiana o spagnola), che espressamente hanno discorso di valori ovvero di principi supremi o anche di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, per sottolineare come sul piano interno sussistano limiti non travalicabili dal diritto comunitario (oggi: dell’Unione). Più scopertamente, però, è stato il Bundesverfassungsgericht tedesco ad aver postulato – dapprima solo incidentalmente (sent. 1967) ed in seguito più manifestamente (sent. “Lissabon” 2009 e, in un senso in parte diverso, sent. “Mangold” 2010) – una sostanziale coincidenza tra il novero di detti valori o principi e la “Verfassungsidentität” (identità della Costituzione), sostenendo che detto concetto esprimerebbe un limite di carattere assoluto ovvero intangibile rispetto al processo di integrazione, al cui controllo sarebbe tenuto il Tribunale costituzionale federale (“Identitätskontrolle”). Questo epilogo, in tutta evidenza, finisce per rendere sostanzialmente equivalenti tra loro il concetto di “identità costituzionale” e il concetto di “ordine pubblico”, che, sul piano internazionale, si configura tradizionalmente come un limite di carattere funzionale e assoluto.

3. È evidente, però, che – al di là delle interpretazioni che possono essere rese circa il significato da attribuire alla prescrizione di cui all’art. 4.2 TUE, relativa al rispetto dell’identità nazionale e al rispetto delle funzioni di mantenimento dell’ordine pubblico – il pensiero del giudice europeo si discosta dalla prospettiva affacciata dal Tribunale costituzionale federale tedesco (ed anche dall’opinione di parte della dottrina: cfr. A. BLECKMANN, Die Wahrung der „nationalen Identität“ im Unions-Vertrag, in JZ, 1997, 265 ss.): per il Bundesverfassungsgericht, infatti, l’identità costituzionale resta un limite di carattere esterno al processo di integrazione, tant’è che il suo rispetto viene rivendicato dal giudice costituzionale nazionale; per il giudice europeo, invece, essa – convertita come accade nel caso di specie, nell’esigenza di tutela, da parte della Repubblica austriaca, del suo ordine pubblico materiale – tende a configurarsi come un limite di carattere interno al processo di integrazione (per via della previsione espressa posta dall’art. 4.2 TUE (versione Lisbona) e già prima dall’art. 6.3 TUE (versione Amsterdam)). Non è un caso che, in un passaggio della sua pronuncia, la Corte sostenga che “nel contesto della storia costituzionale austriaca, la legge sull’abolizione della nobiltà può, in quanto elemento dell’identità nazionale, entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone riconosciuto dalle norme dell’Unione” (ma per un approccio non molto dissimile v. già M. HILF, Europäische Union und nationale Identität der Mitgliedstaaten, in Gedächtnisschrift für Eberhard Grabitz, a cura di A. Randelzhofer-R. Scholz-D. Wilke, München 1995, 157 ss.).
È evidente, pertanto, che le due posizioni restano inconciliabili. Ritenere, infatti, che il rispetto dell’identità costituzionale costituisca un limite di carattere esterno al processo di integrazione, significa anche qualificare detto limite come assoluto e non ammettere, dunque, alcun bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco: tra quanto, cioè, lo Stato membro ritiene di dover idealmente opporre al processo di integrazione e i concreti interessi che, tutelati in sede europea, reclamano soddisfazione dinanzi al giudice nazionale. Ritenere, invece, che l’identità possa “entrare in linea di conto nel bilanciamento di legittimi interessi con il diritto di libera circolazione delle persone” significa considerare detto limite come relativo e non consentire che lo Stato membro, in una prospettiva di alterità o di separazione rispetto al processo di integrazione, possa valutare unilateralmente se un dato principio o istituto del suo ordinamento giuridico si concreti in un elemento della sua identità costituzionale.

ENZO DI SALVATORE

(13 marzo 2011)

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