mercoledì 21 marzo 2012

L’Unione fa la forza: i piccoli Comuni e la sfida del Patto di stabilità

Per i cinefili “Patto con la morte” è semplicemente un film di Stephen Becker; per i Comuni è sinonimo di un altro Patto: quello di stabilità interno. Introdotto con legge n. 448 del 1998 (art. 28) al fine di responsabilizzare finanziariamente i vari livelli di governo, esso escludeva dall’ambito soggettivo i piccoli Comuni. Questa situazione, però, è ora mutata. Secondo l’art. 25, comma 6, del d.l. n. 1/2012, infatti, dal 2013 sottoposti ai vincoli del patto non saranno solo le Province ed i Comuni con più di 5000 abitanti, ma anche i Comuni con più di 1001 abitanti. A partire dal 2014, invece, cesserà la premialità, da sempre prevista, per le Unioni di Comuni. L’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138/2011, estende la disciplina del Patto alle Unioni costituite da enti con meno di 1000 abitanti. Da un’attenta lettura di quest’ultima disposizione emerge un’incongruenza, se non un vero e proprio vacuum normativo. I Comuni con più di 1001 abitanti potrebbero evitare l’incudine del Patto di stabilità delegando all’Unione di Comuni l’esercizio congiunto di alcune funzioni, in conformità all’art. 32 TUEL. Così facendo, la soggezione al Patto sarebbe circoscritta alle funzioni non trasferite. Lo stesso discorso non può essere svolto, invece, per i Comuni con meno di 1000 abitanti, i quali, dal 2014, non saranno incentivati ad unirsi, nonostante siano i principali beneficiari potenziali della disciplina prevista dall’art. 32 TUEL. Neanche la circolare n. 5/2012 del 14 febbraio della Ragioneria dello Stato, deputata a dettare i criteri interpretativi per l’applicazione della disciplina pattizia, ha fugato i dubbi nutriti in proposito.

L’idea di questo intervento è nata pensando al mio Comune di residenza. A parere di chi scrive, Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbero pensare di dare nuova linfa alla propria organizzazione ridisegnando la loro struttura in un’ottica unitaria, sulla base di quanto affermato in un recente convegno dal dirigente toscano Izzi, secondo cui “il Comune come lo conosciamo oggi non ci sarà più”. L’istituzione dell’Unione, però, consiste in un vero e proprio processo di trasformazione culturale, non privo di ostacoli. In primo luogo, nonostante si viva nell’era della globalizzazione, il virus del campanilismo non è ancora debellato (c.d. "paradigma dell’identità"). In secondo luogo, non sempre l’opinione pubblica è in grado di dare un giudizio completo ("limbo del consenso"), soprattutto per il ricorso a canali comunicativi poco apprezzati dalla popolazione ("Mismatching comunicativo").

Le Unioni di Comuni mostrano molti elementi di comunanza, soprattutto con riferimento alle funzioni delegate. Queste ultime, e le relative risorse, sono definite dallo Statuto, approvato dai Consigli dei Comuni partecipanti, ai sensi dell’art. 32 TUEL. L’obiettivo di ogni singola Unione dovrebbe essere quello di “omogeneizzare verso l’alto i servizi forniti alla popolazione” [Bolgherini]. Per fare ciò, i singoli Comuni rinunciano a fette di competenze in favore dell’ente sovracomunale, che garantirà l’omogeneità dei servizi su tutto il territorio, in termini procedurali, di costi e di offerta. Dall’analisi di alcuni Statuti di Unioni, queste sono le principali funzioni oggetto di gestione congiunta: le attività istituzionali e di segreteria; l’Ufficio per le relazioni col pubblico; la tutela legale; i servizi demografici; i servizi cimiteriali; il personale; le entrate tributarie e i servizi fiscali; gli appalti e i contratti di lavori, servizi e forniture; i servizi statistici, informativi e di e-governament; la polizia municipale; la viabilità, la circolazione e i servizi connessi; la gestione del territorio (catasto, gestione e manutenzione del verde pubblico, vigilanza e controllo antisismico, ecc.); i servizi tecnici, urbanistica ed edilizia; lo sviluppo economico; lo sportello unico delle attività produttive; i servizi sociali; le politiche abitative e le funzioni comunali in materia di edilizia residenziale pubblica; i servizi scolastici; la cultura, il turismo e le attività ricreative; l’agricoltura e l’ambiente; la difesa idrogeologica del territorio; la gestione e la valorizzazione del patrimonio forestale.

Sembrerebbe tutto facile, ma non è così. Quanto alla costituzione di un corpo di polizia municipale (rectius: dell’Unione), le difficoltà attengono essenzialmente alla dipendenza dei vigili urbani dai sindaci. Per esempio, l’Unione Terre di Castelli ha optato per una funzione mista creando un corpo unico di vigili, con presidi in ogni Comune. Non meno complicato è il trasferimento dei servizi demografici. Infatti, molte competenze sono proprie dello Stato e vengono svolte dal Sindaco in qualità di ufficiale civile: non sono delegabili. Last but not least, il trasferimento del personale. Senza dubbio, rappresenta l’elemento fondamentale per l’efficacia dell’Unione, e per la sua durata, sebbene un fattore determinante sia rappresentato dal numero dei Comuni facenti parte dell’Unione. Nel caso prospettato per i Comuni di Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia e Castelnuovo della Daunia, potrebbe verificarsi l’effetto contrario. Il numero esiguo di Comuni potrebbe essere sinonimo di precarietà dell’Unione, il cui fallimento renderebbe problematica la ricollocazione dei dipendenti. Il discorso sarebbe diverso se l’Unione si estendesse anche agli altri comuni contermini. È opportuno ricordare, però, che nella quasi totalità dei casi, il trasferimento del personale ha portato ad una riduzione dello stesso e dei relativi costi, ma anche ad un miglioramento qualitativo della struttura amministrativa e burocratica.

Per concludere vorrei tornare al punto di partenza. Il ricorso all’Unione di Comuni potrebbe essere la strada da seguire per quei Comuni con più di 1000 abitanti, finora mai soggetti al Patto di stabilità interno. Sia chiaro, questo suggerimento non è rivolto ad eludere la norma, ma ha obiettivi più lungimiranti. Nonostante il Patto sia stato violato da una piccola percentuale di enti, la riduzione del debito pubblico è stata piuttosto contenuta. Questo dimostra la miopia o la “stupidità” del Patto. La colpa non è del Patto, ma del Legislatore. A tal proposito, la decisione di dar vita ad un soggetto intercomunale deve essere vista come una sfida d’efficienza, al fine di ottenere risultati migliori rispetto a quelli che si otterrebbero se ci limitasse a rispettare il Patto. La sopravvivenza di alcuni piccoli Comuni, e cioè la maggior parte di quelli italiani, passa dalla capacità di sapersi innovare. Il Patto è un rimedio agli errori del passato, l’innovazione è la sfida per il futuro.


NICOLA PISCIAVINO

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