Oggetto: Risoluzione
7-00034 – Commissioni riunite (VIII e X) - Camera dei Deputati
1. La legge 11 gennaio 1957, n. 6 aveva
disciplinato le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi liquidi
e gassosi e stabilito che essa trovasse applicazione
in tutto il territorio dello Stato ad eccezione della Sicilia,
della Sardegna e del Trentino-Alto Adige e delle “zone diverse da quelle
delimitate nella tabella A, allegata alla legge 10 febbraio 1953, n. 136” ossia
di quelle aree territoriali riservate
all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI).
Con la legge 21
luglio 1967, n. 613 si era quindi recata una disciplina di dette attività in relazione al mare territoriale e alla
piattaforma continentale, provvedendosi in parte a sostituire e in parte
ad abrogare alcune previsioni della legge del 1957. Per la prima volta si
introduceva una disciplina dell’attività
di prospezione “consistente in rilievi geologici, geofisici e
geochimici, eseguiti con qualunque metodo o mezzo, escluse le perforazioni
meccaniche fatta eccezione per quelle necessarie per compiere i rilievi
geofisici” e si stabiliva che il permesso di ricerca “esclusivo” fosse rilasciato con decreto del Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato unitamente
all’approvazione del programma dei
lavori per una durata massima di quattro
anni; che al titolare del
permesso, che avesse rinvenuto idrocarburi liquidi o gassosi, fosse da accordare senz’altro la concessione alla coltivazione secondo
l’estensione e la configurazione dell’area determinata con decreto dello stesso
Ministro e per una durata massima di trenta
anni (prorogabili per altri dieci); che oltre alla corresponsione anticipata di un canone per
ciascun anno di durata della concessione, il concessionario dovesse
corrispondere allo Stato una aliquota
del prodotto pari al nove per cento della quantità di idrocarburi
estratti.
La legge 9 gennaio 1991, n. 9 abrogava diverse disposizioni delle leggi
del 1957 e del 1967 e disponeva che alcune
previsioni concernenti la coltivazione degli idrocarburi nel mare
territoriale e nella piattaforma continentale fossero estese anche alle concessioni di coltivazione in terraferma. Con
essa si stabiliva – per la prima volta – che la prospezione, la ricerca
e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi dovessero essere
assoggettate a valutazione di impatto
ambientale (VIA) e “a ripristino
territoriale nei limiti e con le procedure previsti dalla normativa
vigente” (art. 2, comma 3) ossia secondo quanto previsto dalla legge 8 luglio
1986, n. 349, il cui art. 6 dettava
una disciplina transitoria della VIA,
in attesa che si desse compiuta attuazione alla Direttiva 85/337/CEE del 27
giugno 1985.
La legge n.
9/1991 faceva divieto di esercitare le
attività relative agli idrocarburi nelle acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi,
“fatti salvi i permessi, le autorizzazioni e le concessioni in atto” (art. 4) e sospendeva i permessi di ricerca
nelle zone dichiarate parco nazionale o riserva marina (art. 6, comma 13). Essa
contemplava la possibilità che
il permesso di ricerca fosse revocato “anche su istanza di pubbliche
amministrazioni o di associazioni di cittadini”, per “gravi motivi attinenti al
pregiudizio di situazioni di particolare valore ambientale o
archeologico-monumentale” (art. 6,
comma 11).
In questo modo,
si disciplinava in modo unitario – e cioè sia in relazione alla terraferma sia in
relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale – le diverse fasi della prospezione,
della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi,
stabilendosi che i relativi titoli
fossero rilasciati dal Ministro dell’industria, del commercio e
dell’artigianato, sentito il Comitato tecnico per gli idrocarburi e la
geotermia e la Regione o la Provincia autonoma di Trento o di Bolzano
territorialmente interessata.
La Regione Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano
impugnavano, tuttavia, detta disciplina dinanzi alla Corte costituzionale,
denunciando l’indebita avocazione in capo allo Stato delle competenze
legislative in materia di idrocarburi ovvero la lesione di competenze costituzionalmente
garantite, determinata dal ruolo
meramente consultivo riservato ad esse dalla legge, “del tutto
parificato a quello delle regioni a statuto ordinario prive di attribuzioni
costituzionali nel settore delle miniere”.
Con sentenza n.
482/1991, la Corte costituzionale, dopo aver sostenuto che la legge censurata
si proponesse non già di recare “misure
settoriali su singole materie”, ma di predisporre “una serie di strumenti”
finalizzati “ad una gestione globale ed integrata delle risorse energetiche sul
territorio” (con ciò trasferendo di fatto la problematica dall’ambito materiale delle “miniere” al
“settore dell’energia”), dichiarava illegittime alcune disposizioni della legge
per non aver previsto il
rilascio dell’intesa regionale sui titoli minerari in luogo del mero
parere.
2. Sebbene sia discutibile l’idea che
gli “idrocarburi”, qualificati dalla Corte costituzionale nella sentenza
predetta come “una delle materie prime energetiche”, possano essere ascrivibili
al settore energetico e non già all’ambito materiale delle miniere – posto che in
questo modo non si manterrebbe distinta la competenza sulle attività volte al rinvenimento e all’estrazione
delle sostanze minerarie da quella
sulle attività finalizzate alla produzione dell’energia – la pronuncia del
giudice delle leggi ha finito per riverberarsi finanche sulla successiva
normativa varata dal Parlamento italiano e sulla riforma costituzionale del
Titolo V approvata nel 2001.
Mentre, infatti,
la disciplina recata dal decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, di
attuazione della direttiva 94/22/CE concernente le condizioni di rilascio e di
esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di
idrocarburi, riconduceva la questione entro la materia delle “miniere”, quella contenuta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112,
attraeva la stessa entro il “settore”
dell’energia. D’altra parte, l’art.
117, comma 3, della Costituzione – come modificato dalla riforma
costituzionale del 2001 – ha annoverato la “produzione”, il “trasporto” e la “distribuzione nazionale dell’energia” tra
le “materie di legislazione
concorrente”, con ciò recependo quasi pedissequamente la formulazione
recata dal d.lgs n. 112 del 1998.
Ciò ha finito
per incidere sulle relazioni tra tutti
i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio globale al settore energetico,
inteso non tanto (e non più) come “materia”,
quanto, invece, quale “politica
energetica nazionale”.
Su queste basi,
la legge 23 agosto 2004, n. 239
ha aderito ad una macronozione di
“materia”, innestando la sua disciplina non già sulla separazione della competenza
legislativa tra il livello statale (chiamato a porre i principi) e il livello
regionale (chiamato a recare la normativa di dettaglio), ma sugli “obiettivi” da raggiungere. In essa, infatti, si legge che “gli obiettivi e le linee della politica
energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello
territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei
meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali” e che la
loro concreta realizzazione è assicurata “sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione dallo
Stato, dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dalle regioni e dagli
enti locali” (art. 1, commi 1 e 3).
Tra le attività del settore energetico vengono, quindi, annoverate anche
quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi, le cui “determinazioni” –
in relazione alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli stessi –
sono riservate allo Stato, di intesa con le Regioni interessate.
I commi 77-82 dell’art. 1 della legge – come modificati dalla legge 23
luglio 2009, n. 99 – recano, quindi, una nuova e parziale disciplina dei
procedimenti autorizzatori, prevedendo quanto segue:
- il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in
terraferma è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale
partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate; esso consente
solo lo svolgimento delle attività di prospezione, esclusa la perforazione dei
pozzi esplorativi, per la quale occorre apposita autorizzazione da parte
dell’ufficio territoriale minerario per gli idrocarburi e la geotermia competente,
rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale, oltre alla Regione,
partecipano anche gli enti locali interessati;
- il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in
mare è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano
le amministrazioni statali interessate. Anche in questo caso è esclusa la
perforazione del pozzo esplorativo, per la quale occorre apposita
autorizzazione, previa valutazione di impatto ambientale;
- la concessione alla coltivazione di idrocarburi liquidi e
gassosi è rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano
le amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n) del
presente articolo, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le
modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”. In quest’ultimo caso
parrebbe che la disciplina del procedimento autorizzatorio concerna allo stesso
modo tanto le attività in terraferma quanto quelle in mare. Il problema che si
pone è quello di comprendere quali siano i soggetti legittimati a prender parte
al procedimento finalizzato al rilascio del titolo minerario ovvero se lo Stato
sia tenuto a stringere l’intesa con la Regione per entrambi i casi. In favore
della soluzione positiva deporrebbe la circostanza che la legge non distingue
tra coltivazione di idrocarburi in terraferma e coltivazione di idrocarburi in
mare (mentre il successivo comma 82-quater fa espresso riferimento alla
sola coltivazione in terraferma). A sostegno della soluzione negativa starebbe,
invece, il fatto che la stessa legge in altra sua parte stabilisce che le
determinazioni inerenti alla coltivazione di idrocarburi sono adottate sì “di
intesa con le regioni interessate”, ma unicamente qualora ciò concerna la
terraferma.
Quanto alla disciplina della valutazione di impatto ambientale delle
attività concernenti gli idrocarburi, il comma 79 dell’art. 1 della legge del
2004 aveva inizialmente disposto quanto segue: “la
procedura di valutazione di impatto ambientale, ove richiesta dalle norme
vigenti, si conclude entro il termine di tre mesi per le attività in terraferma
ed entro il termine di quattro mesi per le attività in mare e costituisce parte
integrante e condizione necessaria del procedimento autorizzativo”. A seguito
della sostituzione dei commi 77-82 dell’art. 1
della legge n. 239/2004 effettuata con l’art. 27, comma 34, della legge n.
99/2009, il nuovo comma 81 ha poi abrogato tale disposizione, stabilendo che
l’attività di “prospezione” fosse soggetta (solo) alla procedura di screening
ambientale, tranne qualora essa avesse trovato svolgimento all’interno di are
marine a qualsiasi titolo protette (per ragioni di carattere ambientale, di
ripopolamento, archeologico, ecc.). Nel qual caso, sarebbe stato obbligatorio
procedere a valutazione di impatto ambientale o comunque ad altro tipo di
valutazione. Il comma 81, tuttavia, è stato abrogato
dal d.lgs. n. 128/2010, limitatamente alle attività di
prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in mare.
3. A seguito del disastro petrolifero avutosi nel Golfo del Messico nel
2010, il Governo, con d.lgs. n. 128/2010 ha inserito il comma 17 nell’art. 6
del Codice dell’ambiente del 2006, stabilendo quanto segue: “Ai fini di tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e
costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù
di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni
internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di
coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4,
6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto è altresì stabilito nelle
zone di mare poste entro dodici miglia marine dal perimetro esterno delle
suddette aree marine e costiere protette, oltre che per i soli idrocarburi
liquidi nella fascia marina compresa entro cinque miglia dalle linee di base
delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero nazionale. Al di
fuori delle medesime aree, le predette attività sono autorizzate previa sottoposizione
alla procedura di valutazione di impatto ambientale di cui agli articoli 21 e
seguenti del presente decreto, sentito il parere degli enti locali posti in un
raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività
di cui al primo periodo. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano
ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore del
presente comma. Resta ferma l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati
alla stessa data. Dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui al presente
comma è abrogato il comma 81 dell’articolo 1 della legge 23 agosto 2004, n.
239”.
In questo modo, per un verso, si era stabilito che le attività di ricerca
e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi fossero vietate all’interno
di aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela
ambientale ed anche nelle zone di mare poste entro dodici miglia marine dal
perimetro esterno alle suddette aree e, per altro verso, si era precisato che
tale divieto dovesse estendersi – ma solo in relazione agli idrocarburi liquidi
– a tutta la fascia marina compresa entro le cinque miglia dalle linee di base
delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero italiano.
Contestualmente si era, quindi, previsto che tali divieti si applicassero anche
ai procedimenti non ancora conclusi con il rilascio di un titolo abilitativo,
fermo restando l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati.
4. Il 12 gennaio 2011 il Ministero dell’ambiente e della tutela del
territorio e del mare ha sottoposto al Consiglio di Stato alcuni quesiti
concernenti l’interpretazione dell’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente.
Nel suo parere, il Consiglio di Stato ha affrontato diverse questioni e
ha fornito le seguenti risposte:
1) esso ha sostenuto che la nuova disciplina recata dal d.lgs. n.
128/2010, determinando l’abrogazione del comma 81 dell’art. 1 della legge n.
239/2004 (come modificata nel 2009), avesse “ripristinato la disciplina
vigente”. Questa conclusione non può, però, dirsi convincente, atteso che la
nuova disciplina del Codice dell’ambiente concerne solo le attività in mare e,
pertanto, solo queste sarebbero da sottoporre obbligatoriamente a valutazione
di impatto ambientale. Per le attività in terraferma – e pur restando
impregiudicata la procedura di screening ambientale – la sottoposizione
delle attività concernenti gli idrocarburi si configura, infatti, solo come
eventuale, posto che l’obbligatorietà della stessa investe, di per sé,
unicamente la ricerca da effettuarsi con la tecnica del pozzo esplorativo, la
costruzione degli impianti e delle opere necessari, delle opere connesse e
delle infrastrutture indispensabili alle attività di perforazione (art. 1,
comma 80, legge n. 239/2004, come modificato dalla legge n. 99/2009);
2) il Consiglio di Stato ha precisato che alla locuzione “aree marine e
costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale” deve
rendersi un significato ampio, ricomprensivo finanche di “una protezione
meramente interinale e temporanea”, quale è quella assicurata dalla direttiva
92/43/CEE e da quella nazionale di recepimento “ai siti classificati come pSIC
e ai SIC, prima che i medesimi siano qualificati come Zone Speciali di
conservazione (ZSC)”;
3) circa il significato da attribuire alla locuzione “titoli abilitativi”
già rilasciati alla data di entrata in vigore della modifica legislativa, la
cui efficacia è fatta salva dal d.lgs. n. 128/2010, il Consiglio di Stato ha
precisato che il riferimento normativo è ad ogni titolo minerario dotato di
propria autonomia, e cioè al permesso di prospezione, al permesso di ricerca e
alla concessione di coltivazione. È appena il caso di precisare, però, che,
sebbene la legge n. 9/1991 e il disciplinare tipo approvato con decreto del Ministero
dello sviluppo economico (marzo 2011) considerino separatamente i permessi di
prospezione e quelli di ricerca, la distinzione in discorso non ha ragione di
porsi, posto che il permesso di ricerca consente di per sé la sola prospezione,
necessitando, invece, la ricerca effettuata con il pozzo esplorativo di
apposita autorizzazione ministeriale, che trova comunque innesto nello stesso
permesso originariamente rilasciato. Ciò detto, il problema più spinoso che il
Consiglio ha affrontato concerneva, in realtà la “portata” dei titoli già
rilasciati (e tutelati dal legittimo affidamento per le società operanti nel
settore) e cioè: da un lato, la possibilità di ritenere garantito, attraverso
il mantenimento del titolo già posseduto, anche il rilascio di titoli
ulteriori, relativi ad attività che si fossero poste in relazione di sviluppo
consequenziale con quello (ed es. il rilascio della concessione di coltivazione
rispetto al permesso di ricerca); dall’altro, la possibilità che detta garanzia
fosse estensibile a provvedimenti conseguenti e connessi con quello (ad es.
l’autorizzazione alla perforazione del pozzo esplorativo rispetto al permesso
di ricerca, alla costruzione degli impianti necessari, ecc.). Da questo punto
di vista, muovendo da una interpretazione teleologico-funzionale della
disposizione legislativa, il Consiglio di Stato ha ritenuto coperto dalla
garanzia legislativa solo ciò che costituisce attuazione dei provvedimenti già
adottati, mentre “devono, invece, ritenersi esorbitanti dalla misura di salvaguardia
ricordata quelle iniziative che si risolvono nell’esistenza di un nuovo titolo
abilitativo o, comunque, in una modifica del titolo già esistente, e ciò
perché, tali iniziative essendo volte a tali finalità, da una parte suppongono
nuovi procedimenti, in quanto tali regolati dalla nuova disciplina, dall’altra
non si muovono nell’ambito delle autorizzazioni già emanate all’atto
dell’entrata in vigore della nuova normativa, ma ne suppongono la modifica
ovvero il superamento con un nuovo titolo abilitativo”.
Collegata a questa prospettiva è quindi la questione del provvedimento di
proroga del titolo già conferito alla scadenza del termine inizialmente
fissato. A parere del Consiglio di Stato, la disposizione legislativa non
avrebbe offerto copertura a provvedimenti siffatti, posto che questi,
qualificati come provvedimenti “di secondo grado”, avrebbero comportato una
modifica sostanziale del provvedimento adottato ab origine.
È appena il caso di osservare che nessun quesito del Ministero ha
riguardato, invece, l’art. 6, comma 17, nella parte in cui stabiliva che le sue
disposizioni dovessero applicarsi anche ai procedimenti autorizzatori in corso.
In via di prassi, e fino alla successiva modifica legislativa operata dal d.l.
22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134, il Ministero
dello sviluppo economico ha interpretato quella previsione non già come divieto, ma come sospensione dei procedimenti in itinere.
5. A seguito del parere reso dal Consiglio di Stato, l’art. 6, comma 17, del
Codice dell’ambiente è stato modificato dapprima con d.l. 9 febbraio 2012, n.
5, convertito con l. 4 aprile 2012, n. 35, e poi
con il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134
(“decreto sviluppo”)-.
In base
a tali modifiche, l’art. 6, comma 17, vieta ora lo svolgimento delle attività
di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi ed anche gassosi
nelle aree marine e costiere “a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela
ambientale” ed estende detto divieto alle zone di mare poste entro le dodici
miglia dalla costa per l’intero perimetro costiero nazionale (che in presenza
di un’area marina protetta si calcola a partire dal perimetro esterno), facendo
tuttavia salvi i procedimenti concessori in corso alla data di entrata in
vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128.
In questo modo, il divieto di svolgimento delle attività di prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi non trova (più)
applicazione ai procedimenti avviati e non ancora conclusi alla data di entrata
in vigore del decreto (26 agosto 2012), e ciò ha determinato un riavvio dei
procedimenti al tempo “sospesi” dal d.lgs. n. 128/2010. Circostanza, questa,
che renderebbe la disciplina del tutto irragionevole, in quanto,
giustificandosi il divieto con finalità di tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema (come si legge allo stesso comma 17 dell’art. 6), resterebbe da
spiegare come mai le predette finalità sussistano solo in relazione alle
attività per le quali non sia stata ancora presentata istanza di rilascio del
titolo e non anche per quelle che, pur essendo stata presentata istanza per il
rilascio del titolo, non siano ancora autorizzate.
Nella relazione allegata al “decreto sviluppo” il Governo ha, invero,
giustificato questa scelta con il seguente argomento: “La norma sblocca 4,5
miliardi di investimento in 8 progetti di sviluppo di giacimenti già
individuati e perforati e non ancora messi in produzione, altrimenti destinati
a restare improduttivi con oneri a carico dello Stato, evitando inoltre
richieste di risarcimento da parte delle imprese allo Stato italiano per la
revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso”. Questo argomento,
tuttavia, non ha pregio, atteso che il divieto posto dal d.lgs. del 2010 aveva
ad oggetto solo le future richieste di esercizio di quelle attività ed anche i
procedimenti già avviati, ma non ancora conclusi, senza che ciò incidesse
sull’efficacia dei titoli già rilasciati. Ragion per cui non si sarebbe potuto
sostenere che, in questo modo, restasse compromesso il legittimo affidamento
delle società petrolifere, essendo un eventuale investimento da loro effettuato
medio tempore riconducibile al
consueto rischio che accompagna l’iniziativa economica privata dell’operatore
economico.
L’autorizzazione allo svolgimento di tali attività deve essere preceduta
dalla VIA
e deve essere acquisito il parere degli Enti locali posti in un raggio di
dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle stesse.
Qui la richiesta obbligatoria del parere degli Enti locali riguarda
l’autorizzazione all’esercizio delle attività, non già la VIA. Se così non
fosse si finirebbe per escludere l’applicazione dell’art. 25, comma 2, del
Codice dell’ambiente, ove si prevede che anche alla Regione interessata deve
essere richiesto il parere in fase di VIA
ovvero si finirebbe per considerare come obbligatoria la richiesta del parere
per ogni VIA tranne che per quella che dovesse concernere gli idrocarburi
(fermo restando che non si comprende come mai la partecipazione al rilascio
dell’autorizzazione non sia prevista anche per l’ente regionale). È appena il
caso di aggiungere che la legge di conversione del decreto ha sottratto alla
procedura VIA le attività finalizzate a migliorare le prestazioni degli impianti
di coltivazione di idrocarburi, compresa la perforazione, se effettuate a
partire da opere esistenti e nell’ambito dei limiti di produzione ed emissione
dei programmi di lavoro già approvati (ex
art. 1, comma 82-sexies, l. n. 239/2004).
6. La risoluzione 7-00034, presentata dall’On. Bianchi e portata
all’attenzione delle Commissioni VIII e X, si propone di impegnare il Governo
“(1) a sospendere ogni forma di autorizzazione per nuove attività di
prospezione e coltivazione di giacimenti petroliferi nell’Adriatico e più in
generale nel Mediterraneo in attesa che un’apposita Conferenza dei Paesi
rivieraschi individui, sul modello della citata «Conferenza internazionale
delle regioni adriatiche e ioniche», una regolamentazione comune delle attività
estrattive e di esplorazione degli idrocarburi; (2) ad
assumere iniziative per modificare la normativa riguardante le attività di
ricerca, di prospezione e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in
mare, ripristinando il divieto nello spazio di 12 miglia dalla costa per i
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n.
128 del 2010, per evitare che si creino situazioni che ne disattendano la
finalità, cioè la garanzia di maggiore rigore nella tutela ambientale, e per
rendere le disposizioni chiare, certe e applicabili, in condizioni di equità, a
tutti i soggetti che operano nel settore della ricerca, prospezione e
coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi in mare; (3) a non mettere a
rischio e a non pregiudicare, neanche potenzialmente, lo stato delle aree di
reperimento di parchi costieri e marini e di aree marine protette, impedendo
quindi l’avvio di nuovi impianti e attività di ricerca, prospezione e
coltivazione di idrocarburi in mare oltre ad assoggettare a valutazione
ambientale per motivi di dovuta cautela e precauzione e con il massimo
coinvolgimento delle comunità interessate anche le attività finalizzate a
migliorare le prestazione degli impianti di coltivazione di idrocarburi di cui
all’articolo 1 comma 82-sexies della legge 23 agosto 2004 n. 239; (4) ad
adottare tutte le iniziative necessarie, anche normative, affinché i titolari
di concessioni per ricerca ed estrazione di idrocarburi garantiscano adeguati
piani di emergenza e le risorse economiche per la copertura degli interventi
immediati di sicurezza, disinquinamento e bonifica, in caso di incidente, anche
attraverso il deposito di adeguate cauzioni; (5) a verificare la sussistenza
dei requisiti economici e tecnici delle società titolari di permessi di ricerca
in modo da garantire efficienza tecnica, sicurezza e pieno rispetto di tutte le
prescrizioni e dei vincoli stabiliti dalle autorità competenti: non solo degli
obblighi – stabiliti dal Ministero dello sviluppo economico – per la gestione
degli impianti e la sicurezza mineraria – ma anche, in particolare dei vincoli
disposti da Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e
dalle regioni per gli aspetti di compatibilità ambientale nella realizzazione e
gestione di impianti e pozzi, tenuto conto delle tecniche e delle conoscenze
più avanzate per il «buon governo» dei giacimenti”.
In proposito si osserva che la richiesta formulata sub (1) risulta ambigua, in quanto non si comprende quali possano
essere le “nuove” attività delle quali si auspica la sospensione di “ogni forma
di autorizzazione”: se tali attività sono, infatti, già autorizzate non possono
essere, a rigore, qualificate come “nuove”. Qui, probabilmente, l’invito
rivolto al Governo è a non rilasciare (e non già a sospendere) nuovi titoli
minerari, in attesa che si provveda alla convocazione di una apposita
Conferenza dei Paesi rivieraschi. In ogni caso sarebbe opportuno che tale
richiesta (che, se ben inteso, avrebbe ad oggetto solo gli idrocarburi liquidi)
sia fatta precedere da una modifica legislativa, con cui – come auspicato
appunto sub (2) – il divieto delle 12
miglia marine all’esercizio delle attività concernenti gli idrocarburi liquidi
e gassosi venga esteso (e non già ripristinato) anche ai procedimenti in
itinere. Va da sé che una siffatta misura assorbirebbe anche la richiesta sub (3), nella parte in cui si chiede al
Governo di adoperarsi affinché non sia compromesso “lo stato delle aree di
reperimento di parchi costieri e marini e di aree marine protette”. Quanto alle
richieste sub (4) e (5), esse si
traducono – in buona sostanza – nell’impegno ad adottare tutte le iniziative
necessarie (anche normative) affinché gli operatori del settore diano adeguate
garanzie tecniche ed economiche circa la sicurezza delle attività poste in
essere.
A tal riguardo occorre comunque ricordare che la direttiva 2013/30/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 12 giugno 2013 sulla sicurezza delle
operazioni in mare nel settore degli idrocarburi (la quale modifica anche la
direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) stabilisce i
requisiti minimi per prevenire gli
incidenti gravi nelle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi e limitare le conseguenze di tali
incidenti. In particolare, essa prescrive che il rilascio dei titoli
abilitativi avvenga previa valutazione della capacità tecnica e finanziaria del
richiedente, il quale dovrà provare di aver adottato (o che adotterà) – sulla
base di disposizioni che saranno decise dagli Stati membri – misure adeguate
per coprire le responsabilità potenziali derivanti dalle operazioni in mare
(art. 4, § 3)-.
7. Dalla discussione avviata sulla risoluzione in oggetto si evince che taluni
ritengono che nell’elaborazione del documento da presentare al Governo si debba
necessariamente tener conto dei contenuti della Strategia Energetica Nazionale
(SEN), approvata l’8 marzo 2013 con decreto interministeriale (Ministro dello
sviluppo economico e Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare) non avente natura regolamentare. Si fa, tuttavia, presente che tale atto
pone seri dubbi di legittimità per le ragioni che seguono.
Con referendum del 12 e 13 giugno 2011 il corpo elettorale ha abrogato i
commi 1 e 8 dell’art. 5 del decreto-legge n. 34/2011, come convertito con legge
n. 75/2011 e, con ciò, anche il fondamento legislativo della SEN, nonostante
questa fosse stata richiamata dal d.lgs. n. 93/2011 del 1° giugno 2011 e, cioè
pochi giorni prima che il corpo elettorale si pronunciasse. L’art. 1, comma 2,
del decreto, infatti, prevedeva che entro sei mesi dalla sua entrata in vigore
il Ministero dello sviluppo economico, secondo la procedura ivi indicata e in
coerenza con gli obiettivi della SEN, definisse una serie di “scenari
decennali” per la politica energetica del Paese e che il Presidente del
Consiglio dei Ministri, sulla base di tali “scenari”, individuasse le necessità
minime di realizzazione di impianti e di infrastrutture anche relativi – ma
solo in parte – agli idrocarburi. Ora, con il d.lgs. n. 93/2011 il Governo ha
dato seguito alla delega contenuta nell’art. 17 della l.d. 4 giugno 2010, n.
96, recante principi e criteri direttivi per l’attuazione di alcune direttive
CE, spingendosi, però, oltre quanto richiesto dal Parlamento, posto che: 1)
nella legge delega non vi è alcun riferimento alla SEN (e dovendosi presupporre
che l’abrogazione referendaria intervenuta, incidendo sulle norme e non sulle
disposizioni formalmente sottoposte all’attenzione del corpo elettorale,
avrebbe determinato la cessazione della vigenza di ogni norma relativa alla
SEN); 2) anche qualora si volesse ricavare dalla legge una implicita delega
all’elaborazione dei contenuti della SEN, resta indubbio che tale delega non si
riferisce al rilancio degli idrocarburi liquidi e gassosi, come invece risulta
dal documento SEN (p. 111 ss.), ove si individuano cinque zone territoriali
(anche marine) strategiche per lo sviluppo del settore: val Padana, Alto
Adriatico, Abruzzo, Basilicata e Canale di Sicilia.
In questo modo, all’art. 6,
comma 17, sesto periodo, d.lgs.
3 aprile 2006, dopo le parole “titoli abilitativi già
rilasciati alla stessa data”, si aggiungevano le parole “anche ai fini delle
eventuali relative proroghe”.
È appena il caso di osservare
come il 22 novembre 2012 è stata riavviata la procedura VIA relativa
all’istanza di concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi
e gassosi “d30B.C-MD” – Progetto di coltivazione del giacimento “Ombrina Mare”, che il 25 gennaio 2013 ha
ottenuto parere positivo con prescrizioni da parte della Commissione Tecnica di
Verifica dell’Impatto Ambientale. A seguito del
(tardivo) parere inviato dalla Regione Abruzzo in data 4 marzo 2013, la
Commissione ha svolto un “supplemento istruttorio”, confermando, tuttavia, il
precedente parere del 25 gennaio 2013. In data 9 luglio 2013, però, il
Ministero dell’ambiente ha deciso di avviare la procedura AIA (prot. n. DVA-20134016085). Detto provvedimento è stato impugnato dalla S.p.A. Medoilgas
Italia dinanzi al T.A.R. Lazio, che si è pronunciato il 9 gennaio scorso.
Si coglie l’occasione per
precisare che il diritto dell’Unione europea non impedisce che gli Stati membri
decidano di precludere determinate aree del proprio territorio – dunque anche
del mare territoriale – all’esercizio delle attività concernenti gli
idrocarburi liquidi e gassosi (cfr. art. 2, § 1, direttiva 94/22/CE) né di
condizionare o limitare l’esercizio delle attività già autorizzate per finalità
di carattere ambientale, pubblica sanità, sicurezza nazionale, ecc. (art. 6, §
2, direttiva cit.); ciò conformemente, del resto, a quanto risulta stabilito
dall’art. 194, § 2, TFUE, ove si dispone che le disposizioni dei Trattati “non
incidono sul diritto di uno Stato membro di determinare le condizioni di
utilizzo delle sue fonti energetiche, la scelta tra varie fonti energetiche e
la struttura generale del suo approvvigionamento energetico, fatto salvo
l’articolo 192, paragrafo 2, lettera c)”, e cioè a meno che il Consiglio,
deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa
consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del
Comitato delle regioni, non adotti “misure aventi una sensibile incidenza sulla
scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura
generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo”. Si tenga presente,
comunque, che lo stesso art. 192, § 1, TFUE, fa salva la possibilità del
ricorso in materia al “ravvicinamento delle legislazioni”, di cui all’art. 114
TFUE. In relazione alla problematica in discorso va, inoltre, segnalata la
decisione 2013/5/UE del Consiglio del 17 dicembre 2012 sull’adesione dell’UE al
protocollo relativo alla protezione del Mare Mediterraneo dall’inquinamento
derivante dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma
continentale, del fondo del mare e del suo sottosuolo. Il presente scritto non
considera, invece, i più recenti decreti ministeriali, con i quali, sulla base
di quanto consentito dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 625/1996, sono state
determinate ulteriori aree della piattaforma continentale per le attività di
prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi: per i quali si v. Il mare. Supplemento al BUIG del 28
febbraio 2013, reperibile sul sito: http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it (cui però va aggiunto il decreto
ministeriale del 9 agosto 2013, relativo alla “rimodulazione” della “zona E”).