1. La Costituzione italiana del 1947 decreta in modo irreversibile l’abbandono dell’ideologia totalitaria e guerrafondaia predicata dal fascismo e inaugura un’era nuova e rivoluzionaria rispetto al precedente assetto istituzionale. È l’avvento della liberal-democrazia, che si ricollega ai principi di matrice internazionale della libertà, della giustizia nelle relazioni tra gli Stati e del più profondo pacifismo.
In sede di lavori preparatori della Costituzione, il dibattito sulle materie di politica internazionale fu caratterizzato dall’intento (per lo più unanime) di privare lo Stato, una volta per tutte, di quella illimitata libertà di ricorrere alla forza armata. Fino ad allora ciò aveva costituito il tratto peculiare del potere istituzionale in genere: un vero e proprio jus ad bellum, conferito in capo agli organi di governo di ciascun Stato nazionale. Il condiviso sentimento di condanna di questa indiscriminata potestà, che aveva trascinato la Nazione nella più sanguinosa delle guerre, convinse l’Assemblea Costituente ad approvare l’art. 11 della Costituzione. In esso si è proclamato, anzitutto, il ripudio della guerra di aggressione. Detto principio costituisce uno dei capisaldi dell’ordinamento costituzionale italiano e traduce sul piano normativo interno allo Stato il valore supremo del mantenimento della pace e della giustizia tra le Nazioni. In questa prospettiva, l’Italia è tenuta a non muover guerra ad altri Stati. Un divieto che deriva sì dalle prescrizioni costituzionali appena ricordate, ma anche dal diritto internazionale. Tant’è che si è sottolineato come l’introduzione del principio in Costituzione fosse proprio dovuta all’intenzione dello Stato italiano di aderire all’ONU (il cui Statuto aveva autorevolmente sancito il perseguimento della pace e il divieto dell’uso della forza come principi fondamentali del diritto internazionale). Da un lato, dunque, la Costituzione italiana; dall’altra, il diritto internazionale: sul piano interno, lo Stato deve perseguire la pace e attivarsi per la sua conservazione, astenendosi dall’utilizzare la forza armata; sul piano internazionale, in quanto membro delle Nazioni Unite, esso ha l’obbligo di rispettare le disposizioni dello Statuto costitutivo e, in special modo, quanto posto all’art. 2, par. 4, che vieta, appunto, il ricorso alla forza armata. Tutto questo, com’è noto, non ha, però, impedito che negli ultimi trent’anni l’Italia restasse coinvolta in quelle che (forse con troppa disinvoltura) sono state definite “missioni di pace” o “interventi a fini di umanità”: missioni e interventi che, di fatto, presuppongono e determinano il ricorso alle armi.
2. Proprio al fine di accertare la legittimità della partecipazione italiana alle operazioni militari, ci si interroga sulla nozione di “guerra” accolta dall’ordinamento costituzionale e dallo Statuto delle Nazioni Unite. Innanzitutto, è difficile dare una definizione che esemplifichi, una volta per tutte, gli elementi costitutivi del fenomeno. Riprendo a tal riguardo le parole del von Clausevitz, per il quale la guerra è “un camaleonte che in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura”; vale a dire che riesce a mutare le sue modalità di manifestazione seguendo l’evoluzione del tempo. In questo senso, il diritto non può che prendere atto delle ragioni che spingono gli Stati all’aggressione per mezzo delle armi, a prescindere dalle forme utilizzate. Dal dibattito avutosi in Assemblea Costituente emerge con chiarezza la volontà di “bandire qualunque forma massiccia di violenza armata”, con il proposito di estendere il divieto della guerra a qualsivoglia ipotesi di utilizzo delle armi.
La consapevolezza del Costituente circa l’inopportunità di racchiudere il fenomeno in esame in una qualunque definizione schematica e astratta trova riscontro anche nel riferimento che l’art. 11 fa alla guerra intesa come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, laddove per “offesa” è da intendersi l’utilizzo della forza armata che leda l’indipendenza politica di un altro Stato o la sua “integrità territoriale” ovvero l’uso delle armi finalizzato a “ imporre con la forza ad un altro popolo, un regime o una struttura di governo che esso non desidera avere”. Ciò comporta che oggetto del divieto costituzionale sia non solo la guerra intesa come aggressione armata ai danni di uno Stato, bensì anche qualunque altra azione coercitiva mirata a soverchiare l’autodeterminazione, l’autonomia e l’indipendenza di altri Stati.
Per ciò che concerne la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il divieto si estende a qualunque ipotesi di contrasto tra Stati, essendo negata la facoltà di muover guerra ad altri per perseguire interessi di qualsiasi natura, siano essi economici, giuridici o meramente politici.
Peraltro, nella Carta Onu il termine “guerra” compare al primo punto del Preambolo, ove si enuncia l’intenzione di bandirne definitivamente l’uso. Qui e più avanti si fa riferimento all’uso della “forza” proprio al fine di ricomprendere non solo la guerra propriamente detta, ma anche qualunque ipotesi di violenza perpetrata a mezzo delle armi, dalla quale derivino gli stessi effetti.
3. La rinuncia alla guerra, in qualunque sua forma di manifestazione concreta, non può essere intesa come radicale rinuncia alle armi. Uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano è quello del perseguimento e del mantenimento della Pace, da cui deriva l’impegno degli organi di governo di salvaguardare l’equilibrio e la stabilità dello Stato, sia sul piano interno sia su quello esterno. In questo secondo caso, detto dovere si traduce nella legittimità della guerra “difensiva”, quale eccezione al generale ripudio della guerra. È sufficiente leggere quanto stabilisce l’art. 52 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. In tal senso, lo Stato è tenuto a predisporre un apparato militare stabile sul proprio territorio, al fine di respingere tempestivamente un attacco bellico altrui; i cittadini, per parte loro, dovranno ricorrere alle armi in caso di aggressione armata allo Stato. Tuttavia, proprio la legittimità costituzionale della guerra per scopi difensivi ha ingenerato, nel corso degli ultimi trent’anni, ripetuti fraintendimenti sul punto. Si prenda, ad esempio, il caso della partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia, effettuata sulla base della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle N.U. n. 1973/2011: qui sarebbe arduo sostenere che essa trovi copertura attraverso l’art. 52 della Costituzione. Come difficile sarebbe sostenere che siffatta partecipazione si configuri in termini di “legittima difesa”, ai sensi dell’art. 51 della Carta Onu, ove si parla espressamente di “attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”. Da questo punto di vista, non può dirsi che l’espressione “legittima difesa” – che autorizza gli Stati ad intervenire con le armi – ricomprenda persino l’ipotesi della “difesa preventiva”. Una simile conclusione – che ha portato taluni a ritenere che si possa ricorrere all’uso delle armi non già per muover guerra, bensì per “portare la pace” laddove questa sia anche solo in pericolo – risulta incompatibile con il principio pacifista e con il divieto sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta Onu.
4. Gli argomenti utilizzati per legittimare l’intervento militare in Libia si fondano proprio sulla pretesa compatibilità della risoluzione n. 1973/2011 con la Costituzione italiana e specificamente con il suo art. 11, in virtù del quale l’Italia può limitare la propria sovranità in favore di quelle organizzazioni internazionali che assicurino “la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Nella seduta della Camera dei deputati del 24 marzo 2011, il Ministro della Difesa on. La Russa ha sostenuto che l’accoglimento della citata risoluzione costituirebbe un atto dovuto in ossequio a quanto sancito dalla Costituzione, che impone il rispetto degli impegni assunti in ambito internazionale. In tal senso, i provvedimenti adottati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite avrebbero carattere derogatorio rispetto al principio costituzionale di ripudio della guerra.
Una simile lettura dell’art. 11 Cost. non può essere condivisa. Il principio del ripudio della guerra è un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, che non può essere derogato in nessun caso, neppure sulla base degli impegni assunti dall’Italia in ambito internazionale. Le limitazioni di sovranità, cui si riferisce l’art. 11 Cost., presuppongono, infatti, che si mantenga intatto il principio del ripudio della guerra: la partecipazione dell’Italia ad organizzazioni internazionali appare legittima solo a condizione che si rispetti detto principio, in ossequio allo spirito pacifista che anima l’intera Costituzione. Del resto, il rapporto tra il diritto internazionale e il diritto dello Stato non può essere inteso come un rapporto di assoluta e incondizionata prevalenza del primo sul secondo. Detta prevalenza – come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza – non può interessare il novero dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana. Principi e diritti assolutamente intangibili, che si configurano quali “controlimiti” alla prevalenza del diritto internazionale e, dunque, alle stesse limitazioni di sovranità. Per questa ragione si sarebbe dovuto concludere che la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari in Libia fosse, in realtà, illegittima.
RACHELE COCCIOLITO
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