René Magritte, Man Ray e gli altri, che verso la fine degli anni ‘20 del secolo scorso si ritrovarono sovente presso il Caffè “Cyrano” di Place Blanche di Parigi a discutere della vita, si proposero di sovvertire la cultura dominante e di far piazza pulita, così, di tutte le ingiustizie del mondo. Borghesi e cattolici per nascita, essi lottarono contro la borghesia e il cattolicesimo, colpevoli di aver reso possibile, attraverso le idee e la pratica dei costumi, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, la diseguaglianza sociale, il militarismo colonialista. La maggior parte dei rivoluzionari giunse a contrapporre al perbenismo e ad una certa morale in voga l’irrazionalità, il sogno, la mistificazione, la blasfemia, lasciando che un impulso distruttivo pervadesse, infine, il proprio credo. Molti anni più tardi Luis Buñuel avrebbe confessato che l’idea di incendiare un museo lo allettò “più dell’apertura di un centro culturale o dell’inaugurazione di un ospedale”. Confessione, questa, che metterebbe, invero, a nudo l’illusorietà della rivoluzione annunciata dai surrealisti, in quanto le opere di Magritte, di Ray e degli altri trovano oggi accoglienza nei principali musei del pianeta ovvero sono parte di quella cultura ufficiale contro cui essi stessi intesero lottare senza tregua. Tutti, tranne uno: proprio Buñuel.
Luis Buñuel ha subito il fascino delle parole scritte da Andrè Breton nel 1924; ha condiviso la passione e la morale coerente e rigorosa dei surrealisti; ha ammirato la vitalità creatrice della loro arte. Ma non è stato un surrealista in senso stretto. Dal punto di vista culturale, egli è stato un anarchico, che ha fatto uso anche di modalità espressive surrealiste. Taluni critici hanno sostenuto che con il film Las Hurdes (o Tierra sin pan) del 1932 Buñuel abbia inaugurato una nuova fase della sua opera, distaccandosi definitivamente dal surrealismo ed aprendo, così, ad un cinema di tipo realista. Questo rilievo appare, però, ozioso. Il ricorso a modalità espressive surrealiste o realiste non è adesione ad una dato manifesto ideologico. Il realismo di Buñuel non ha nulla a che vedere con il realismo di un Satyajit Ray; né presenta particolari affinità con il cinema neorealista di un De Sica o di un Rossellini: può anche darsi che il cinema di Buñuel sia stato talvolta carico di umanità, ma ad esso non può estendersi quanto Bazin ebbe a dire del cinema italiano, e cioè che questo fosse intriso di “umanesimo rivoluzionario”. I film di De Sica e di Rossellini anelano alla solidarietà, alla ricostruzione, ad una nuova idea di Stato e di società civile. I film di Buñuel non hanno questa pretesa. Al loro centro “senza centro” sta il potere costituito. Ed il regista, con molto sarcasmo e senza fare della spicciola psicologia, ne mostra i soprusi e le ipocrisie; che, poi, sono le debolezze dello Stato e della Chiesa – le due facce di una stessa falsa medaglia; dell’autorità militare e della classe borghese, che trae diretto alimento dal potere costituito e che non sa rinunciare ad esso senza rinunciare a se stessa.
Per questo, quando si visita il museo Reina Sofía di Madrid e si ammira il regista, nel ritratto che l’amico Dalì volle dedicargli, non si può essere tentati di pensare che anche Buñuel, al pari degli altri, sia stato infine sconfitto dalla storia. Al contrario: sebbene il suo sguardo si posi altrove, egli si prende ancora gioco di noi. E lo farà per sempre.
ENZO DI SALVATORE
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