martedì 31 luglio 2012

La scongiurata elusione dell’esito referendario sull’affidamento diretto dei servizi pubblici locali

1. La sentenza n. 199/2012, adottata dalla Corte costituzionale il 20 luglio scorso, presenta molteplici aspetti di interesse e verrà probabilmente ricordata per aver evitato che il legislatore eludesse il risultato del referendum tenutosi il 12 e 13 giugno 2011. Tuttavia, ciò che interessa sottolineare in queste brevi note non è il risultato ottenutosi con questa decisione, bensì la via che si è seguita per giungervi, che – occorre sottolinearlo sin da subito – è stata quella del giudizio in via principale, nell’ambito del quale le Regioni sarebbero limitate quanto ai parametri di costituzionalità invocabili. Per poter andare oltre, occorre preliminarmente riepilogare in breve i fatti che hanno condotto alla sentenza in parola.
Nelle date su indicate, il corpo elettorale si pronunciava nel senso dell’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il quale limitava fortemente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali. A soli 23 giorni dall’esito della consultazione referendaria, veniva emanato il d.l. n. 138/2011 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge 14 dicembre 2011, n. 148), che all’art. 4 recava l’ “adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’Unione europea”. Nonostante la rubrica, la ratio ispiratrice della normativa era assolutamente analoga a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112/2008. L’elusione dell’esito referendario ha, dunque, indotto diverse Regioni a proporre impugnazione avverso la nuova regolazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali; impugnazione, che la Corte ha accolto con la sentenza in commento, in quanto ha condiviso le censure regionali secondo cui la norma impugnata avrebbe nella sostanza riprodotto la norma oggetto dell’abrogazione referendaria. Anzi, la Corte ha ritenuto che la nuova normativa “rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi” ed, inoltre, “riproduce, ora nei principi, ora testualmente, talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008”.

2. Si è detto in apertura che ciò che interessa commentare in questa sede non è tanto l’esito cui la Corte è arrivata – che, peraltro, sia detto per inciso, è apprezzabile – quanto la via processuale con cui vi è giunta. La questione, infatti, è arrivata all’attenzione della Corte costituzionale mediante alcuni ricorsi regionali, che hanno dato avvio ad un giudizio in via principale, ed è stata risolta sulla base dell’art. 75 Cost. (Considerato in diritto, 5.2.3.: “Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 201, (…), per violazione dell’art. 75 Cost.”). Tuttavia, è ben noto che, secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza costituzionale, le Regioni possano agire in via principale solo per dedurre la lesione delle proprie competenze costituzionalmente garantite e non, invece, invocando come parametro norme costituzionali estranee al Titolo V della Costituzione, a meno che la violazione di quest’ultime non ridondi anche in una violazione del riparto delle competenze. Nonostante balzi immediatamente all’evidenza che l’art. 75 della Costituzione, che disciplina il referendum abrogativo, non attiene al riparto delle competenze, la Corte ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale comunque ammissibile.
Invero, il Giudice delle leggi, richiamato il proprio indirizzo giurisprudenziale, ritiene che le condizioni di ammissibilità delle censure sono soddisfatte, perché “le ricorrenti assumono che, con l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che riduceva le possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle Regioni e regolamentare degli enti locali, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si sono riespanse. (…) Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (…), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali”.
L’argomentazione costituisce chiaramente un “artificio”, con cui la Corte evita di dover dichiarare inammissibile la censura proposta, riuscendo a giungere ad una pronuncia di merito che tuteli l’esito referendario. E, per dimostrare che si tratta effettivamente di un (utile) “artificio”, basta richiamare alla mente la sent. n. 325 del 2010. Lì la Corte si pronunciava propria sulla legittimità costituzionale  dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (poi abrogato dal referendum e ora sostanzialmente ripreso dalla nuova normativa oggetto di impugnazione) e riteneva che “la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (…) va ricondotta (…) all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ‘tutela della concorrenza’”. Dal che consegue che “la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza” (Considerato in diritto, 7.).
Orbene, se è vero che il nuovo art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 è sostanzialmente analogo al più volte richiamato art. 23-bis (abrogato col referendum), se ne deve dedurre, mutatis mutandis, che il giudizio di prevalenza della competenza statale su quelle regionali e locali formulato nella sentenza n. 325/2010 in riferimento a quest’ultima disposizione debba valere anche per la prima. Ma se la competenza statale sulla “tutela della concorrenza” è prevalente rispetto a quella residuale sui “servizi pubblici locali”, non è chi non veda come non possa mai prodursi alcuna “possibile ridondanza” sulle competenze regionali, per via del ripristino della normativa abrogata dal referendum. Infatti, una “ridondanza” vi può essere quando sull’oggetto di disciplina permane la potestà legislativa regionale; permanenza che, però, in tale caso può escludersi, una volta affermata la prevalente riconducibilità del nucleo essenziale della disciplina alla competenza esclusiva statale sulla “tutela della concorrenza”.
Nel nostro ordinamento, peraltro, se un oggetto di disciplina appartiene alla competenza legislativa esclusiva statale, il solo fatto che il legislatore nazionale rinunci ad esercitare su di essa la propria potestà non comporta l’assegnazione della medesima alle Regioni, né tale evenienza può verificarsi in presenza di un “vuoto” normativo, come quello apertosi a seguito della consultazione referendaria.
Per questa parte, dunque, il percorso argomentativo della Corte soffre di un eccessivo attaccamento al precedente consolidato orientamento, che la porta, pur di riuscire ad arrivare alla pronuncia di merito, ad affermare quanto in precedenza negato, nonostante in più punti della decisione essa stessa si richiami proprio alla sentenza n. 325 del 2010.
Dalla vicenda non può che trarsi la conclusione che l’asimmetria tra Stato e Regioni nell’invocazione dei parametri costituzionali risulta spesso essere un anacronistico retaggio del primo regionalismo, che stride con la posizione assegnata alla Regioni dal nuovo Titolo V, nel quale scompare ogni altra asimmetria, come il controllo di merito sulle leggi regionali e i diversi regimi di controllo preventivo (sulle leggi regionali) e di controllo successivo (su quelle statali).
Le forzature che talvolta, come in questo caso, accompagnano l’affermazione di una lesione indiretta delle competenze regionali potrebbero essere evitate se la Corte mutasse il proprio orientamento giurisprudenziale, agevolando il suo stesso lavoro.
D’altronde, non può negarsi che, nel caso di specie, i ricorsi regionali hanno assolto un’indubbia funzione – per così dire – di “igiene costituzionale”, se sol si pensi che per il loro tramite non è stato posto nel nulla l’esito del referendum del 12-13 giugno 2011, a prescindere da ogni giudizio sulla meritevolezza, o meno, della scelta lì effettuata.
Un revirement della Corte sul punto gioverebbe anche in altre occasioni, in quanto renderebbe possibile un tempestivo esercizio del controllo di costituzionalità sugli atti statali (senza dover attendere l’instaurazione di un giudizio, nel quale sollevare la questione in via incidentale), ma soprattutto riuscirebbe ad “illuminare” alcuni “coni d’ombra” della nostra giustizia costituzionale. Si riuscirebbero, cioè, a rendere più agevolmente giustiziabili alcune discipline, che raramente potrebbero per altra via giungere all’attenzione dello scrutinio di costituzionalità della Corte (ad esempio, la legge elettorale nazionale). 

PAOLO COLASANTE

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