Con la sentenza n. 85/2013 la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Gip e dal Tribunale di Taranto sul caso Ilva. Una pronuncia densa, complessa, che si concentra su ben 17 parametri di legittimità evocati dai giudici a quibus e che non può essere sintetizzata in poche righe.
Il mio intervento vuole avere ad oggetto unicamente due questioni.
1) La prima questione concerne la supposta (poi negata dalla Corte) violazione del diritto europeo da parte del decreto “Salva-Ilva”: in specie, del principio di precauzione e del principio “chi inquina paga”. La Corte dichiara inammissibile la questione perché il diritto europeo sarebbe stato dal giudice rimettente “genericamente evocato”, ossia senza che egli abbia dato conto di quali disposizioni sarebbero state lese. Anzi – è la Corte a sostenerlo – senza che abbia tenuto in concreta considerazione la specifica produzione normativa del diritto europeo in materia siderurgica.
D’accordo. La questione della lesione del diritto europeo è genericamente evocata. Ma visto che è la stessa Corte a tirare in ballo il diritto europeo e, segnatamente, la direttiva 2010/75/UE (richiamata, peraltro, dallo stesso decreto “Salva-Ilva”), mi preme qui ricordare che quella direttiva contiene una disposizione che dice: “Laddove la violazione delle condizioni di autorizzazione presenti un pericolo immediato per la salute umana o minacci di provocare ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente e sino a che la conformità non venga ripristinata … è sospeso l’esercizio dell’installazione …”. Vero è che la direttiva non è stata ancora attuata nel nostro ordinamento (e, da questo punto di vista, l’Italia è inadempiente, in quanto avrebbe dovuto farlo entro il 7 gennaio 2013!), ma è pur vero che quella previsione risulterebbe direttamente applicabile (e a maggior ragione lo è in quanto il termine per la sua attuazione è ampiamente scaduto!); essa, in altri termini, andrebbe comunque rispettata, a prescindere dal comportamento dello Stato: diversamente, l’obiettivo della direttiva verrebbe vanificato. D’altra parte, non si può pensare che la prescrizione sulla sospensione delle attività in caso di pericolo per la salute funzioni solo qualora l’attività siderurgica non sia conforme alle condizioni dettate dell’AIA. Che quelle attività debbano essere sospese lo si ricava dalla ratio di quella stessa previsione: suo scopo è la tutela incondizionata della salute e dell’ambiente.
Del resto, la direttiva 2008/1/CE, che viene richiamata nella sentenza poco più avanti, stabilisce che gli Stati membri “prendono le disposizioni necessarie affinché le autorità competenti garantiscano che l’impianto sia gestito in modo che … non si verifichino fenomeni di inquinamento significativi”. Ergo: se l’inquinamento è significativo, e cioè se da esso ne derivi un pericolo immediato per la salute umana o una minaccia seria ed immediata sull’ambiente, la produzione va fermata.
2) La seconda questione riguarda il c.d. bilanciamento dei diritti che risultano coinvolti nel caso Ilva. La parte costituita (e cioè la società Ilva) ha sostenuto che “sarebbe erronea la pretesa che i diritti in questione siano insuscettibili di qualunque bilanciamento, così dando vita ad una gerarchia tra i valori della quale non vi sarebbe traccia in Costituzione” (punto 3.2.4. del Ritenuto in fatto) e che spetterebbe al Legislatore procedere ad un contemperamento dei diversi diritti in gioco (punto 14.2. del Ritenuto in fatto; in senso adesivo anche l’Avvocatura dello Stato: punto 13.2.4. del Ritenuto in fatto): da un lato, vi sarebbe, dunque, “il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva”, corollario della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) (libertà evocata sia dal giudice a quo (punto 1.4.4. del Ritenuto in fatto), sia dalla parte costituita (punto 14.2. del Ritenuto in fatto), dall’altro, il diritto alla salute e all’ambiente salubre (art. 32 Cost.).
La Corte, che aderisce all’idea che il bilanciamento sia stato effettuato attraverso la combinazione di due atti (il decreto-legge e l’AIA “riesaminata”), considera in detto bilanciamento il diritto al lavoro e il diritto alla salute, ma non la libertà di iniziativa economica privata! Al punto 9 del Considerato in diritto si legge infatti: “La ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”. Dunque: non salute versus iniziativa economica privata, ma salute versus lavoro!
A questa conclusione la Corte approda muovendo dal seguente postulato: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.
Personalmente non ho mai capito in che cosa consista questo bilanciamento tra diritti, posto che, a mio modo di vedere, il bilanciamento non è mai tale, ma è solo un modo per consegnare nelle mani del Legislatore la possibilità di esprimere un giudizio di soccombenza o di prevalenza dell’un diritto rispetto all’altro.
Il ragionamento che la Corte imbastisce sulla “tirannia” dei diritti a me pare fuori luogo ed evoca, in tutta evidenza, il noto dibattito filosofico sulla “tirannia” dei “valori”, incentrato sulla constatazione di come un “valore” – per l’adesione cieca che richiede – possieda in sé una ovvia attitudine a porsi come “tiranno” rispetto ad un altro di segno contrario. In questa prospettiva, mentre Nicolai Hartmann (1926) ha sostenuto che detta “tirannia” potesse essere evitata attraverso una sintesi materiale ed oggettiva di tutti i valori, Carl Schmitt (1960) ha sottolineato, invece, come il “pensare per valori” (una “logica immanente” a cui “nessuno può dunque sfuggire”) sia altro dalla sua “realizzazione”, in quanto questa si concreterebbe sempre in un atto di “imposizione” e di trasformazione della “nostra terra in un inferno”.
Ora, questo ragionamento non può essere esteso – come fa la Corte – al piano dei diritti, in quanto i diritti sono posti e vanno interpretati per quel che sono (ossia: per quel che devono essere). Questo vuol dire che un diritto può benissimo avere preminenza su un altro, senza che questa preminenza debba essere qualificata come “tirannica”: è l’ordinamento giuridico che assegna a ciascun diritto il suo posto nel sistema, che disegna per esso una certa struttura, che prevede per esso certuni limiti o taluni “vantaggi”. Il giudizio di prevalenza, che, per restare al linguaggio della Corte, renderebbe “tiranno” un diritto rispetto all’altro, è in molti casi già risolto dalla Carta costituzionale. Quando la Costituzione dice che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana non ci sta forse dicendo che la sicurezza o la dignità umana hanno preminenza sul diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva? La libertà di iniziativa economica privata è dalla Costituzione considerata in contrapposizione alla dignità umana; quindi non si può neppure affermare – come invece fa la Corte – che tutti i diritti costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.
La Corte dice che il bilanciamento tra contrapposti diritti in gioco (il “punto di equilibrio”) è effettuato ragionevolmente dal decreto-legge e dall’AIA, in quanto la prosecuzione dell’attività produttiva è autorizzata per un tempo non superiore a 36 mesi nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche possibili. Ma qui – anche a voler per un momento prescindere dalle soluzioni offerte dalla Carta costituzionale – ci sarebbe da chiedersi: è davvero possibile pensare che il diritto alla salute sia suscettibile di bilanciamento? o è da ritenere, invece, che quel punto di equilibrio non si riassuma, di fatto, in una prevalenza di un diritto su un altro? Il diritto alla salute o è tutelato o non lo è! Come è possibile affermare che esista solo un “nucleo essenziale” del diritto alla salute che non può essere sacrificato? Resto a quello che scrive il giudice di Taranto nella sua ordinanza: “una lesione siffatta sarebbe già stata irrimediabilmente recata alla popolazione di Taranto e soprattutto ai bambini di quella Comunità”.
ENZO DI SALVATORE
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