domenica 26 febbraio 2012

Quando il richiamo alla sicurezza e alla protezione del territorio diventa uno strumento per legittimare la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani, a fronte del ricorso effettuato contro i respingimenti verso la Libia di 200 persone di nazionalità somala ed eritrea nella notte tra il 6 e il 7 maggio 2009.
Secondo la Corte, l’Italia si è resa responsabile di gravissime violazioni, prima tra tutte la mancata osservanza dell’art. 3 delle Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che recita: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”; principio, questo, il cui carattere assoluto era già stato affermato dai giudici europei in una precedente sentenza (Chahal c. Regno Unito).
I ricorrenti sarebbero stati esposti al rischio di subire torture e trattamenti inumani non solo in Libia, Paese notoriamente privo di un’adeguata tutela dei diritti umani, ma anche in Somalia ed Eritrea, dove vigono pratiche di detenzione e tortura dei cittadini, che tentino di abbandonare il Paese.
La Corte prosegue motivando il suo disposto sulla base del mancato rispetto del diritto ad un ricorso effettivo, ex art. 13 CEDU –“ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni” – e del divieto di espulsione collettiva sancito dall’art. 4 del Protocollo 4 della stessa Convenzione.
I profughi sarebbero stati respinti dalle autorità nazionali, da un lato, senza dare loro la possibilità di far valere i diritti lesi dinnanzi ad un organo giurisdizionale e, quindi, di invocare una protezione internazionale; dall’altro, senza  una previa verifica della situazione individuale di ciascuno, dei motivi della fuga dal Paese d’origine, negando pertanto il principio di individualità che è alla base del divieto suddetto.

Il “caso Hirsi” trae i suoi presupposti dalla seguente vicenda: nel maggio 2009 le autorità italiane intercettarono, a largo delle coste di Lampedusa, una nave carica di profughi e provvidero immediatamente a rispedirla a Tripoli. Dei  200 migranti, solo 24 furono rintracciati dal Comitato italiano per i rifugiati, che diede mandato a due avvocati dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani di presentare ricorso alla Corte europea. L’Italia è stata condannata ad un risarcimento di 15 mila euro più le spese nei confronti di 22 dei 24 ricorrenti, in quanto due dei ricorsi presentati sono stati giudicati inammissibili.

L’antefatto giuridico è costituito, oltre che dalla discussa normativa italiana sull’immigrazione, dal Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008.
L’art. 19 del suddetto accordo introduceva un meccanismo di lotta all’immigrazione illegale, attraverso la previsione di una rete di controlli, che vedeva, da un lato, la messa a disposizione da parte dell’Italia di nuove motovedette ed equipaggiamenti misti, dall’altro un sistema di telerilevamento per monitorare le frontiere da affidare a società italiane. L’accordo è stato sospeso nel 2011 a seguito della rivoluzione libica.

La sentenza della Corte europea ha un’importanza storica imprescindibile e rende necessario un ripensamento della politica sull’immigrazione; una politica che negli ultimi anni ha celato, dietro legittime ragioni di protezione e sicurezza, considerazioni propagandistiche che poco si adattano ad un efficiente sistema di tutela dei diritti dell’individuo in quanto tale, finendo spesso per scadere nel più ottuso nazionalismo. Occorrerebbe lasciare da parte gli interessi politici e le invettive populiste e “ripartire” dai diritti fondamentali dell’uomo.

ELEONORA CHIERICI

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