A)
L’art. 75, comma II, Cost. stabilisce che “non è
ammesso il referendum per le leggi
tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali”.
Il primo motivo di inammissibilità potrebbe
riguardare il fatto che la legge n. 243/2012 è, appunto, una legge in materia
di bilancio. Entro questa categoria, sottratta al referendum, vanno, infatti,
ricomprese tutte le leggi di cui all’art. 81 Cost.: quindi, ad es., non solo la
legge di approvazione del bilancio, ma – in ragione della modifica
costituzionale introdotta – anche la legge n. 243/2012 (cfr. Corte cost., sent.
n. 2 del 1994).
Il secondo motivo di inammissibilità – collegato ad
un limite implicito – sarebbe dato dal fatto che la legge n. 243/ 2012 potrebbe
essere intesa quale legge a contenuto
costituzionalmente vincolato (ossia quale legge che nel suo nucleo
normativo contiene l’unica disciplina possibile richiesta dalla Costituzione)
ovvero quale legge costituzionalmente
obbligatoria (ossia quale legge che, pur rappresentando anch’essa
attuazione di una previsione costituzionale, non costituirebbe l’unico modo di
attuazione di quella data previsione costituzionale). In quest’ultima
evenienza, tra l’altro, sarebbe ancor più evidente il carattere manipolativo
della richiesta referendaria (sottoposta a stringenti limiti), atteso che con
essa ci si propone di trasformare – nei fatti – il referendum in un indirizzo
politico al Legislatore.
Il terzo motivo è quello evocato da Alfonso Gianni,
anche se, personalmente, è proprio quello che mi convince meno. Nella sentenza
n. 88 del 2014, la Corte ha qualificato la legge n. 243/2012 quale “legge “rinforzata”, in ragione della
maggioranza parlamentare richiesta per la sua approvazione” (con la
precisazione che “essa ha comunque il
rango di legge ordinaria e in quanto tale trova la sua fonte di legittimazione
– ed insieme i suoi limiti – nella legge cost. n. 1 del 2012, di cui detta la
disciplina attuativa”). A mio parere la legge n. 243/2012 non si configura
quale legge “rinforzata” e, dunque, in
questo senso “atipica” (secondo l’insegnamento di Vezio Crisafulli, per il
quale, in casi siffatti, a identità di forma non vi sarebbe identità di
contenuto).
Una legge ordinaria, infatti, può essere considerata “rinforzata”
quando, pur essendo approvata con la consueta maggioranza prevista per leggi
ordinarie (maggioranza semplice), sia circondata in Costituzione da una serie
di condizioni “esterne” al procedimento legislativo: come accade ad es. per le
leggi di disciplina dei rapporti dello Stato con le confessioni religiose
diverse dalla cattolica, che, approvate a maggioranza semplice, devono essere
precedute da un’intesa con le relative rappresentanze (art. 8 Cost.). Qui,
invece, siamo in presenza: 1) di una legge che deve essere approvata a
maggioranza assoluta (quindi il rafforzamento è “interno” al procedimento
legislativo); 2) quindi: di una (nuova) legge, il cui contenuto è, in relazione
ai principi fondamentali, disciplinato dalla legge costituzionale. D’altra
parte, nessuno ha mai sostenuto che la legge
costituzionale (art. 138 Cost.) sia una legge
ordinaria “rinforzata” solo perché il suo procedimento di approvazione
risulti diverso da quello previsto per la legge ordinaria. Ad ogni modo –
volendo restare all’orientamento espresso dalla Corte – la qualificazione di
tale legge come “rinforzata” finisce per rendere inammissibili anche da questo
punto di vista i quesiti referendari.
B)
In relazione
al quesito n. 1: la proposta di
abrogazione della parola “almeno” sembra superflua, in quanto dalla normativa
di risulta non discenderà automaticamente che il principio di equilibrio dei
bilanci si consideri rispettato unicamente
qualora si assicuri il conseguimento dell’obiettivo a medio termine ovvero se
il saldo strutturale risulti esclusivamente
pari all’obiettivo a medio termine. Abrogare vuol dire sì disporre
diversamente, ma non al punto da ricavare dalla disposizione un significato
normativo specifico, quando la stessa disposizione resti passibile di interpretazioni
ulteriori.
In relazione
al quesito n. 2: la legge n.
243/2012 consente di ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni
finanziarie unicamente per fronteggiare “eventi straordinari, al di fuori del
controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi
calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria
generale del Paese”. Il problema sarebbe dato dal fatto che il ricorso a questo
tipo di indebitamento non sarebbe possibile al di fuori di tale ipotesi;
dunque, non qualora si versasse in periodi di grave recessione economica. Il
rilievo dei promotori del referendum mi pare in via di principio condivisibile,
atteso che lo stesso Fiscal Compact dà una definizione (più ampia) di cosa
debba intendersi per “circostanze eccezionali”: “eventi inconsueti non soggetti
al controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti
ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione
oppure periodi di grave recessione economica ai sensi del patto di stabilità e
crescita rivisto, purché la deviazione temporanea della parte contraente
interessata non comprometta la sostenibilità del bilancio a medio termine”. La
proposta dei promotori del referendum è, pertanto, quella di abrogare l’art. 4,
comma 4, della legge, ove si dice: “Fatto salvo quanto previsto dall’art. 6,
comma 6, non è consentito il ricorso all’indebitamento per realizzare
operazioni finanziarie”. Ora, al di là di ogni altra considerazione che
potrebbe effettuarsi – visto che la deviazione temporanea non può comunque compromettere
la sostenibilità del bilancio a medio termine – mi limito ad osservare che
l’abrogazione dell’art. 4, comma 4, della legge non comporta che sia altresì abrogato
l’art. 6, comma 6; il raggiungimento dell’obiettivo dei promotori avrebbe,
infatti, chiesto che il quesito referendario venisse esteso anche alle parole
“straordinari” e “lettera b)” contenute
all’art. 6, comma 6: il che non è avvenuto.
In relazione
al quesito n. 3: l’art. 8, comma 1,
della legge n. 243/2012 impegna il governo a verificare se vi sia uno
scostamento negativo del saldo strutturale “pari o superiore allo scostamento
considerato significativo dall’ordinamento dell’Unione europea e dagli accordi
internazionali in materia”. La proposta dei promotori del referendum è quella
di abrogare il riferimento agli accordi
internazionali in materia, sul presupposto che né il Fiscal Compact, né
l’art. 97, comma 1, Cost. prescrivono una conformità di questo tipo. Faccio
presente che: 1) qualora vi fossero già
accordi internazionali in materia, l’abrogazione di tale inciso non
autorizzerebbe a disattendere gli accordi conclusi, in quanto, se così fosse,
si determinerebbe una violazione degli obblighi assunti sul piano
internazionale (l’art. 117, comma 1, Cost. richiede, tra l’altro, che la
potestà legislativa dello Stato si eserciti (anche) nel rispetto dei vincoli
che discendono dagli obblighi internazionali); 2) qualora non vi fossero
accordi internazionali in materia, lo Stato potrebbe comunque stringerli in
futuro, posto che l’art. 97, comma 1, Cost. afferma che “Le pubbliche amministrazioni,
in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei
bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”, senza con ciò precisare – come
invece sostengono i promotori del referendum – che detta coerenza debba esserci
“soltanto” con l’ordinamento dell’Unione europea. Da dove lo hanno dedotto?
In relazione
al quesito n. 4: con esso si propone
di abrogare l’art. 3, comma 2, della legge n. 243/2012, ove si prescrive che
“L’equilibrio dei bilanci corrisponde all’obiettivo a medio termine”. Secondo i
promotori, questa regola non sarebbe imposta né dalla Costituzione, né dal
Fiscal Compact. Vero è che l’art. 97, comma 1, Cost. prescrive che le pubbliche
amministrazioni assicurino l’equilibrio dei bilanci senza che, dunque, vi sia
alcun collegamento con l’obiettivo a medio termine, ma è pur vero che la stessa
disposizione costituzionale rinvia a quanto stabilisce in materia l’Unione
europea. E da questo punto di vista – sebbene la sua natura giuridica possa
essere discussa (un “trattato internazionale di diritto para-europeo”, così lo
definiscono i promotori) – il Fiscal Compact prescrive: 1) che “la posizione di
bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o
in avanzo”; 2) che tale regola “si considera rispettata se il saldo strutturale
annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine
specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita
rivisto; 3) che ogni intervento volto a rendere più flessibile la regola stessa
è affidato alla competenza della Commissione europea, che definisce il quadro
temporale perché gli Stati assicurino “la rapida convergenza verso il loro
rispettivo obiettivo di medio termine”, tenendo conto dei rischi specifici del
paese sul piano della sostenibilità. È ad essa, dunque, che spetta valutare
globalmente i progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto dello
stesso, non certo allo Stato membro.
Per queste ragioni – di legittimità e di merito –
ritengo non sia opportuno sostenere i quesiti referendari. Credo, invece, che
sia assolutamente urgente promuovere una campagna politica di opposizione alla
revisione costituzionale come
immaginata dal Governo Renzi, anche al fine di evitare che sia approvata a
maggioranza qualificata, in modo da consentire, invece, che sulla stessa possa
celebrarsi il referendum costituzionale (art. 138 Cost.). Sarebbe non già una
battaglia di retroguardia, ma una battaglia di civiltà.
Enzo Di Salvatore
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